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#PremioBg19 – Due parole con Giorgio Falco

Pubblichiamo oggi la terza di cinque interviste ai finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2019, che verrà assegnato nell’Auditorium di Piazza Libertà, a Bergamo, sabato 27 aprile 2019. Giorgio Falco è stato il terzo finalista che ha presentato il suo libro, Ipotesi di una sconfitta (Einaudi 2017) al pubblico del Premio. L’abbiamo incontrato nella hall dell’Hotel dei Mille di Bergamo e gli abbiamo rivolto qualche domanda per entrare nel cuore della sua scrittura e delle scelte che l’hanno portato a questo libro.


Ipotesi di una sconfitta è un romanzo autobiografico ma anche un romanzo del lavoro. È un romanzo che racconta la storia dell’autore, Giorgio Falco, attraverso le tappe della sua vita lavorativa. Al tempo stesso il lavoro diventa un mezzo per raccontare un affresco dell’Italia a cavallo tra gli anni Settanta e i primi anni Duemila. La prima domanda è: perché scegliere il lavoro per raccontare una vita e una nazione?

Io ho fatto una selezione di fatti, quindi anche di alcuni dei lavori fatti nella mia vita e questa selezione indica già una distanza dalla materia autobiografica. Questo non è un libro autobiografico, ma un romanzo in cui io uso poco materiale autobiografico concentrandomi sul lavoro. Ad esempio, tutto ciò che riguarda gli affetti, per dire, non è contemplato nel romanzo. Si parla di lavoro, ma anche della gestione dei luoghi, della loro percezione, del cambiamento del linguaggio dal Novecento, possiamo dire, al nostro contemporaneo. Tant’è che ad esempio alcuni personaggi sono identificati da un nome, ma inizia a un certo punto l’era dei soprannomi, fino ad arrivare all’epoca degli username, quindi ai ZZGFA1 ai GFalco, una via di mezzo tra nome e soprannome, un’identità ibrida.

Chi conosce i tuoi libri, penso a Pausa caffè e a L’ubicazione del bene, che mi sembrano in particolare quelli che più hanno attinenza con questo libro (ma anche Sottofondo italiano), riconosce certi aspetti e trova una coerenza di percorso. In particolare, come dicevi tu, molto spesso è proprio il linguaggio lo strumento attraverso il quale riesci a leggere la realtà, la società e il mondo del lavoro. Penso alle pagine dedicate al lavoro dell’ambiente della comunicazione, in cui l’adottare il linguaggio del lavoro diventa un modo da un lato per corrompersi ed entrare in collusione, dall’altro però per sopravvivere.

Sì, è il primo passo quello, quello di accettare il linguaggio. Al tempo stesso, all’interno del linguaggio ci sono sempre degli inciampi. Faccio un esempio: io quando avevo diciassette anni ed ero un liceale, ne parlo nel secondo capitolo, non ho voluto chiedere dei soldi a mio padre per fare una piccola vacanza, che tra l’altro non ho fatto alla fine, e sono andato a lavorare in un capannone dove si producevano spillette, era quasi un qualcosa di ludico. A un certo punto, il padrone del capannone chiamava Bruce Printin, e questo inciampo tutto sommato era quasi quel Novecento lombardo-milanese che resisteva e in qualche modo veniva anch’esso fagocitato dalla creazione del mito. Io, nel mio piccolo, ho contribuito da liceale a edificare il mito di queste star della canzone. Proprio in quell’anno, nel giugno del 1985, Springsteen suonò a San Siro. Io sono andato con il motorino di mia sorella davanti allo stadio, senza alcuna intenzione di entrare, non avevo il biglietto, solo per far parte di questa massa di sfaccendati patiti della gratuità che erano lì e stavano aspettando la visione di Bruce Springsteen sul “grande schermo” – la parola maxischermo doveva ancora essere inventata. Quindi io ero lì perché finalmente l’immagine, la voce, il frastuono dal grande catino di San Siro, direbbe il poeta, tracimava e diventava l’immagine che a stento, per il sole, coloro che erano nel piazzale riuscivano a vedere. Però eravamo lì, eravamo una massa di individui.

Hai parlato di un residuo di Novecento. Il romanzo, come dicevo, racconta una vita, la tua, attraverso il lavoro, ma il primo capitolo – sono quasi cinquanta pagine – è dedicato alla vita e al lavoro di tuo padre. Perché questa posizione, così importante, per raccontare un mondo che nel resto del romanzo si sgretola, viene meno?

Volevo fare un omaggio. Lui aveva fatto per diciassette anni l’autista degli autobus ATM e per diciassette anni l’impiegato della zona in cui lui guidava. Mi piaceva poi una sorta di accensione, il romanzo inizia con una accensione in una fredda mattina di dicembre, per meglio dire con un uomo che si congeda da un mondo, dal barocco siciliano, perché mio padre era siciliano, e a quel barocco preferisce l’accensione, il meccanismo del motore di un autobus prodotto anni prima alla Breda, nel ‘49. Quindi inizia proprio così, con un’accensione. Volevo iniziare in questo modo. Ovviamente però il capitolo finisce con la morte di mio padre, perché non era più in grado di vivere nel contemporaneo. Non era solo una questione clinica, era un’impossibilità a vivere in questo mondo contemporaneo, e proprio per questo motivo il primo lungo capitolo si chiude con me che in qualche modo seppellisco mio padre tramite Google street view, cioè tramite una visita, a otto mesi di distanza dalla sua morte, nel luogo dove lui ha lavorato per tutta una vita. C’è poi una serie di considerazioni su come o cosa noi guardiamo e come questa immaterialità entra persino all’interno dei lutti, che vengono rielaborati grazie a questo mondo asettico, che ho definito il “funerale del presente”, che ci invade continuamente.

Quello che troppo spesso non si dice di questo romanzo, aldilà del tema del lavoro, è che è un romanzo anche comico. Una gran parte dei personaggi che l’io narrante protagonista incontra sui luoghi di lavoro, colleghi e altre figure che lo circondano, sono personaggi da commedia che riescono perfettamente nell’intento di mettere alla berlina una serie di atteggiamenti e di modi di fare.

È vero, mi fa piacere che tu l’abbia sottolineato, perché è un libro anche comico. Ci sono personaggi, come Olaf il vetrinista obeso, Metallizzato, ci sono alcuni personaggi minori che entrano magari per poche righe ma portano nel nome tanto, come Milano Vende Merda. Finalmente poi sono riuscito a trasformare in letteratura una delle mie ossessioni, l’ossessione del ’92, cioè quando volevo aprire un’agenzia e quest’agenzia doveva organizzare degli eventi deprimenti. O meglio, offriva un pacchetto di eventi deprimenti alle élite, a rampolli, figli di grandi manager di stato, aziende private, uomini politici, eccetera. Per alcune pagine spiego quale era la mia teoria, che ovviamente oltre a dare uno sguardo al marketing e alla formazione filosofica e politica dell’uomo di quell’epoca, strizza un po’ l’occhio alle performance degli artisti degli anni Settanta e Ottanta.

A questo punto, come al solito, rivolgo una domanda leggera e banale. Se dovessi dire una caratteristica che potrebbe far vincere il tuo libro in questo premio, quale diresti?

Beh, i giurati si potrebbero impegnare in modo tale da cambiare una parte del titolo e trasformarlo nell’ipotesi di una vittoria, anche se, ecco, questo libro non è la cavalcata picaresca di uno che in qualche modo dice poi “ce l’ho fatta”, questo libro è un romanzo che vuole testimoniare, vuole dire che siamo tutti esattamente nella medesima condizione. Tant’è che a un certo punto io, che ho assegnato tutti questi soprannomi attraverso i decenni, definisco me stesso Mr. Lumpen.