Site icon La Balena Bianca

The House That Jack Built: l’arte di un serial killer

matt_dillon_the_house_that_jack_built

Parlare di Lars von Trier e del suo ultimo film non è cosa semplice. Ma non siamo qui per giudicare l’uomo, bensì per concentrarci sulla sua opera che ha diviso – e divide ancora – la critica europea. The House That Jack Built racconta gli eventi che spingono Jack (Matt Dillon), ingegnere affetto da disturbi ossessivo-compulsivi, ad affrancarsi da una vita monotona e ripetitiva attraverso una serie di atroci omicidi, compiuti con tecniche fantasiose. L’estetica, la sceneggiatura e le tecniche di ripresa contengono alcuni dei marchi di fabbrica dell’autore, gli stessi alla base del movimento artistico Dogma 95, fondato da Von Trier stesso e da Thomas Vinterberg nel 1995. In quest’ultimo film si possono ritrovare alcuni principi contenuti nel suo manifesto: l’autore filma camera in spalla, seguendo costantemente il personaggio principale; l’espressione pacifica del viso – ripreso molto spesso frontalmente in primo piano – muta con lo scorrere delle sequenze, fino a dar vita a una maschera tragica.

In The House That Jack Built le fonti cinematografiche sono numerose. La storia di Jack è quella di una discesa negli inferi accompagnata dalla voce, e poi dalla presenza fisica, di Verge (Bruno Ganz), un moderno Virgilio di memoria dantesca che ascolta, non senza commentare, la storia raccontata in cinque capitoli dal suo compagno di viaggio. La scelta dei capitoli ci fa pensare al cinema postmoderno di Tarantino, che a sua volta cita la Nouvelle Vague. Si può parlare invece di autocitazione quando Von Trier decide di riutilizzare alcuni fotogrammi dei suoi film precedenti. L’autore, inoltre, decide di sfruttare i codici del cinema horror, personalizzandoli come fece Scorsese con quelli hitchcockiani in Cape FearIl promontorio della paura (1991): i due autori si appropriano della sintassi visiva di un cinema commerciale altamente riconoscibile per creare opere dai tratti autoriali.

Le scene di violenza proposte da Von Trier, filmate con uno stile neutro, ci mostrano la gratuita banalità del male assoluto. Non c’è spazio per la speranza: il dramma si consuma sotto i nostri occhi, occhi coscienti del fatto che la vittima selezionata da Jack non avrà nessuna via d’uscita. I cadaveri che si accumulano in una cella frigorifera diventano fantocci di carne, svuotati della loro umanità, presentati con visi deformati da un carnefice che non esita a modellarne l’espressione, che in certi casi ci ricorda quella delle atellane, le maschere teatrali greco-romane in terracotta. Il regista danese non esita a sfruttare l’iconografia pittorica classica, proponendoci dei tableaux vivants nello stile di Pasolini e delle nature morte ispirate ai pittori olandesi del Seicento. La carneficina compiuta da Jack risulta quindi un pretesto per parlare d’Arte. I dialoghi – rari e spesso legati a riflessioni pseudo-filosofiche – ruotano intorno alla visione che Jack ha della creazione artistica, visione che risulta alla fine stereotipata e limitata. Il serial killer effettua, dopo ogni omicidio, una serie di fotografie che ritraggono le sue vittime, fotografie che si sforza di rendere “artistiche”. Durante una delle sue divagazioni, spiega a Verge la sua volontà di sfruttare dei corpi inermi per comporre, a partire da una materia in decomposizione, un oggetto che assuma Vita Nova. Durante tutto il film, ci si domanda se lo scopo di Jack sia quello di distruggere per creare o, quando si tratta dei suoi progetti architettonici, di creare per distruggere.

I discorsi filosofici sull’Arte lasciano spazio alle peregrinazioni di Jack, incapace di creare dei rapporti umani duraturi. Le sue nevrosi sono quelle di un uomo che preferisce rimanere nella zona di conforto che si è creato: realizzare i suoi sogni significherebbe lanciarsi nella costruzione di qualcosa di imperfetto che richiederebbe troppi sacrifici. Jack, architetto mancato, non è in grado di amare, di fondare una famiglia, di costruire un luogo che chiamerà casa, né di affrontare il prossimo attraverso un dialogo costruttivo. Jack, tra l’altro, non vuole ammettere che la sua vita è, malgrado i suoi desideri non esauditi, meramente mediocre, come mediocri sono i suoi progetti architettonici. Volendo ottenere una gloria che pensa sinceramente di meritare, e volendola ottenere subito, si consacra alla decostruzione, che lascia rapidamente spazio alla distruzione di oggetti e vite umane. Capisce che ci sono altri modi per sfuggire a un anonimato che non riesce a sopportare: commettere degli atti fuori dal comune, poco importa se essi siano immorali o mostruosi.

Jack, uomo dalle nevrosi mai curate e vittima di un’ideologia perversa, non è altro che il prodotto di una cultura occidentale ancora più mostruosa, una cultura individualistica incapace di proteggere i più deboli. La visione di The House That Jack Built è comparabile a uno spaventoso viaggio nei meandri di una mente malata. Arte e filosofia si incrociano senza mai appesantire i capitoli di questa nuova opera; le immagini, iperrealistiche ed estremamente curate, scandiscono un racconto dai toni fantastici che si rivela essere un pugno nello stomaco.