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Quaderno XIV – Su “Una Madonna che mai appare. Una caduta” di Donaera

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Una Madonna che mai appare. Una caduta” di Andrea Donarea è un cammino in un labirinto di specchi ossidati, dove l’io si intravede nei riflessi senza però riconoscersi completamente e mostrando questa apprensione: la raccolta inserita nel XIV Quaderno italiano di poesia contemporanea tende a un’epifania che viene negata. Il titolo stesso condensa due direttive tematiche che rappresentano efficacemente l’ossatura del libro: una figura altra, che si vorrebbe salvifica (il richiamo religioso non preclude un investimento decisamente più ampio) e il precipitare, o la sensazione di precipitare. Sensazione resa anche nel dettato aspro e teso, che mima un percorso di cognizione in fieri: l’io è incerto e con il fiato corto. Anche perché questa risoluzione è agognata ma non riuscita: sia sul piano lirico, con una sospensione del percorso di salvezza, che non arriva del tutto, sia sul piano estetico, perché la progressione suggerita si fa inghiottire da un certo tradizionalismo sentimentalista, che nell’ultima parte del libro incrina la valutazione di un’opera composita, a strati. Rimane forse – all’interno di un prosimetro che dosa con una certa sapienza le modulazioni del ritmo – l’impressione di un’architettura in qualche modo forzata, che non mantiene fino in fondo le premesse.

Il contrasto, l’accumulo, la ripetizione sono cifre dell’affanno di dire e di non riuscire a dire. Ciò appare – paradossalmente? – con massima evidenza nelle prose: due sezioni su cinque del libro abbandonano infatti l’uso del verso. Da notare anche qui il metodo di titolazione che gioca sull’accostamento di elementi diversi, alla ricerca di una specificazione, un completamento, una devianza (La terrazza. Un orrore., Le pietre. Gli alberi. Un graffio., Il padre. Un’ustione., Il me. Un odio., La falena. Un biancore.). Come se forzando il legame semantico Donaera cercasse di addensare il senso. La linea che porta dall’«orrore» al «biancore» sembra però più una possibilità, è un’ipotesi di vita che rimane nell’interdizione: a tratti potrebbe compiersi, a tratti rivela invece la propria evanescenza. Questa continuità “ascensionale” si traduce anche in termini temporali e in qualche modo lega differenti sequenze coscienziali. Come nel primo poemetto, che riporta il ricordo di un capodanno d’infanzia, macchiato da un incidente:

…uno di noi, eravamo in qualche modo uniti, ma uno di noi, forse il più grande, accese un bengala controvento, controtempo, lo sentimmo urlare, noi di dentro, le nostri madri stanche, lo guardavamo ustionato di un bengala controvento, la mano nera, cosa, cos’era successo, era scoppiato il bengala, qualcosa, era successo qualcosa. (p. 75)

Il discorso si fa in corsa e diventa emblema di una precarietà che esaspera l’esistenza investendo tutto («non avremmo più ricordato niente», p. 76). L’impressione è costruita con la ripetizione schizomorfa e la deformazione espressionista: un «ridere inorridito» compare ossessivamente sulle bocche dei bambini e copre a macchia questa serie di prose. Fino alla fine, quando la prospettiva temporale è rovesciata sconvolgendo la percezione, e la distanza appare d’un tratto immedesimazione:

…ora che siamo uniti, in qualche modo, ancora, ora che noi fumiamo e siamo zii ricchi, ora che siamo a tavola, siamo seduti, ci fanno una foto, siamo, siamo uniti, inorriditi. (p. 80)

Il senso di erosione del tempo permea la raccolta, e spesso l’io sembra talmente raccolto da arrendersi all’inevitabile lontananza dalla vita là fuori («Se qualcosa qui passa | lo fa a noi inosservata», p. 84). Capita quindi di rivolgersi contro se stesso con la coscienza dell’«odio di me più patetico», frutto della difficoltà di reagire alle paure che l’assediano. Viene esposta la cruda contraddizione tra ciò che si sente di essere e ciò che si chiede di essere: ma lo slancio del desiderio sembra ritrovare una piena significazione solo nel legame con l’altro. La sua comparsa funziona da cardine rappresentativo per Donaera: anche una poesia così chiusa e ostinata nell’indagine dei propri abissi fa filtrare la luce di personae per consentire uno scavo ancora più minuzioso, e implacabile.

Come nella serie Il padre. Un’ustione., dove – sotto le costellazioni della lontananza – un’apparizione in sogno agevola con la sua cura straziante l’assemblamento dell’io:

mi scopro essere niente e sgretolato
tu in sogno mi ricomponi, paziente
(pulisci il mio mento sporco di gelato).

L’altro assume una funzione di conforto e ridefinizione, in uno scenario che si vorrebbe secco come i tentativi della scrittura di smuovere un’immagine per volta. Incarna una funzione di delimitazione dell’io, specie nel rischio di perdersi completamente. L’ultima sezione del libro di Donaera ricalca una tradizione salvifica, portando un “tu” al centro di un’opera di redenzione esistenziale, di scoperta assoluta («mi anneghi e mi dai forma, forma che non sapevo», p. 111), avvalendosi però di «una religione dell’amare un po’ ingenua e semplificata» (Castiglione). Insomma, pare che Donaera esprima meglio la dispersione che il riconoscimento: l’agnizione corre troppo vicino alle ossa spolpate di un sentimentalismo irrigidito. Forse è anche per questo che la prima parte dell’opera – specie le prose – ha una fascinazione che spesso sembra mancare altrove.