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#RAR – “Aspettando i Naufraghi” nella lettura de “Gli imperdonabili”

RAR_Le storie che i libri creano con altri libri: è un progetto letterario e artistico che lavora sul concetto di analogia portando alla luce legami tra opere di autori differenti, anche al di là delle storie che le opere stesse raccontano.
Le recensioni di RAR usano un metodo basato sul confronto di testi, che vengono intrecciati tra loro, come se fossero capitoli di una stessa Storia, che travalica le trame e gli autori. Come se si volesse creare un unico grande libro.


«Poiché tutta intera la natura non è se non una metafora della sopranatura».
Gli imperdonabili, 242

Nel dicembre del 2016 uscì su “Nazione indiana” un racconto di Orso Tosco intitolato Che tutte le farfalle smarrite vadano a casa. Rileggendolo, sembra che quel racconto, per atmosfera e per nomi, rappresenti una specie di allenamento alla scrittura del successivo romanzo, Aspettando i Naufraghi (minimum fax, 2018); il suo germe, conficcato nella battuta finale del racconto: «Il confine tra l’inizio e la fine del Mondo è un buio sorridente che dura troppo a lungo e mai abbastanza», e che, da qui, le maglie si siano allargate e tese fino a modellare il giardino del romanzo. Un giardino caparbiamente fiabesco in cui, con uno sforzo letterale, si potrebbero udire alberi parlare e vedere personaggi assumere le sembianze di fiori giganti in movimento, nell’attesa che i Naufraghi del titolo spazzino via chiunque sia diverso da loro: una moltitudine indefinita né viva né morta che, in qualche modo, si è arrestata prima della parola, all’azione guidata dall’istinto (animale) portatore del bene e del male, come il serpente nell’eden originario.

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I giorni di confine hanno il loro inizio con un suicidio collettivo organizzato per sfuggire all’invasione dei Naufraghi. L’unico a sopravvivere è Massimo, uno dei protagonisti del libro, che tradisce il proprio gruppo per raggiungere il padre malato terminale e il suo di gruppo all’hospice San Giuda, il fantasma di un ospedale che ricorda più una casa occupata che un ricovero, e da cui, invece, è appena scappata Bibiana, o meglio: Santa Bibiana, per fondare una pseudo setta, la Beata Morte, della quale è l’unica voce, l’unica che parla a nome di tutti i suoi seguaci.

Gli abitanti dell’hospice e la Beata Morte sono le due risposte predominanti, in lotta tra loro, ai Naufraghi.

Il magnetismo del confine e l’avvicinarsi del mutamento vengono rimarcati anche dallo stile di Orso Tosco; la lingua del romanzo si popola di ibridi e chimere in cui la natura la fa da padrona, quasi a mettere in evidenza, attraverso il momento di trapasso, le somiglianze visionarie. La metafora diviene il suo elemento distintivo.

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Se si tentasse un’esegesi e di decostruire lo sguardo immaginifico e fiabesco di Aspettando i Naufraghi, una chiave potrebbe venire da alcune pagine de Gli imperdonabili di Cristina Campo, che dell’importanza del come diede perfetta immagine.

A pagina 80 la Campo mette in guardia sulla pericolosità della «carenza di spirito analogico, se non vogliamo dire metaforico, della facoltà compiutamente poetica – profetica – di volgere la realtà in figura, vale a dire in destino». Sta parlando di ciò che è alla base dell’abbruttimento della scrittura, della perdita della sua essenza, che si mantiene, invece, vigile nella sequela di somiglianze e piccole visioni che, in Aspettando i Naufraghi, sono evocate tanto da assumere i toni di una legge.

Lo spirito analogico, quello che a volte è chiamato scrittura del mondo o appetito naturale (o innato) o solidarietà magica o parentela reciproca, trova una costanza che diviene armatura in Aspettando i Naufraghi, senza la quale il romanzo non esisterebbe.

«La pelle color mandorla sbucciata» (106);
«i fiori [che] emanano un giallo talmente intenso da lasciar immaginare che le borse contengano delle torce lasciate accese» (110);
«le narici come le froge di un cavallo» (159);
«le braccia da insetto» (159);
«le labbra simili a larve» (160);
«lo sparo [che] colpisce il Beato dai capelli rossi alla gola, e lui [che] si schiaffeggia il collo con violenza, come a uccidere una zanzara» (161);
«dei proiettili sputati come semi d’anguria» (165);
«Bibiana [che] punta la diga con lo sguardo come le piante fanno con il sole» (172);
«le mura somiglianti a giganteschi gusci d’uova» (175);
«la neve e il ghiaccio simili alla schiuma furente di un mare nella bufera» (176); «Gramigna [che] annegando si sente come un’alga allo sbando» (178);
«Olga vecchia e vuota come una caverna» (180);
«i girasoli [che] somigliavano a corde grigie» (182);
«le alghe [che] pulsano come vene agitate» (183);
«il polso e la mano a mimare una coda» (184).

Gli esempi qui sopra sono solo alcuni degli omaggi del testo a queste parentele, il cui elenco potrebbe andare avanti e occupare quasi lo stesso numero di pagine del libro.

Figure che, in alcune occasioni, sembrano intervenire a favore di un’assenza di morale; a voler ricondurre la bellezza al di là dei fatti, in maniera sprezzante, per dirla sempre con Cristina Campo: «figli falciati dalle raffiche delle mitragliatrici sollevati in aria come coriandoli» (91), fino ad arrivare a immagini che, oltre alla somiglianza che sorregge e soccorre il mondo, e lo ripara, e a insegnare, nella sequela, la lingua del romanzo, indicano con attenzione l’ineffabile per cui sono state chiamate, un passo alla volta, tornando indietro, rendendo un’intuizione (abito laico del profetico qui sopra citato) una certezza, almeno la certezza di una comprensione.

In Aspettando i Naufraghi, questa trasformazione è esplicitata, come una staffetta: per bocca di Bibiana, che intuisce la Beata Morte (50); di Guido, l’ebbro del San Giuda, che non sa nulla della morte però intuisce della vita, della vita che è una caccia (166); e di Gramigna, il visionario del romanzo, che invece capisce, nonostante sia nato matto (65); capisce che dopo l’intuizione arriva la certezza (203), che la possibilità insita nell’intuizione ha un senso quando conduce a una certezza.

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Una possibilità di fare un passo in più nella comprensione di Aspettando i Naufraghi arriva da un secondo passaggio de Gli imperdonabili, dove la voce da filatrice della Campo mantiene tutta la solennità e la serietà di una rivelazione che è una constatazione; che è carne, cui non scappa nessun gruppo, nessun luogo, nessuna estrazione sociale, nessuna generazione; è ancestrale primitiva perenne e più comunemente tradizionale (se non inganna il vincolo del contesto storico), cioè concatena i fatti in maniera naturale.

Scrive così Cristina Campo: «Il ripudio del nome e del predicato di religione negli ordini occidentali è forse la spia più tenebrosa della rinuncia al mandato fra tutti santo e prezioso: confermare, custodire destini. Perché religione non è altro che destino santificato e il massacro universale del simbolo, l’inespiabile crocifissione della bellezza è, l’ho già detto, massacro e crocifissione di destini. L’odio degli splendori tradizionali tramandati in figure non è che un aspetto, e il più eloquente, di quel profondo impulso suicida che i grandi esorcisti scoprono sempre alla radice di una possessione» (121,2). Questo paragrafo è il filtro, la grata, simile a quella cui la bellissima Jade in Aspettando i Naufraghi «sente di somigliare» (102); simile a un «reticolato dei capillari rotti» (112), applicato al romanzo di Orso Tosco nel tentativo di una lettura simbolica.

Aspettando i Naufraghi ha il nome, che è parola («il suo nome è la sua parola», direbbe Simone Weil – e non solo –, guida importantissima della Campo) in Massimo, Guido, Gramigna e gli altri abitanti dell’hospice liberi di parlare; ed è divieto nei Beati, obbligati a obbedire al verbo di Bibiana; ed è assenza nei Naufraghi, tornati allo strato istintuale. Ha il destino, la lotta per esso, in coloro che hanno i nomi; la sua dissolvenza nella massa dei Beati che seguono l’unico stabilito da Bibiana; e la sua scomparsa attraverso Naufraghi. Ha le figure nella lingua balsamica retta dai come; ha i suicidi di fronte al furto del destino, come al principio del libro, capace di spezzare in due l’individuo, che per definizione non sopporta la dualità: è indivisibile. E ha, infine, la possessione in Bibiana.

A questa ostensione di elementi si aggiunge l’acqua, che in Aspettando i Naufraghi è lago ed è diga e che ne Gli imperdonabili è battesimo (sempre 121): cioè il momento in cui viene assegnato il nome e con esso e in esso il destino, in maniera concentrata, quasi un a priori che si svolgerà, come accade, nelle circostanze, e che in Aspettando i Naufraghi è esemplificato, forse con chiarezza, dal matto col soprannome, Gramigna, che ne descrive l’indole e l’essenza, o «dall’acqua [che] schizza con un ritmo tanto preciso da far sembrare la scena simile a una benedizione (AiN, 60)».

Nel romanzo di Tosco, il lago è la morte, verde (153) come i lenzuoli per forza verdi che coprono i cadaveri di Mildred e Karima e degli altri del ricovero dopo l’assalto dei Beati (184); verde, ma anche blu, come l’acqua in cui Massimo si tuffa per salvarsi (215) dalla possessione/ossessione di Santa Bibiana. Una salvezza che torna almeno una decina di volte nel testo e che per la Santa somiglia sempre a una condanna a morte (51) e sta nell’acqua (137); che per Massimo è la traduzione dei soffi (vitali) del padre: «salvami» (55) e «salvati» (141); che per Guido è una «capra sgozzata» (112). Una salvezza che è fatta di frammenti (173), mentre il resto «viene sommerso dall’acqua e sprofonda sino al fondo del lago» (174) (dove lago è sostituibile con morte: sprofonda e muore), «con calma, per diventare sabbia, pronta ad accogliere nuovi materiali» (174), «come fosse concime a un nuovo mondo» (218), custode «di una legge desertica che non può essere compresa al primo sguardo, ma che tantomeno può essere ignorata» (216), in una trasformazione che ha i dettami del rito, va a ritroso, rotola: dal creato al non creato; fine e principio.

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La prosa e le parole della Campo sono una delle diverse chiavi che danno accesso ad Aspetttando i Naufraghi. Altre parole e figure, nel libro di Orso Tosco, si rincorrono come riverberi e segni, dettagli di un disegno coerente, capaci di amplificare il nome, il destino, la salvezza, le ossessioni, il giardino del romanzo che, come in un «campo magnetico (Gi, 29)», alla stregua di una fiaba, è costretto «dalla natura [della] narrazione a far uso di metafore (29)». Cristina Campo ricorda che tal uso di solito è proprio di chi si cimenta con i segreti, consciamente o inconsciamente che sia, come quelli custoditi dai vicoli ciechi, luoghi che sembrano senza uscita, ma che in realtà proteggono con la loro cecità ciò che non si può dire o vedere e i loro avventori.

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«Un tempo il poeta era là per nominare le cose. Come per la prima volta, ci dicevano da bambini, come nel giorno della Creazione. Oggi egli sembra là per accomiatarsi da loro, per ricordarle agli uomini, teneramente, dolorosamente, prima che siano estinte. Per scrivere i loro nomi sull’acqua: forse su quella stessa onda levata che fra poco le avrà travolte.

Un parco ombroso, il verde specchio di un lago corso da bei germani dorati, nel cuore della città, della tormenta di cemento armato. Come non pensare guardandolo: l’ultimo lago, l’ultimo parco ombroso?» (Gli imperdonabili, 149).


 

Orso Tosco, Aspettando i Naufraghi, minimum fax, Roma 2018, 218 pp. 16,00€