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Un ramingo contemporaneo nel romanzo di Alberto Cellotto

Questo articolo è uscito precedentemente su «La Lettura – Corriere della Sera», che ringraziamo, insieme all’autore, per la disponibilità a riprodurlo.


Un uomo alla soglia dei quarant’anni lascia la moglie, i figli e il lavoro a Treviso per un periodo «sabbatico» da trascorrere in solitudine. Non ha una meta, ma un programma di viaggio che rimodula ogni giorno, abbastanza vago da garantirgli, almeno per un periodo prefissato (tre settimane), di sfuggire alla «fissità ottundente» nella quale sente che la sua vita è bloccata. Si chiama Martino Dossi, e quello che sappiamo di lui è lui stesso a raccontarlo, non a noi lettori ma a una cerchia o per meglio dire a una mezza selva di amici e conoscenti ai quali scrive lettere durante le tappe del suo piccolo tour italiano. Lettere mai spedite, peraltro, ma raccolte e pubblicate da altri; Martino si riprometteva quotidianamente di affrancarle e imbucarle – senza mai decidersi a farlo – forse soltanto per provocarsi una puntura costante, un piccolo assillo morale come una forma residua di aderenza alla vita «pratica». Questo è il quadro sommario di Abbiamo fatto una gran perdita, racconto epistolare di Alberto Cellotto, poeta e traduttore al suo esordio in prosa.

Cellotto costruisce la fisionomia del suo protagonista per via indiziaria, lasciando che siano le sue lettere a dire o a fare intuire il poco che sappiamo di lui, e rinunciando a priori a ogni accentuazione dei tratti psicologici che possa ricondurlo a un «carattere» o a una tipologia precisa di personaggio. Sicché si è portati a restare sulle tracce epistolari di Martino proprio per cercare di ricavarne un identikit che però sfugge sempre, vuoi per le scelte impreviste e a volte assurde che l’uomo mette in atto durante il suo viaggio, vuoi perché la forma dei suoi pensieri è atipica e non permette di desumere un numero sufficiente di costanti. Basta, però, questa curiosità che il personaggio non cessa di provocare fino all’ultima pagina, a rendere dinamico un testo che coraggiosamente – per essere un testo narrativo – elude la trama, sempre che non vogliamo chiamare trama questa forma dolce – una deriva, infine – di slittamento delle parole di Martino sui luoghi che il suo viaggio tocca, dal Veneto al Molise alla Toscana, con una certa predilezione per i centri della provincia profonda (Monselice, San Martino in Pensilis ecc.).

Quello che sappiamo di certo su Martino è che ha intenzione di ricongiungersi alla famiglia, terminato il viaggio, e che non tornerà più a lavorare nell’azienda in cui era impiegato (si è licenziato e spera di trovare nuove opportunità, che però non cerca); che, a eccezione di uno spostamento in aereo, fatto in giornata da Roma a Catania, viaggia in auto su una Honda usurata; che ha una rete molto ampia di amici, conoscenti, corrispondenti. Delle quaranta lettere scritte dai vari hotel che costituiscono la sua residenza provvisoria per – in genere – una sola notte, pochissime sono inviate agli stessi destinatari. Da questo dato possiamo ricavare una delle caratteristiche più sicure della personalità e della vita di Martino: è un uomo che vive generosamente, investendo molte energie, soprattutto intellettuali, in relazioni che ad altri sembrerebbero occasionali, ma che per lui sono invece importanti, sempre, indipendentemente dalla distanza, dal numero di incontri, da considerazioni su una reciprocità che spesso manca. Martino non calcola il dispendio nelle relazioni, anche se il suo è massimo (ecco uno dei significati da attribuire alla «perdita» del titolo), e talvolta unilaterale, una specie di sacrificio; e con le sue lettere chiede sempre senza esigere mai, mentre il segnale assiduo della sua comunicazione (Io sono qui, e tu dove sei? Che fai?) è un invito a esistere rivolto a una piccola folla di presenze riluttanti, fantasmagoriche.

Se il retro-tono di alcune lettere può sembrare venato di polemica o provocazione nei confronti di interlocutori muti, è fatta invece di acuta polemica sociale e culturale la fibra stessa delle idee di Martino, che interrogano insistentemente e a fondo le forme del nostro vivere individuale e comunitario, e il senso residuo di varie espressioni artistiche, dal cinema alla fotografia. Sempre polemica e analitica nella considerazione di ogni fatto umano, la scrittura di Martino non è però mai risentita, anzi mantiene una sua limpidezza e svagatezza morale da disimpegnato, da dilettante e curioso di ogni cosa (anche dell’universo femminile), che gli permette di concedersi delle idee controcorrente senza il gusto della provocazione, come quella di cercare «un posto buono per non pensare a niente», o di considerare il fallimento esistenziale come la «maggiore libertà, anche per noi oggi».

Notevole in questo lavoro di Cellotto è anche l’aderenza della lingua a forme di pensiero poco usuali, che necessitano sia di modalità espressive appena dirozzate e rapide, sia di affondi di grande finezza, anche poetica. Mai citato né alluso, ma profondamente e quasi biologicamente assorbito nel tessuto di questa scrittura, il modello foscoliano delle Ultime lettere di Jacopo Ortis viene qui aggiornato nella figura di un antieroico ramingo, ribelle senza gesto, del principio del secolo XXI.


Alberto Cellotto, Abbiamo fatto una gran perdita, Oèdipus 2018, 112 pp. 12,50€

 

Immagine di copertina: Alberto Cellotto, Serie 10 / Giorni – Mercoledì, libero (70×50, stucco acrilico spago da cucina garze smalto alabastro terre su tela).