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Vanessa Ambrosecchio e Marco Vespa: romanzi brevi per romanzieri erranti

vespa ambrosecchio

I romanzi di Vanessa Ambrosecchio (Cosa vedi) e Marco Vespa (Tutte le sue grandezze), entrambi usciti per l’editore il Palindromo, saranno presentati nell’ambito di Book Pride – Fiera nazionale dell’editoria indipendente. L’appuntamento è per sabato 16 marzo, ore 17, sala George Eliot. Ambrosecchio e Vespa dialogheranno con lo scrittore Giovanni Pacchiano e con Michele Turazzi, autore di questo articolo.


 

Marco Vespa e Vanessa Ambrosecchio condividono una carriera letteraria errante. Arrivano entrambi da un silenzio romanzesco lungo più di dieci anni (Vespa, undici; Ambrosecchio, quattordici), entrambi hanno legato il proprio nome a editori di qualità (Vespa, minimum fax e Marsilio; Ambrosecchio, Einaudi) ed entrambi sono da poco tornati in libreria grazie al Palindromo, editore indipendente che negli ultimi anni ha portato avanti un discorso narrativo interessante e originale incentrato sulla letteratura siciliana: anche i nostri sono siciliani (Vespa, di Catania; Ambrosecchio, di Palermo) e tutti e due si sono concentrati su una forma a cavallo tra il racconto lungo e il romanzo breve. L’attenzione verso l’ambientazione è un ultimo denominatore comune di due testi per altri versi diversissimi: Vespa e Ambrosecchio rendono, rispettivamente, Catania e Palermo veri personaggi, tanto simbolici quanto fisici, che con i loro rivolgimenti accompagnano e guidano la narrazione. Ma andiamo con ordine.

Cosa vedi di Vanessa Ambrosecchio (il Palindromo 2018, pp. 208, €12) strizza l’occhio alla distopia. Ci troviamo a Palermo: la città è riconoscibilissima, descritta nelle sue vie e nei suoi simboli architettonici e toponomastici (galleria delle Vittorie, via Maqueda, il mercato del Capo…), ma siamo in un tempo altro rispetto al nostro presente, forse un futuro prossimo, più probabilmente un presente alternativo. Tanto per cominciare, non piove da vent’anni. L’aria è pesante, il cielo terso, il sudore umidiccio. Poi, la città appare sventrata. Ci sono gru, tombini scoperchiati, martelli pneumatici, crateri, «scavi denudati», «rovine sconce». È il Grande Cantiere che avanza, «che distrugge per ricostruire, non si sa con che criteri e vincoli, la Città Vecchia». Un’opera pubblico-privata mastodontica che ha preso il via proprio vent’anni prima, quando – ci viene lasciato intendere – la città ha reagito a «stragi» non meglio precisate, con un ultimo, probabilmente inutile moto di sollevamento popolare.

È in questo scenario che si muovono quattro personaggi, individui che condividono un passato misterioso e un presente incerto. Hagar, ex reporter di fama, che si ostina a portare avanti un negozio di fotografia in una zona che sta per essere distrutta dal Grande Cantiere e dove, quindi, non passa mai nessuno. Hyppolite, un francese eccentrico, vicino di bottega e unico amico di Hagar. L’enigmatico Aureliano, che ogni venerdì porta a sviluppare degli scatti della stessa, bellissima donna. «La prima volta le foto di Aureliano ritraevano una donna morta. Distesa in penombra, il seno, le cosce scoperte, un lenzuolo posato sulle spalle come per l’assurdo timore che prendesse freddo» rivela all’inizio del libro il narratore-Hagar, salvo mischiare le carte poche pagine dopo: «Insomma che era lei, che era viva: nient’altro da capire». Infine, il quarto personaggio, l’ultimo a comparire, ma anche quello che diviene ben presto il motore di tutta l’azione: Dana, una modella esteuropea, la donna forse ritratta nelle fotografie E forse in questo romanzo è parola d’ordine: tutto è sfumato, raccontato con reticenza. Il romanzo stesso si basa sull’ambiguità dei loro rapporti, del loro ruolo nel mondo, del loro passato e del loro futuro.

Tutto ciò è possibile grazie a una lingua che racconta senza rivelare, che sa farsi lirica («il vento prende la rincorsa e si fa livido, nella fuga») e terrena allo stesso tempo («otto zampe, due teste, siamesi per il sesso, il tronco, mi rialzo siamo una creatura animale, che brancola nell’inchiostro del suo covo»). Ed è proprio la lingua a sostenere un intreccio che, raccontato da autori con minori doti stilistiche, rischierebbe di risultare un po’ esiguo. Insomma, anche se rimane la curiosità di vedere Ambrosecchio e la sua penna alle prese con una storia più lunga e strutturata, Cosa vedi è un ottimo romanzo breve di un’ottima scrittrice. E la speranza è di non dover attendere altri quattordici anni prima di leggere il suo nuovo lavoro.

Anche Tutte le sue grandezze di Marco Vespa (il Palindromo 2018, pp. 184, €12), come si diceva, è un romanzo breve o racconto lungo. Qui, rispetto alle atmosfere di Ambrosecchio, ci muoviamo in territori più realistici, sia dal punto di vista dei personaggi sia da quello delle situazioni narrate e dell’ambientazione. Ma è un realismo solo di facciata, una patina che non impedisce di scorgere ciò che l’autore vuole realmente raccontare. Basti pensare alla struttura: il romanzo inizia con un terremoto e termina con un altro terremoto; ma se il primo è di lieve entità, il secondo rende palese il proprio valore simbolico. Ci troviamo di fronte a una natura irrequieta, incontrollabile e maestosa, che irrompe sulla scena per spezzare convenzioni sociali e legami interpersonali.

Tutto è reso ancora più evidente dal vero protagonista del romanzo, oltre all’Etna (chiamato sempre «la montagna»): un antico palazzo aristocratico dal «cortile settecentesco», i «putti barocchi», gli «amorini statuari», ormai suddiviso in una serie di appartamenti in affitto. Tutte le sue grandezze si muove tra nobiltà impoverita, borghesia arricchita, nuovo professionismo e vecchie relazioni clientelari: un mondo depauperato di contenuti e ricco di apparenze. Che si trova ad affrontare una catastrofe incipiente nel bel mezzo di una serata che comincia con una cena su un principesco terrazzo da cui si può ammirare «il porto e il mare, le navi, luci e riflessi», si trasforma in un festino a base di whisky e cocaina, e si conclude con «delle belle signore che tra di loro ricavano soddisfazione senza il sostegno dei signori». Lo scontro tra la potenza della natura e questa società in declino, va da sé, sarà impietoso.

Marco Vespa ha un’innegabile abilità, quella di portare le situazioni verso l’eccesso, senza mai indugiarvi, fermandosi un istante prima di rendere il tutto “troppo” (il caso della cena-festino appena citata è emblematico), spesso servendosi in modo intelligente di un’ironia garbata e di una scrittura che fa propri i tic linguistici dei protagonisti. Ma quel che più colpisce è il modo in cui tutta la storia viene raccontata. Ogni tanto si ha infatti l’impressione che il narratore se ne stia seduto in cima a un palazzo molto alto, un grattacielo forse, e che guardi i personaggi da lassù, con in mano una telecamera. Segue i movimenti ora dell’uno ora dell’altro, pronto a zoomare all’improvviso verso un volto, un’espressione, per poi tornare indietro. E allora forse è lecito chiedersi se questo narratore altri non sia che la «montagna» stessa, quell’Etna imperturbabile e imperturbato, che con sguardo distratto getta un’occhiata verso gli inutili affanni degli esseri umani.