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La caduta delle stelle: sull’ultimo romanzo di Iacopo Barison

Fin dove è giusto spingersi per realizzare i propri sogni? Qual è il limite dell’ambizione? E dell’amore? Le stelle cadranno tutte insieme racconta il legame fra tre ragazzi che abbandonano la provincia con un solo obiettivo: diventare famosi. […]
Il romanzo accompagna i protagonisti attraverso una città scintillante e frenetica, eppure piena di ombre, dove ognuno tenta di inseguire la propria idea di felicità tra fantasmi, misteriose sparizioni e avvistamenti UFO.
Ne emerge il primo ritratto veramente lucido della generazione millennial, schiava di una libertà emotiva, sessuale ed economica che non ha dovuto conquistare e dà quindi per scontata

È, questa, parte della descrizione che danno gli store online del secondo romanzo di Iacopo Barison, Le stelle cadranno tutte insieme.

Inizio da qui la mia analisi del libro perché mi sembra necessario rimarcare un difetto sostanziale del testo: si parla – in questa sintesi del contenuto del libro che presumerei dover essere attendibile strumento orientativo per il compratore – di un’arena, quella della città, che con luci e ombre dovrebbe in qualche modo essere protagonista, asse degli agenti e campo di forze nel delinearsi della speculazione narrativa. Si tratta di un’indicazione fasulla: dei quattordici capitoli totali almeno otto non sono ambientati in città e anche nella gran parte di quelli che lo sono le scene si svolgono in interni che poco hanno a che vedere con il rapporto tra l’individuo e la città, la quale quindi non è mai attraversata dai personaggi, quanto piuttosto raggiunta o abbandonata; si tratta infatti più che altro di un appellativo, quello di città, utilizzato dall’autore per abbozzare i confini di un mondo straordinario, quello delle opportunità di successo. Si tratta, invece da parte dell’editore di una mistificazione del contenuto, tanto quanto il parlare di avvistamenti UFO e il lasciar intendere, nelle due domande iniziali, che i personaggi del romanzo metteranno in conflitto un sistema valoriale con la propria ambizione.

Per mostrare questa differenza tra promessa e contenuto è necessario prima di tutto raccontare cosa c’è nel romanzo di Barison.

Per quasi l’intero tempo della storia del protagonista – un ragazzo della provincia di una grande città italiana, orfano di madre e che racconta in prima personaLe stelle cadranno tutte insieme propone di questo personaggio e dei suoi due amici di sempre, Aria e Danny, scampoli della crescita a partire dalla fine del liceo e per oltre dieci anni, raccontando il loro trasferimento nella grande città dove c’è la scuola di cinema – luogo delle loro ambizioni – i loro amori e i loro litigi; la ricerca del successo e come, da quello di loro per il quale arriva, esso viene metabolizzato; come invece viene affrontata la morte di un famigliare.

Lo fa con un intreccio a tempo alternato: i capitoli dispari raccontano infatti momenti della crescita del protagonista, quelli pari sono ambientati durante l’età adulta. I due eventi agglutinanti, i due attrattori costruttivi di questa alternanza sono due punti di rottura con la routine – da una parte della scuola, dall’altra della carriera – due eventi traumatici: la scomparsa del fratello di Aria, dopo la fuga da un centro di recupero per la cura dalla dipendenza di droghe pesanti, e un ictus del padre del protagonista. Barison fa convergere i conflitti relazionali tra i tre personaggi principali su questi due cardini e in prossimità di questi li fa collidere per dipanare la storia della loro amicizia.

È interessante innanzitutto notare come Le stelle cadranno tutte insieme sia prima di tutto la storia della loro amicizia (se non solo di questa) perché questa è se vogliamo la chiave per capire come mai ci sia questa distanza sconcertante tra promessa e contenuto: da una parte c’è l’intento di Barison di operare un’esegesi della concezione dei nati davanti a uno schermo (principalmente quello televisivo, perché in questo libro di influssi dall’età dell’informatica c’è veramente poco e niente), un intento che spesso si risolve nel tentativo di rappresentazione scenica del distacco dalla realtà; dall’altra c’è appunto l’amicizia, che opera da trasformatore: fagocita ogni scena e la trasla, nell’ottica del lettore, nello spazio delle relazioni.

Su questo meccanismo, l’autore non ha sufficiente controllo, e ne è lampante dimostrazione una scena chiave: quella della pistola rubata.

Non troppo lontano dall’inizio della storia i tre protagonisti rubano una pistola a una guardia notturna per poter con quella girare il cortometraggio da presentare come prova di ammissione alla scuola di cinema. Più tardi nel libro questa pistola tornerà propiziando un evento tragico. È chiaro che l’intento sia quello di utilizzare un meccanismo di spettacolarizzazione per trasmettere questa tragicità del “distacco per l’obiettivo della fama”, ma tanto è ragionata, organizzata la successione di questi eventi, tanto è priva di una giustificazione realmente solida sotto il profilo della psicologia dei personaggi rispetto alla ricerca del successo – sono solo ragazzini e stanno solo giocando, non c’è una necessità del gesto – da risultare completamente artefatta: così l’unica cosa che riesce a metabolizzare il lettore è l’importanza di quel momento per la storia della loro amicizia.

Ora, quello che mi chiedo non è tanto perché l’autore abbia perso il controllo della finalità della scena, quanto perché l’editore – che ha deciso di pubblicizzare il libro come un romanzo che prende quel tipo di direzione esegetica – non abbia avuto la lucidità di ammettere che in realtà era solamente qualcos’altro.

In effetti a posteriori questo non sorprende, essendo uno dei nodi problematici del testo una certa trascuratezza in fase di revisione.

È qui necessario portare degli esempi. Per quanto riguarda la lingua, quella di Barison ha tendenze spiccate alla paratassi, è una lingua semplice e dalle poche soluzioni sintattiche che rende al meglio quando la naturale tendenza all’icasticità della costruzione premia il disincanto di una battuta di spirito creando una voce sobria e pungente («Ora abbiamo 100 km di silenzi da riempire con le nostre voci. Chiudo gli occhi, per fortuna mi addormento subito»), ma sembra non essere in grado di supportare il respiro necessario per evitare la caduta in alcune formulazioni banali, al limite dell’insignificante («La menzogna mi esce d’istinto, prima che me ne accorga. La fantasia, d’altronde, è l’arma più potente che abbiamo», «La velocità con cui cambiamo tempo verbale per riferirci a qualcuno è scoraggiante – ci abituiamo in fretta alle persone che ci circondano, ma anche alla loro assenza»).

Ne risulta un testo dalla grande leggibilità, una leggibilità che tuttavia, nel momento di girare attorno ai concetti stride – nella semplificazione che ne propone – con un’aspirazione di profondità chiara già dall’apparato simbolico che l’autore tenta di sviluppare (per non parlare del fatto che in maniera non sottile, il testo stesso – velato di meta-testualità per la sua natura di racconto di uno sceneggiatore – dichiara la necessità di perdersi, di abbandonare la scolasticità della costruzione). A questa tendenza generale si somma una complessiva negligenza nella revisione, che sembra non aver posto l’attenzione sulla sciatteria di alcune soluzioni retoriche («C’è anche un televisore e un divano beige, la cui tonalità ricorda le foglie morte che cadono in autunno», «Il suo umore era sempre stato così, soggetto a picchi e crolli improvvisi come gli indici di borsa, con la differenza che il Dow Jones oscillava per una ragione, mentre i suoi stati d’animo no.») che indispongono il lettore smaliziato anche in vista di momenti felici.

È interessante anche notare come la lingua che utilizza qui Barison sia una lingua adatta alla storia di amicizia, ma meno allo scandagliamento delle profondità psicologiche del ragazzo moderno.

 

Per quanto riguarda l’architettura espressiva del testo, questa si mostra fatta per lo più di espedienti. e nonostante Barison miri alla rappresentazione di un universo, quello della prima generazione informaticamente alfabetizzata, che fa del mutamento delle forme espressive uno dei fattori di diversità nonché un innegabile nodo di influenza per la modificazione dei presupposti psicologici dell’individuo, non si percepisce mai la ricerca di un gergo adatto, di un’estetica propria e innovativa, quanto più la convinzione che contemporaneo significhi disordinato e scevro dalle regole, in ultima analisi quindi spazio bozza libero.

È sufficiente vedere l’incipit del romanzo:

E poi?
L’acqua defluisce dalle grondaie, le buche diventano pozzanghere e i lampi illuminano le villette a schiera. Qui, nel mio letto, sono le 03:44. A Los Angeles, invece, sono le 18:44 e Cameron Diaz ha appena twittato un articolo sulle vittime della diarrea in Etiopia. Vorrei parlare con qualcuno, sentire una voce in risposta alla mia. A New York sono le 21:44, il cielo è nuvoloso e più scuro del solito e Hugh Jackman ha ordinato un dolce che su Instagram sta riscuotendo un ampio consenso.
La televisione a volume zero, le lenzuola gettate sul pavimento.

Il passaggio denota una precisa volontà espressiva, è chiaro qui il tentativo di porre l’accento su un’intertestualità dei riferimenti, di mettersi al servizio di un’idea di connessione isterizzante. Tale volontà purtroppo non ha particolare seguito, perdendosi poco a poco e venendo imperdonabilmente dimenticata, divenendo addirittura ininfluente nella ricezione del testo, come mostrano alcuni tentativi di rappresentare conversazioni di messaggistica sui dispositivi mobili, intuizioni che non sono state intercettate e amplificate a dovere, in modo da farle entrare in risonanza con struttura e contenuto.

Oltre a questo, c’è un feticismo che l’autore dimostra per la descrizione dettagliata di movimenti e interazioni dei personaggi, per le descrizioni fisiche delle comparse, per i dettagli in generale; se questa scelta va nella direzione della ricerca di un iperrealismo come carattere fondamentale del filtro visivo dell’individuo contemporaneo è giustificabile solamente nei momenti in cui lo sguardo si concentra sull’enumerazione di marche e modelli – momenti sporadici, ancora una volta, e mai spinti a fondo fino al punto da diventare cardini estetici – e risulta infarcire il testo di attimi trascurabili, movimenti superflui che diluiscono le scene realmente importanti (penso ad esempio al capitolo IV, in cui una lunghissima quanto noiosa scena con Zoe, voce narrante femminile, ci conduce dopo una grande sofferenza all’informazione che ci interessa veramente, ovvero che il padre è finito in ospedale e versa in condizioni gravi; quando si arriva alla questione, magicamente diventa interessante anche ciò che dice e come lo fa, ma che fatica).

Si può poi parlare della gestione del punto di vista, che traballa per via di un dubbio di fondo: non è chiaro infatti quale sia il dispositivo che permette alla prima persona di estraniarsi e diventare narratore onnisciente, e infatti questo avviene tutte le volte in cui all’autore fa comodo, senza una continuità specifica e – anche volendo concedere lo straniamento di alcuni momenti fondamentali, come la scena della rapina della pistola –, cosa peggiore, per delle incursioni del tutto sterili nel punto di vista altrui o nella realtà oggettiva ma non immediatamente disponibile ai sensi del protagonista.

Il terzo punto, cruciale per giustificare la mia percezione di una superficialità nel lavoro sul testo, è il modo in cui sono costruiti i dei dialoghi.

C’è da premettere una cosa: Barison ha talento in questo. Non solo i dialoghi risultano molto spontanei, grazie allo sfruttamento di espedienti di conversazione e alla corretta formulazione del sottotesto, ma presentano variazioni nella sovranità della conversazione che li rendono sempre cruciali e mai sterili. C’è tuttavia un problema, che mi sento di imputare più che altro a una scarsa sensibilità nel ritocco del materiale: alcuni di questi dialoghi non si concedono il giusto spazio per maturare. Voglio fare un esempio:

Mentre guardava in cagnesco la compressione di bollito, ho capito definitivamente che potarlo lì era stato un errore. Alle tre consistenze di panettone, quando ha iniziato a parlare di Aria, ne ho avuto un’ulteriore conferma.
“L’ho vista al supermercato”, ha esordito. “Sembrava felice”.
“Ti spiacerebbe cambiare discorso?”
“Mi ha chiesto come stavi, ha detto di salutarti”.
“Non è vero”, ho ribattuto, sapendo che poteva anche essere vero.
“Invece sì, aveva un nuovo taglio di capelli ed era in coda al reparto macelleria”.
“Neanche questo è vero”.
“Perché dovrei mentirti?”
Aria ha sempre avuto gli stessi capelli. Il pensiero di cambiare taglio la terrorizzava”.
“Adesso li ha più corti”.
“…”
“All’altezza delle spalle”.
“Inoltre è vegetariana, non mangia carne da quando è morto Cinemascope”.
“Non so che dirti”.
“Dimmi la verità”.
“Te l’ho appena detta”, ha risposto. “L’ho vista al supermercato, aveva i capelli corti e sembrava felice”.
“Ti avevo chiesto di cambiare discorso. Perché non l’hai fatto?”
“Credevo che volessi saperlo”.
“No, tu eri convinto che dovessi saperlo. È diverso”.
“Mi dispiace, non volevo rovinare l’atmosfera”.
“L’avevi già rovinata, se è per questo. L’hai rovinata fin dall’inizio, parlando dei soldi che non crescono sugli alberi e dell’acqua di sedano e dei soldi in senso assoluto, chiudendoti nel solito atteggiamento iroso. Per una volta, una soltanto, non potevi essere felice e magari ringraziarmi? Anche i padri hanno il dovere di ringraziare i figli, ma tu sei ostinato e credi che sia vero solo il contrario. I figli devono ringraziare i padri per tutti i loro sacrifici, per non avergli fatto mancare nulla, per la casa, i vestiti, i Blu-ray, per avergli pagato la scuola di cinema. La verità è che non te ne frega niente, né di me, né dei miei film, né di quello che c’è stato con Aria.” A quel punto, seppur discutessimo a bassa voce, il resto della sala ci stava guardando e alcuni provavano a origliare. 

Il rilascio della tensione, che pure è concettualmente corretto, qua deve essere ritardato poiché così com’è l’esplosione è prematura, nonostante la progressione sia costruita e i punti strutturali ci siano tutti. Le resistenze del protagonista non possono essere così deboli, ci sarebbe bisogno di un respiro in più: ne deduco che il problema sia che su questa scena non si è riflettuto a sufficienza. Ma non si tratta di un caso isolato, ed è un peccato perché davvero i dialoghi sono uno dei punti forti di questo romanzo.

Volendo, in ogni caso, approfondire gli aspetti positivi di Le stelle cadranno tutte insieme, c’è sicuramente da annoverare tra essi la capacità simbolica dell’autore, il quale fertilizza un territorio anonimo di immagini di straniamento e trapasso che, ricorrendo ostinatamente (dal dramma di Aria, che comunica con i morti, alle sparizioni senza spiegazione di celebrità e tecnici del mondo del cinema), rimandano al nucleo conflittuale di questo libro, la ricerca di un sentire forte contro lo straniamento del mondo contemporaneo, in un modo ossessivo ma non esplicito, in grado di creare un’atmosfera di sdoppiamento del piano del reale – e questa è secondo me la vera arena del romanzo – in cui è possibile sperimentare l’alienazione.

È un peccato che a questa costruzione di Barison non coincida un altrettanto sapiente sviluppo dei presupposti dell’alienazione: l’autore sembra infatti darli per scontati e mai nel romanzo si percepisce un tentativo di dissotterramento delle radici né una vera e propria pressione del mondo esterno, e quindi una vera e propria giustificazione dello straniamento. I personaggi combattono contro qualcosa – la fiera delle vanità nel mondo della celebrità a portata di mano – che fa parte di loro geneticamente senza essere mai dimostrato e per questo il libro non può mai parlare di «fin dove sia giusto spingersi per realizzare i propri sogni», ma piuttosto di quali sono le conseguenze di un’alienazione che, per la sua natura, assomiglia a una metafisica del fantasma.

In definitiva credo che sia questo il fatto: Le stelle cadranno tutte insieme non è complessivamente un brutto romanzo, ma vive di espedienti, bei dialoghi, trovate intelligenti abbandonate a loro stesse in un prodotto che non è stato raffinato e in cui, quindi, alcuni elementi in contraddizione fra loro non riescono a far emergere una risonanza, una riflessione unitaria, una voce che emerga con forza dal luogo comune.

Il romanzo di Barison è godibile se si ha del tempo libero, ma è una lettura della quale si può fare a meno e che forse un lavoro editoriale più attento avrebbe potuto rendere, date alcune capacità dell’autore, un libro compiuto, sicuramente più interessante.


Iacopo Barison, Le stelle cadranno tutte insieme, Fandango, Roma 2018, 280 pp. 17,50€