Site icon La Balena Bianca

Berlinale 2019: parliamo di umanità

light_of_my_life_film_berlinale_2019

Il fascino della Berlinale consiste nel suo carattere popolare. Lo si evince dalle file chilometriche fuori dai botteghini dei cinema di tutta Berlino, dalla bulimica selezione di film – più di 400 film per 9 sezioni – e da un’attenzione particolare alle tematiche politico-sociali delle pellicole in concorso. “La Berlinale è un festival per il pubblico” è lo slogan di Dieter Kosslick, direttore storico della kermesse berlinese, che saluta dopo 18 anni di intenso lavoro in cui ha cercato di coniugare l’altissima qualità della proposta a un’attenzione particolare anche per l’aspetto fieristico, il mercato del cinema e i suoi mutamenti (si noti la presenza costante di presentazioni di serie targate Netflix). La serata di apertura era tutta per lui, che, visibilmente commosso, si è lasciato andare al racconto di aneddoti divertenti, come quello che lo vede protagonista insieme a Helena Bonham Carter di una sbronza prima della première del film The King’s Speech. A tratti, l’atmosfera della Berlinale sembra assumere i tratti di una divertita festa di paese, con meno glamour e molta umanità.

The Kindness of Strangers (Lone Scherfig)

Ed è proprio lo stato dell’umanità il tema centrale del film di apertura, The Kindness of Strangers di Lone Scherfig, regista di An Education e One Day, che firma un’opera piena di buoni sentimenti e con un finale pieno di speranza. In una fredda Manhattan giungono Clara e i due figli, in fuga dalla violenza di un marito poliziotto sulle loro tracce. La donna si dimostra piena di risorse, ma la vita nella Grande Mela, per chi ha pochi soldi e nemmeno un tetto sulla testa, si trasforma in un inferno, tra piccoli furti e la ricerca incessante di un piatto caldo. Saranno un’infermiera dall’infinita generosità e il gestore di un ristorante russo ad aiutare la protagonista nella difficile impresa di riprendere in mano la sua vita. The Kindness of Strangers è pellicola corale, dove svariati personaggi – ognuno con il suo carico di problemi e umanità – finiscono per incrociarsi lungo la strada, fino a ritrovarsi seduti allo stesso tavolo. Il film di Lone Scherfig, con il suo confortante lieto fine, porta di certo una ventata di positività in un clima politico-sociale che vede crescere egoismi e isolamenti, ma pecca in una resa a tratti fin troppo accademica e una trama che – causa un bassissimo tasso di realismo – trova analogie con quelle dei film di Canale 5 nel periodo natalizio. Dalla pellicola di apertura della Berlinale ci si aspetta decisamente di più, considerati anche i precedenti, come Isle of dogs di Wes Anderson nella scorsa edizione. L’atmosfera alla Frank Capra, conferita da questo manipolo di anime giuste che vengono premiate nella loro faticosa ricerca della felicità, non salva un’opera priva di un’idea originale o di un passaggio memorabile. Da segnalare le interpretazioni di Zoe Kazan – nipote di Elia Kazan e recentemente apprezzata in The Ballad of Buster Scruggs dei fratelli Coen – più che convincente nell’interpretazione di Clara, e del caratterista Bill Nighy, nel ruolo dello stralunato proprietario del locale russo.

Light of My Life (Casey Affleck)

A risollevare le sorti di un inizio in sordina per questa 69esima edizione della Berlinale ci prova Casey Affleck, fratello dell’altrettanto famoso Ben, e tra i più acclamati attori della sua generazione, dopo le ottime prove di Manchester By the Sea e A Ghost Story (provateci a recitare sotto un lenzuolo per gran parte di un film). Light of My Life è il titolo della sua seconda prova da regista, dopo il mockumentary I’m Still Here incentrato sul collega Joaquin Phoenix del 2010, e pare ci siano voluti dieci anni prima che questa storia potesse vedere la luce. A una prima occhiata la storia e l’ambientazione ricordano molto da vicino il romanzo The Road, capolavoro di Cormac McCarthy. Padre e figlio viaggiano attraverso terre desolate di quel che resta di un mondo stravolto. Solo che, in questo caso, a cambiare il volto della terra non c’è nessun disastro ecologico, bensì la scomparsa del genere femminile per mezzo di una misteriosa piaga; e quello che sembra un figlio, per via dei vestiti e dei capelli tagliati cortissimi, è in realtà una figlia, apparentemente una delle poche rappresentanti del genere femminile rimaste. La pellicola si apre con i due distesi nella loro tenda piantata nel bosco. Il padre cerca di raccontare alla figlia una storia, tra mille incertezze ed esitazioni, mescolando l’episodio biblico dell’arca di Noé con improbabili elementi sci-fi e squali mangiauomini. Il racconto sembra interminabile, inquadrato dall’alto con una camera fissa che riprende i protagonisti nel loro bozzolo di tela e plastica. Eppure il senso del film potrebbe essere racchiuso in quest’insolita lunghissima scena introduttiva: un padre in cerca di una nuova narrazione per la sua bambina. Il film è un continuo peregrinare dei due tra foreste, case abbandonate, chiese, in cerca di rifugi lontani da un mondo pericoloso di soli uomini alla deriva, che si riuniscono in branchi predatori o scelgono l’eremitaggio, in cerca di una spiegazione all’imperscrutabile. Non vengono date molte spiegazioni sui fatti avvenuti in passato, ci vengono offerti solo alcuni flashback in cui vediamo la moglie colpita dalla misteriosa malattia. L’intera storia è costellata di momenti di afasia, in cui le risposte alle grandi domande non si trovano e bisogna solamente procedere. Il padre è in grado di spiegare alla figlia la differenza tra morale ed etica, sa piazzare alla perfezione trappole e costruire passaggi segreti; ma non ha idea di come spiegare alla figlia che cosa possono farle quegli uomini cattivi che sembrano tanto interessati a catturarla e che cosa potrebbe succederle nel caso lui dovesse morire. Notevole l’attrice Anna Pniowsky nel ruolo della figlia undicenne Rag, capace di sostenere alla perfezione il duetto con l’intensissimo Affleck. La pellicola però sfrutta eccessivamente gli stilemi di un filone postapocalittico nato più di cinquant’anni fa con Romero e La notte dei morti viventi, finendo per risultare un’opera “facile”, la cui urgenza non è del tutto messa a fuoco.