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Voce che chiami. Sulla ‘Danza delle vergini e delle vedove’ di Luca Cristiano

Se il campo della letteratura e dell’editoria italiana potesse almeno in parte essere smontato e ricomposto fibra per fibra secondo lo stesso processo di smembramento e di fusione con il quale nella Danza delle vergini e delle vedove (Prospero editore, 2018) Luca Cristiano scompone e riassembla intere porzioni di realtà percepita, l’autore di questi racconti sarebbe adesso da più parti riconosciuto come una fra le voci più promettenti della narrativa contemporanea; i suoi libri e la sua figura sarebbero forse in grado di alimentare un piccolo culto sotterraneo alla maniera di un Burroughs di casa nostra, assediato dai fili di fieno nel sole della campagna toscana e dalla polvere depositata sui cespugli cresciuti tra il cemento da qualche parte giù nel Sud Italia.

 

Il motivo per cui tutto ciò non si è (ancora?) verificato mi sembra possa essere rinvenuto in una serie di equivoci e di colpe da ripartire in misura piuttosto simmetrica tra Luca Cristiano e il mondo. Dove è scritto, infatti, che quest’ultimo debba ritenersi pronto a ricevere la nudità della voce di uno scrittore e che essa possa presentarsi al lettore tenendo fede a una modulazione quasi esclusivamente individuale, ingenua e potente? In una fase in cui la discussione critica su autofiction e poetiche ha portato alla delineazione di un’estetica piuttosto precisa in quanto a misure dell’io, responsabilità etica e coscienza dei limiti dell’esperienza del singolo, Cristiano pubblica una successione di racconti il cui timbro stilistico richiama esplicitamente esperienze di scrittura assolutistica ed ‘eroica’, come quelle di Leopardi, Kafka e Moresco, dove l’io della voce narrante assume su se stesso tutta la responsabilità di stabilire coordinate di realtà quasi mai vincolate a parametri di riproposizione oggettiva della materia.

Nella narrazione intesa come urgenza e senso di necessità si consuma interamente la sfida lanciata dalle diciassette prose della Danza delle vergini e delle vedove:

 

Mentire, meglio mentire, senza dubbio. Ma a lui non riusciva. Inventare, questo sì, almeno fino al momento in cui una voce qualsiasi si alzava di tono, fino al momento in cui l’invenzione era interrotta dal primo sibilo antimaterno, reale.
(Voce sola)

 

Cristiano costruisce una piccola cosmogonia di figure, di ambienti e di sensazioni che, seppur godibilissima nella lettura isolata dei singoli testi, svela il massimo della capacità affabulatoria del suo autore qualora si scelga di concepire il volume come un unico lungo romanzo (un lavoro di rifinitura dell’autore o un editing più accurato avrebbe, in questo senso, potuto esaltare le numerose corrispondenze interne, nonché avrebbe contribuito a smussare alcune fastidiose ripetizioni di ambiente, di tono e di contenuto).

La sensazione di trovarsi di fronte a una narrazione dal respiro lungo (come in certe prove brevi di Kafka) è soprattutto confermata dalla prospettiva assunta dalla voce del narratore, dal modo particolare con cui le singole parole costruiscono un flusso ininterrotto e continuo di tenerezza e di rabbia, spostandosi nell’aria dell’ambiente narrato come se fossero respirate e non effettivamente scandite dal narratore (si veda Piuma, racconto emblema della prima metà del libro).

 

Cristiano àncora la propria esperienza a una fase prerazionale (e quindi ingenua) della conoscenza e, con una certa irrevocabilità, chiede al lettore di fare altrettanto. A me sembra che una tale scelta stabilita a priori contenga in fondo un carattere militante, non indifferente nell’affiliazione a una concezione della letteratura intesa innanzitutto come necessità di specie e che, pertanto, decide di procedere a prescindere da qualsiasi analisi strutturata (e non necessariamente nichilistica) del presente.

L’abilità dell’autore nella creazione di mondi liricamente unici compensa la fiducia concessa alla postura pre-etica della voce narrante.

In maniera analoga a quanto già avveniva nelle poesie di Brucia la cenere, Cristiano parte dalle fibre, dai corpuscoli e dalle molecole degli oggetti, degli spazi e dei corpi per ricomporre poeticamente un universo in cui al dolore e all’amore viene riservato lo stesso trattamento di lacerazione e di successiva, paziente, rifondazione della materia (Lussazione, Fremito di fica).

 

Nelle prove migliori della raccolta tale modo di gestire la narrazione si traduce in racconti brillanti, che costringono il lettore ad adottare la stessa, impietosa, messa a nudo impiegata dalla voce narrante nei numerosi monologhi. In La donna era morbidissima, e nel superamento dell’ironia postmoderna di Dite a Kafka di smetterla di ridere l’accordo tra i dati di realtà filtrati dalla visione straniata del soggetto e la narrazione si trova realizzato in maniera compiuta.

Nel penultimo Rimettere il mandato, gli elementi del racconto sono ridotti al minimo, affidati allo svolgimento di un dialogo tra due voci – quella di Dave e quella di un suo militaresco superiore chiamato «Signore» – che ricorda la maniera del Beckett migliore. Qui, Cristiano dimostra una vocazione teatrale per la caratterizzazione degli spazi (una stanza o, come altrove nel volume, un orizzonte percepito come angusto e opprimente) e, soprattutto, nella delineazione della psicologia dei personaggi-voce, costruita mediante elementi minimi del dialogo, quasi sempre reiterati. La ripetizione e la salmodia lessicale amplificano la percezione e precisano la sensazione:

 

– Cos’è che non stai esercitando, Dave?
– La capacità di mentire, Signore.
– La sincerità dice il vero, Dave?
– No, Signore. Non sempre, Signore.
– Mai Dave. La sincerità dice il bisogno.
(Rimettere il mandato)

 

In tutta la raccolta, il procedimento induttivo nei confronti della componente denotativa del linguaggio è vistoso e costituisce il movimento principale attraverso cui la narrazione si sviluppa. La voce narrante isola una frase o una parola come se il linguaggio fosse un pozzo scuro di argilla ancora indistinta da cui prelevare, attraverso il meccanismo di ripetizione e di variazione, un contenuto di realtà volta per volta da risignificare e da rendere comunicabile:

 

A un certo punto della seduta la psicologa del consultorio nota che […].
A un certo punto della seduta la psicologa del consultorio comincia a […].
A un certo punto della seduta la psicologa del consultorio mi interroga […].
(Riassemblare un passero morto)

 

Uno: stai dentro la stanza e la stanza è piena di mosche. Lente.
Uno: un pipistrello. Troppo vicino alla testa.
Uno: il nome […].
Uno: il nome.
Uno: le mosche lente. Umide. Aria zuccherata.
Uno: troppo vicino alla testa…
(O qualcosa o)

 

Strumento che può interrompere il dilagare dell’informe: il lavoro […].
Strumento che può interrompere la furia concentrica del sogno che divora chi sta sognando: un amante che ti sveglia […].
Piuma. Un gruppo di tre persone. Tensione verso il naturale coalizzarsi due contro uno… Non c’è niente da fare. Piuma. Riflettere sulla questione […].
Piuma. Un dialogo interrotto e una ripresa innaturale della conversazione. Uso di parole di per sé affascinanti come “perineo”, “cosmogonia”, “scolopendra“ e simili. Piuma.
(Piuma)

 

Se in questi racconti il retroterra modernista e novecentesco di Cristiano è recepito in maniera originale, una certa stanchezza affligge il lettore in altri episodi della raccolta, dove la sincerità del narratore non sembra in sé bastevole ad assicurare una tenuta coesa degli strumenti retorici impiegati; questi tradiscono anzi in maniera piuttosto scoperta fonti e modelli dell’autore (lo stream of consciousness joyciano, Lovecraft, King, Foster Wallace e ancora Kafka e Moresco).

È quanto per esempio avviene nel breve Bello il bacio quanto il ricordo? o in alcune zone del lungo Reality Show, dove la voce narrante non presenta una impostazione diversa da quella già sperimentata altrove: l’ennesima ipostasi dell’autore-personaggio, alle prese questa volta con un’architettura del racconto leggermente più ampia del solito, non riesce a produrre un significato ulteriore al generico nichilismo e alla desolante prospettiva descritta, tanto che chi legge è spinto a domandarsi se si è in presenza di un consapevole referto dell’aridità di un paesaggio oppure di una allegoria – il reality show – sfocata e con poca convinzione approfondita.

Si tratta di sbavature in fondo perdonabili per un autore che al suo esordio in prosa dimostra di possedere una vocazione allo sviluppo dell’introspezione psicologica del personaggio e una non comune sensibilità per la narrazione. L’invito rivolto a Cristiano (e, prima ancora, a qualche coraggioso editore) è dunque quello di affinare gli strumenti fin qui adoperati cimentandosi con una prova dalla misura pienamente romanzesca.


Luca Cristiano, La danza delle vergini e delle vedove, Prospero books, Novate Milanese (MI) 2018, 264 pp. 13,00€