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Dialogo su “Verticale”: Lotter – Castiglione

Cara Maddalena,

oggi mi sono ritagliato il tempo necessario per rileggermi con attenzione il tuo Verticale. Ti dirò, sono stato tentato di recensirlo, e l’avrei senz’altro fatto se tutto il libro fosse stato dello stesso tenore della prima sezione. D’ora in poi infatti recensirò solo i libri che reputo importanti o attorno cui mi preme fare un discorso da condividere con tutti. In caso contrario, trovo più proficuo (e aperto, dialogicamente parlando) adottare il modus della nota personale, che sarà resa pubblica solo se entrambe le parti lo vorranno.

Emergono bellezza interiore e integrità da queste poesie, e questa è una cosa abbastanza rara di questi tempi. Anche nelle meno riuscite c’è comunque un’aderenza, una necessità di dire che non vuole mettersi in mostra. C’è insomma l’autenticità di chi ha attraversato l’esperienza, anche solo una particella di esperienza, distillandola e rendendola accessibile in una sorta di compostezza classica. Credo che la grandezza si raggiunga solo quando quelle che chiamo autenticità e ambizione si fondono. Oggi leggo molte cose di una qualche ambizione, specie fra i coetanei, ma spesso mi sembrano pretenziose perché chi le scrive sembra aver fretta, cercare il riconoscimento, mostrare i muscoli nello stile o nell’impianto testuale. E invece in quello che scrivi vedo un’umiltà, sincerità e apertura che non dubiterei per un momento e che ti auguro di conservare. Lo dico con convinzione perché mi fido di come ho reagito – con emozione trattenuta, ma vera – ad alcuni versi e immagini. Poco importa se, per il momento, l’ambizione e l’ampiezza sono ridotte, o se (specie nella seconda parte della raccolta – più tardi procederò a una disamina) la tua autenticità non si è spinta oltre situazioni intimistiche, d’impianto duale, che paiono riproporre una sorta di lirismo femminile poco conflittuale, una diffusa sensazione di dejà vu con pochi sbocchi esplorativi e conoscitivi per il lettore.

Passiamo all’analisi vera e propria. Anzitutto, mi ha colpito che tutte le sezioni – a eccezione di quella eponima – siano formulate come domande, benché prive del segno d’interpunzione. C’è un’attitudine interrogante e auto-interrogante in molte poesie (e infatti «e io invece che li sento arrivare | tutti i quesiti del mondo», p. 54), e di rado queste offrono risposte dirette. Anzi una loro strategia è proprio quella di restare sottilmente enigmatiche, come delle allegorie potenziali al confine con la notazione distaccata. In sostanza, lasciano esse stesse un ulteriore punto di domanda al lettore.

La prima sezione. Il tema del radicamento, dell’origine, si coniuga a un territorialismo degli affetti e dell’esperienza, a qualcosa di circostanziato, che si tiene al riparo dai rischi di una poesia orfica a buon mercato. Il “noi” è chiaramente collettivo, o meglio comunitario. La notizia del primo testo (p. 17) non farebbe notizia altrove, ma è notizia perché cementa le persone, che hanno qualcosa di condiviso di cui parlare. Significativa l’epifora di anno, perché funzionale all’idea circolare di ripetizione, di un tempo agreste (la campagna e i boschi sono presenze importanti in tutto il libro, come dirò poi). Qui come praticamente sempre, lo stile è scabro e spoglio all’essenziale (Fiori, Neri?), senza ammiccamenti, accettando il rischio, se non proprio di anonimia, di indistinzione – c’è in questo una maturità notevole, un patto molto severo verso se stessi. La forma classica la leggo come strategia di raziocinio, nitore, spirito apollineo. Come un restraint che, se da un lato limita l’ampiezza del tuo poetare, dall’altro lo porta ad articolare in modo invidiabile un pensiero, o una fleeting sensation, un’epifania interiore o a rievocare aneddoti e storie in qualche modo costruttive o esemplari.

La poesia Fratelli illustra chiaramente il senso quasi animistico, universalista, di fusione con la natura, che ti muove: il riconoscere nell’albero la tua stessa malattia, seppure non ti trasforma in albero come Dafne, ti avvicina a questo estremo di fusione. La fusione c’è anche fra violenza e fiaba, come nel bellissimo perché stridente «le teste mozze di cervi incantati» (p. 20), dove il dato brutalmente materiale (teste mozze) si accompagna alla ricucitura, al salvataggio, dato che incantato può apparire il cervo ignaro un secondo prima di essere trafitto. Nella stessa poesia trovo molto efficace «quella cosa delle teste» perché combina stile orale e l’understatement di qualcosa che, proprio per la fretta con cui viene menzionato, si vorrebbe forse rimuovere. Cipressi (p. 22) è più debole, forse l’esortazione iniziale un po’ leziosa, ma i due versi finali («[…] i cipressi nel cimitero | devono stare: lunghi e neri | come tendini che legano i corpi al cielo») sono efficaci nella loro immagine che rimanda a un dipinto surrealista, alla Dalì. Stesse riserve ho per Veglia (p. 23), perché lo spunto potenzialmente interessante (il che ancora una volta significa che sai “ascoltare”) non va oltre la trascrizione dell’episodio, nella speranza che questo possa significare in sé, alleggerire chi scrive dall’onere di apportarvi un proprio quid.

Mi convince molto invece il brevissimo testo a p. 24 (Strade), non ultimo per i suoi risvolti femministi: se, da un lato, alle esplorazioni della bambina viene imposto un limite fisico, dall’altro questo stesso limite incoraggia un potenziamento della sua facoltà immaginativa. Del testo Presenze (p. 25) ti ringrazio a titolo personale: il verso «era chiaro allora che niente è vuoto» (che decontestualizzato suona un po’ slogan ruffiano, ma invece nel testo funziona benissimo) è anche un mio manifesto contro questa vena cinico-nichilista, sottilmente indulgente verso se stessa, che vedo intorno (Mazzoni e Burratti, in forme un po’ diverse, e pur avendo scritto due splendidi libri). Quanto le metafore siano non ornamentali ma ficcanti lo si capisce dal testo di pagina 27 (Amici): le ossa sono giunchi non solo in omaggio alla potenzialità di trasformazione del corpo in albero in quella poesia precedente (quindi il topos corpo-pianta), ma le ossa dei bambini sono fragili, e quindi il giunco è adatto a esprimerne la somiglianza. Il «cattivo odore di galera» può essere una premonizione di morte: non a caso parli di ossa, non di membra, e in un’altra poesia ti riferisci a un «amico suicida» (p. 79).

Mi sono fermato a lungo su questa sezione perché appunto mi sembra la più promettente. Certo, nella sezione Chi ci sono alcune immagini memorabili («la pioggia come un padre che alza la voce» fra tutte), ma queste poesie di relazione a due (con madre o amante?), che diventano preponderanti nelle sezioni successive, dicono più scopertamente della tua psicologia che di qualcosa che in qualche modo la trascenda, come avviene invece nella prima sezione. Sono insomma percorse da quel ripiegamento intimo, dal quel lirismo femminile (uso l’aggettivo come una scorciatoia euristica, una semplificazione con un fondo di verità, pur sapendo di irritarti) che spesso ho letto altrove, e che – come del resto altre attitudini testuali troppo facilmente circoscrivibili – ha finito con lo stancarmi.

Tale postura, benché non renda epigonica la tua poesia, la inscrive in una certa aria di famiglia dove la remissività prevale sull’attitudine agonica o quantomeno dialettica. Eccone alcuni tratti salienti: 1. la mitizzazione dell’altro nell’imperfetto mitico di «e tu albeggiavi» (p. 36); 2. il desiderio di protezione, confessato in una dizione fin troppo letterale, di «rimpicciolire ad occhi chiusi | nell’abbraccio di un uomo» (p. 47; vedi Giulia Rusconi: «io non cerco che una mano | grande che mi copra tutta la faccia | non mi faccia invecchiare» – leggo in entrambi i passaggi una volontà di auto-diminuzione); 3. il topos corpo-casa («il mio corpo era la casa», p. 48 – questo topos trasversale ai due generi, a dire il vero, vedi Pierluigi Cappello: «il mio corpo sta come una casa in cui si piange»; ma il corpo in prima persona è smaccatamente femminile, vedi Antonia Pozzi: «guarda: pallida è la carne mia»); la richiesta sensuale, ma senza sbocchi oltre sé, e con una specie di rassegnazione che mi sembra di leggere fra le righe, «lasciami in bocca la tua lingua | senza promesse, per giocare | per lasciarmi leggermente trasportare» (p. 67; non aiuta la rima grammaticale).

Ecco, questi sono tutti movimenti autentici, ma esteticamente (mi) offrono poco, proprio perché si rifanno a uno schema psicologico ben definibile, che viene assecondato anziché messo in crisi nel farsi della composizione. Ovviamente, direi lo stesso degli autori maschi (molti, e me compreso in certe prove…) che idealizzano la figura femminile, raggelandola anziché problematizzarla. Non è dunque (solo) una questione di generi ma di monoliticità. Ti preferisco di gran lunga quando scrivi «tutti i giorni impariamo a imitarci | come fanno le scimmie» (p. 41): sia per il carattere più universale delle riflessioni che ne scaturiscono (l’amore come attenzione all’altro, accoglienza che modifica sé, ma anche in questo limitazione della propria libertà, o meglio del ventaglio di atteggiamenti che possiamo far nostro), e anche perché finalmente leggo “le scimmie” con valore positivo, per una delle prime volte dai tempi di Darwin! Ma questo rientra nella tua aderenza, non gridata ma non meno vera, a una certa selvatichezza, spesso espressa con l’ausilio di correlativi oggettivi tratti dalla natura. Bella anche l’altra idea (p. 53) dell’insonnia come allarme, vigilia per difendere l’altro – qui c’è una postura che secondo me “riscatta” il tuo io lirico, mostrandone un lato più ferino, e dunque intrigante.

Interessanti anche le considerazioni sull’invecchiamento e sullo scorrere del tempo, sulla “trentina triste” – fra l’altro ho scoperto proprio oggi che esiste una parola, midsummer, che esprime la fine della giovinezza, dopo i 26, quando tutto comincia a scorrere più veloce e la consapevolezza di un tempo progressivo, non ciclico, inizia a mordere. Dei due luoghi testuali che accennano alla volontà di farsi sottili, preferisco di gran lunga il primo: l’immagine dello spazio fra due cose o dell’idea che nasce (p. 61) è molto più evocativa che l’acerbità estetica della dichiarazione netta, un po’ ingenua, di «sogno di pesare ogni giorno di meno | e poi a sparire come le fate» (p. 75). Posture sentenziose e regressive («la nascita è il male», p. 74) si trovano un po’ più spesso verso la fine, sembrano abiurare la maturità così piena della prima sezione. Infine, mi sembra acerba la poesia a p. 66 (quadretto veneziano un po’ ingessato, letterario, forse uno dei pochi punti non autentici del libro) e troppo penniana quella a p. 65 (il finale, «sanno di bucato i ragazzi», e mi piace poco il gioco di parole su sanno).

Ho scritto tanto, paginate, e devo smettere. Magari avremo modo di parlare di queste e altre cose dal vivo. Ti saluto chiedendoti: perché il titolo è “Verticale”? non vedo grandi collegamenti con lo spirito delle poesie (“verticale” suggerisce uno slancio in su, una sottigliezza al limite suggerita dalle allusioni in odor di anoressia, ma nel libro c’è molto più terriccio, umidore, senso liminale di accoglienza e difesa).

Un abbraccio,

Davide

Vilnius, 6 gennaio 2017

 Risposta dell’autrice

Caro Davide,

Ti ringrazio per la sincerità con cui hai parlato del mio libro (è la seconda o la terza volta che qualcuno lo fa con me).

Ti rispondo subito alla questione del titolo: chi ha detto che la verticalità sia un movimento che va unicamente verso l’alto? Io l’ho inteso in entrambi i modi. Verticale come un ‘bisogno’ di aria (l’aria è un elemento ricorrente anche nelle ultime sezioni), una tensione anti-materica, ma anche Verticale come capacità di ancorarsi a questa vita, al qui-e-adesso (sono molto legata in questo alla lettura dei classici, una letteratura pagana che ama la vita terrena). La verticalità di cui volevo parlare viaggia lungo queste due direzioni, che poi convergono in un’unica ricerca, che Simone Weil aveva genialmente intuito: Weil la chiama grazia, quel movimento per cui le cose non cadono pesantemente verso il basso, ma ci si approssimano. È una differenza sostanziale per la qualità della vita. La verticalità è quindi quando troviamo un sano attaccamento alla vita, nutrito anche di distacchi, è il desiderio di stare qui fino alla fine nonostante la vita sia per lo più dolore. Come sappiamo entrambi, “niente è vuoto”, e il nichilismo per me è una soluzione comoda, il nichilismo è d’effetto. Non è poi così difficile scrivere poesie che parlano del malessere. Più difficile e ben più doloroso è accettare che la vita si trovi al di là del bene e del male, e cercare di scrivere di questo.

Condivido il tuo parere sulla forza della prima sezione rispetto alle seguenti, specialmente per una questione di coerenza e di compattezza dei testi fra loro, sebbene qualsiasi testo tu prenda da Verticale sia collocabile nell’architettura del libro, che mi sembra piuttosto chiara: la divisione in periodo dell’infanzia, periodo dell’adolescenza e periodo dell’età adulta. Però è vero che la prima sezione conserva anche una sua coesione interna che nella terza sezione si perde. Del resto la terza sezione è quella più aperta proprio perché l’età adulta rappresenta un’incognita per l’io che scrive. Il gioco voleva essere un po’ questo.

La seconda sezione: “Chi”, a te è parsa “troppo femminile”. Non condivido quando usi per me l’aggettivo “femminile” come qualcosa che mi potrebbe “penalizzare” nella scrittura: io scrivo secondo la mia sensibilità, che è quella che è. Non voglio ora entrare nel discorso “scrittura maschile”/”scrittura femminile” perché per quanto a volte mi sembri un discorso importante, tante altre volte mi sembra invece un discorso pedante. La scrittura è un prodotto degli esseri umani e delle esperienze che hanno vissuto o immaginato, filtrato attraverso la sensibilità che a ognuno è stata data in sorte: io ho la mia, che è fatta anche di quella che tu hai definito “accoglienza”. Non mi vergogno di scrivere anche di accoglienza e di relazioni. Non mi vergogno, onestamente, nemmeno di sembrare materna.

In ogni caso ho capito il tuo discorso: concordo quando dici che preferisci le mie scimmie all’immagine di me che rimpicciolisco nell’abbraccio di un uomo, le preferisco anch’io; è allo stesso tempo vero che forse non tu, ma moltissime lettrici donne potrebbero riconoscersi nell’immagine del rimpicciolimento, motivo per il quale non mi sembra che quell’immagine sia più intima di quella della scimmia. Semplicemente, forse, è adatta a un lettore che non sei tu, ma non è detto che non risuoni in altri, così come il poemetto I Padri di Giulia Rusconi – giacché l’hai citata – può forse risultare più familiare a un pubblico composto da lettrici, benché questo non penalizzi l’opera, che fra l’altro considero una delle più riuscite della cosiddetta “poesia giovane” degli ultimi anni.

Concordo su molte delle osservazioni davvero attente che mi hai mandato. Questa tua lucida analisi, anche nei momenti in cui non la condivido, per me è importante, quindi grazie.

Un abbraccio,

Maddalena

Venezia, gennaio 2018


Maddalena Lotter, Verticale, Faloppio, Lietocolle&pordenonelegge,  2015, pp. 81, € 13.