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I racconti autobiografici di Wladimir Kaminer

Domani, martedì 10 aprile, nell’ambito del ciclo di incontri dedicato al mondo letterario ebraico contemporaneo organizzato dal Dipartimento di Lingue e Letterature straniere dell’Università degli Studi di Milano, si terrà l’incontro con lo scrittore russo-tedesco Wladimir Kaminer, presentato dal Prof. Marco Castellari.


 

Bahnhof Lichtenberg appare oggi come una delle tante stazioni della rete metropolitana berlinese. Una fila ordinata di colonne in ferro battuto, di un giallo acceso, sono distribuite sui due livelli che collegano la linea di superficie a quella sotterranea. Intorno svettano i palazzi tipici dell’architettura socialista, dove ancora oggi vivono gli strati medio-bassi della cittadinanza berlinese. In questo contesto, tra Lichtenberg e Prenzlauer Berg, si sono svolte e si svolgono tuttora le vicende – vissute prima che narrate – di Wladimir Kaminer. Nato a Mosca il 19 luglio 1967, Kaminer si forma, nel corso degli anni Ottanta, come tecnico del suono per la radio e il teatro, studiando in seguito drammaturgia all’Istituto teatrale di Mosca. Giunge a Berlino, alla stazione Lichtenberg, nel luglio del 1990, nel periodo di transizione tra la caduta del Muro – 9 novembre 1989 –  e la effettiva riunificazione (Wiedervereinigung) delle due Germanie, occorsa il 3 ottobre 1990.

Kaminer si ritrova così in uno spazio ibrido al massimo grado, senza confini chiaramente definiti né identità certa; a questo si aggiunga il carattere politicamente instabile e socio-culturalmente eterogeneo di quest’area, soprattutto a seguito dell’apertura dei confini e alla conseguente massiva ondata migratoria dai paesi della disfacentesi Unione Sovietica, fusa con un poderoso flusso di africani, vietnamiti e personaggi di ogni genere provenienti dall’Europa occidentale. Per dieci anni, Kaminer si immerge in questo locus denso di diversità e contraddizioni, vivendolo senza mai pensare di raccontarlo; si arrangia in qualche modo per sopravvivere – con piccoli impieghi, vendendo ad esempio birre per strada alla stazione Lichtenberg. È da qui, dalle strade di una ormai disordinata e libera Berlino est, che nasce e si sviluppa l’avventura letteraria kamineriana, incarnata in una narrativa esclusivamente autobiografica. In effetti, fin dalla pubblicazione della prima raccolta di racconti, intitolata Russendisko (2000), Kaminer non si discosta mai dal resoconto di avvenimenti da lui vissuti in prima persona nel suo personalissimo “terzo spazio” (Bhabha, 55:2004) che include essenzialmente due luoghi dello spirito: la Berlino est di fine millennio e l’Unione Sovietica in cui Kaminer visse per oltre vent’anni. Si vedano, a questo proposito, tutte le pubblicazioni successive a Russendisko tradotte in italiano e edite da Guanda e Mimesis: Militärmusik (2003), Berliner Express (2005), La cucina totalitaria – con un ricettario del socialismo di Wladimir e Olga Kaminer (2008), Non sono un berlinese. Una guida per turisti pigri (2013) e Niente sesso: eravamo socialisti. Miti e leggende del secolo scorso (2014).

Ma dove e come si colloca la tipologia narrativa kamineriana nell’ambito di un genere così variegato e complesso come quello autobiografico? Quali eventi vengono riportati e con quale taglio narrativo? In generale, Kaminer racconta della propria giovinezza nella rigida URSS brezneviana e dell’avventura berlinese degli esordi; ama descriversi come giovane sornione e anticonformista, identificandosi come figura a metà tra il Taugenichts (buono a nulla) e lo Hochstapler (mentitore):

C’era chi rimaneva ammirato dalle mie storie e chi si infuriava, però mi stavano a sentire tutti, e ben presto diventai il più grande contaballe della scuola. Nel frattempo avevo acquisito anche un’altra caratteristica peculiare: l’assoluta incapacità di imparare qualcosa sul serio. Anche senza volerlo, finiva che rivoltavo tutte le informazioni che ricevevo e ne facevo storie nuove (15:2003).

A scuola, il giovane Wladimir eccelleva nelle materie umanistiche, ma solo laddove la consegna fosse quella di inventare una storia o di stravolgerne il senso, mai laddove si trattasse di riportare fedelmente fatti, tematiche, personaggi storici o letterari. Ecco il giudizio della sua professoressa di lettere per lo svolgimento di un tema storico-politico:

 «Le ho dato un cinque (che da noi è il voto più alto) per il suo svolgimento del tema “La liberazione dell’Europa da parte dell’Armata Rossa nel 1944-45”. Ma sia beninteso che non credo a una sola parola di quello che dice. Lei trova divertente scrivere quello che non pensa. Lei è un giovane cinico!» (16:2003)

Dopo aver vinto il concorso scolastico “Majakóvskij letto dagli studenti” recitando una poesia scritta di proprio pugno e spacciata per un’opera postuma del grande poeta dell’avanguardia rivoluzionaria futurista, il giovane Wladimir partecipa persino all’olimpiade studentesca di letteratura di Mosca. Ne segue una figura meschina, riportata tuttavia con un certo orgoglio:

In quella giuria non sedevano dei novellini, ma una serie di specialisti di grosso calibro. Sul palco strepitai e sibilai così come mi immaginai doveva aver fatto Majakóvskij, anzi meglio di lui. Mi battei il pugno sul petto e mi trovai piuttosto convincente. E tuttavia riuscirono a smascherarmi. Finita la mia pantomima, un professore disse a voce alta davanti a tutti: «Non faccia lo spiritoso, giovanotto. Majakóvskij non avrebbe mai scritto una simile cagata» (16:2003).

Si vedrà da questi esempi che, nella tipologia autobiografica kamineriana, il soggetto non possiede alcuna profondità psicologica, e si mostra così generalmente alieno dai tratti che caratterizzano il genere autobiografico in età contemporanea. Manca totalmente la riflessione su di sé, mentre domina il motto di spirito (Witz) accompagnato da un malcelato – anzi mai celato – autocompiacimento da parte dell’autore. L’alter ego di Kaminer ha sempre un ruolo di primo piano, si pone come protagonista degli eventi riportati e tende a sminuire o anche a ridicolizzare i personaggi che con lui si confrontano; è sempre abile, furbo e intelligente sia nel contesto sovietico che in quello tedesco, e riesce a sfruttare a proprio vantaggio qualsiasi situazione, per quanto intricata o paradossale. Le stringenti proibizioni e censure, la serietà e l’ufficialità del contesto sovietico diventano delle assurdità verso cui comportarsi con indifferenza o di cui prendersi gioco; il personaggio Kaminer, insomma, risulta essere l’unico «a cui riesce quasi intuitivamente – così si deve credere – di guardare attraverso, rifiutare e liberarsi dell’intero sistema» (Karelina, 102:2006).

Sotto altri aspetti, invece, Kaminer si uniforma alla tipologia autobiografica sviluppata a partire dalla seconda metà del secolo scorso, in quanto tende a costruire un’immagine poco o per nulla corrispondente alla realtà. Penso in particolare al Patto autobiografico di Lejeune, in base al quale la divisione tra verità autobiografica e costruzione finzionale si indebolisce fino quasi a scomparire; si sviluppa  un  “autobiographisches  Schreiben”  nel  quale  spesso rientrano  personaggi  creati  artificiosamente  dall’autore  nell’atto  dell’invenzione  narrativa,  e  che quindi  si  allontana  dal  concetto  di  autobiografia  “classico”,  quello  cioè  di  «descrizione  (graphia) di una vita (bios) di un singolo attraverso se stesso (auto)» (Misch, 38: 1989). Tuttavia, Kaminer declina ulteriormente questo «patto autobiografico» in modo affatto particolare. Karelina parla di «costruzione identitaria come imagemaking» in riferimento esclusivo al romanzo Militärmusik (2002); ma si tratta, a mio vedere, di una formula efficace per classificare tutta la produzione di Kaminer, in quanto il vero e ultimo scopo dei suoi racconti e romanzi autobiografici è sempre quello di attirare la simpatia e l’approvazione di un pubblico quanto più possibile ampio. Conseguenza inevitabile ne è un generale abbassamento del livello letterario, e la quasi totale identificazione della narrativa kamineriana con una efficace strategia pubblicitaria, finalizzata a promuovere la variegata attività mondana – più che culturale – di Kaminer: la sua Russendisko e le sue spassose letture pubbliche sono sempre molto frequentate, i programmi radiofonici cui partecipa come speaker hanno sempre alti indici di ascolto. Ecco una letteratura che diventa fondamentalmente operazione di marketing, tesa a promuovere l’immagine dell’intelluale più easy-going e disinvolto del panorama culturale berlinese.

Il successo delle sue pubblicazioni così come delle sue comparsate pubbliche è, in effetti, il risultato più evidente della sua attività creativa, dato che né la critica letteraria tedesca né quella internazionale hanno mai prestato grande attenzione al “fenomeno” Kaminer. Ne è prova sufficiente il fatto che su tutti i retrocopertina dei suoi libri di maggior successo – indipendentemente dalla lingua di pubblicazione – compaiano sempre gli stessi (tre) commenti critici:

Ci sono tre modi di guardare il mondo: quello ottimistico, quello pessimistico e quello di Wladimir Kaminer – «Frankfurter Rundschau»
Le trovate linguistiche di Kaminer si accompagnano a un umorismo originale – «Süddeutsche Zeitung»
Kaminer colpisce nel segno con un linguaggio diretto – «Rolling Stone»

Pochi, e di non grande prestigio, i premi critici assegnati: nel 2002 Kaminer fu insignito del Ben-Witter-Preis, che viene conferito ad autori e giornalisti che utilizzano la letteratura per dare espressione ad un pensiero socialmente critico ma allo stesso tempo umoristico; nel 2012, il Berliner Bär, premio del Berliner Tageszeitung assegnato a personalità di spicco della cultura berlinese contemporanea, selezionate però sulla base della fama acquisita più che sull’effettivo valore estetico delle opere. Ma perchè dunque interessarsi ad un’opera del genere, senza spessore, senza poesia?
I motivi sono fondamentalmente due.

In primo luogo, Kaminer dipinge leggeri affreschi berlinesi di una fase storica di estrema criticità e complessità, quella cioè immediatamente successiva alla caduta del muro di Berlino e alla conseguente dissoluzione dell’URSS, riuscendo a cogliere il  lato divertente e spensierato  di  vicende  vissute da interi popoli con grande partecipazione emotiva e dalle conseguenze spesso traumatiche. Il caos sociale e politico del periodo intercorso tra la caduta del muro e la effettiva riunificazione tedesca, la fuga precipitosa verso ovest di chi per decenni aveva subìto torture e ricatti da un sistema oppressivo e disumano, la caduta della cortina di ferro tra due mondi che per settant’anni si erano contrapposti non solo dal punto di vista socio-economico ma anche culturale; tutto questo immenso e complesso insieme di avvenimenti concentrati nel breve spazio di un biennio viene veicolato in Kaminer tramite oggetti piccoli e banali, situazioni ridicole, meschine o paradossali. Eccone un esempio:

Da tempo sognavo di avere un appartamento tutto per me. Ma il mio sogno si realizzò solo con il dissolvimento della RDT. Nell’estate del 1990 io e il mio amico Misa […] eravamo finiti nel gigantesco centro di accoglienza di Marzahn. A quei tempi alloggiavano lì centinaia di vietnamiti, africani ed ebrei provenienti dalla Russia. […] Nel centro c’era sempre una gran confusione […] A Marzahn, infatti, c’era in corso una vera e propria guerra per lo spazio. Chi era arrivato per ultimo se la vedeva brutta: doveva dividere l’appartamento con altre quattro famiglie. […] All’epoca Prenzlauer Berg era considerata la soluzione per chiunque cercasse casa: lì l’entusiasmo per la caduta del muro non era ancora scemato. I vecchi abitanti del quartiere partivano a sciami in direzione ovest, lasciandosi dietro gli appartamenti pieni di ogni ben di Dio. Così a quel flusso si contrapponeva una corrente che, in senso contrario, da ovest di trasferiva a est: punk, stranieri, adepti della Chiesa della Santa Madre, tipi strani e arrabattatori di professione. […] Io mi trasferii nella Lynchner Strasse. Il signor Palast, il cui nome spiccava ancora sulla targhetta della porta, doveva aver avuto una gran fretta di andarsene. Si era lasciato alle spalle praticamente tutto: lenzuola pulite, un termometro alla finestra, un piccolo frigorifero, persino un tubetto di dentifricio appoggiato al tavolo della cucina. Con grande ritardo, vorrei qui ringraziare il signor Palast di tutto quanto. Gli sono particolarmente grato per lo scaldabagno istantaneo costruito con le sue mani, un vero miracolo della tecnica (20-21:2004).

La possibilità di sorridere su eventi generalmente narrati attraverso testimonianze dal forte sapore drammatico costituisce sicuramente un elemento di diversità dell’autobiografia kamineriana, che conferisce valore ad una narrativa altrimenti senza grosse pretese. In un altro brano Kaminer ironizza sulla grande distanza culturale venutasi a creare a mezzo della brutale divisione politica che il popolo tedesco – e ancor più quello berlinese – aveva sofferto per quarant’anni:

«Io […] una volta ero stato anche ad Amburgo, subito dopo la caduta del muro. La gente del posto mi scambiava continuamente per un tedesco dell’est. Evidentemente credeva che tutti quelli che venivano dalla RDT portassero i baffi e parlassero un tedesco sgrammaticato con accento russo» (106:2005).

In secondo luogo, Kaminer mette in contatto l’identità culturale e linguistica russa, nelle sue componenti più spicce e superficiali, con un mondo – specificamente berlinese più che tedesco – anch’esso idealizzato e stereotipato nei tratti di una generale goffaggine dei suoi abitanti. Ma lo stereotipo appare così lampante, così conclamato, che in qualsiasi lettore mediamente attento si origina automaticamente un pensiero, una riflessione sulla perfida, semplificatoria distorsione della realtà che lo stereotipo comporta e che in tanti altri casi è più subdola, più ingegnosamente nascosta tra le righe di un brano letterario o un articolo di cronaca. All’inizio di Militärmusik, Kaminer narra gli avvenimenti occorsi il giorno in cui suo padre andò in ospedale per portare a casa il neonato Wladimir e la moglie. La sfortunata coincidenza con il giorno delle celebrazioni del cinquantesimo anniversario della Rivoluzione si traduce in una serie di ostacoli di ordine pratico, dato che chiunque stia lavorando in quel giorno di festa si considera esentato dai propri doveri più basilari. E così, la corruzione – uno degli stereotipi più amati della Russia di ieri e di oggi – dilaga ad un livello che non può non risultare comico:

Per venire a prendere mia madre e me all’ospedale Grauermann, mio padre usò un taxi. «Svolti qui a destra» disse mio padre al tassista […]. «Non posso» obiettò l’autista, «è tutto chiuso per le celebrazioni. Non si può svoltare da nessuna parte: dobbiamo andare dritto» […] «E va bene». Mio padre tirò fuori il portafoglio dalla tasca dei calzoni e gli diede venticinque rubli. L’auto tracciò immediatamente un’ampia curva nel bel mezzo del Prospekt e andò a fermarsi dritto dritto sul marciapiede davanti all’ospedale. «Certo che avete una bella faccia tosta» si sorprese un grasso vigile urbano che se ne stava proprio lì accanto. Anche lui ricevette venticinque rubli. Esattamente la stessa cifra che mio padre rifilò al portiere dell’ospedale perchè lo lasciasse entrare e all’infermiera che mi consegnò a lui e alla tizia del reparto amministrativo perchè mi registrasse in fretta. Così facendo mio padre spese in ospedale lo stipendio di un mese (12:2003).

Tra stereotipi conclamati e Witze leggere su accadimenti sociali e politici di portata storica da lui direttamente vissuti, Kaminer racconta essenzialmente sé stesso nella Berlino moderna. Una delle città che più hanno sofferto i disastri mondiali del secolo scorso e che oggi raccoglie e fa sentire presenti le tracce di questo recente, tragico passato; e che forse proprio in virtù di tutta la violenza che ha vissuto nel giro di pochi decenni, ha saputo accogliere e integrare dentro di sé – non con semplice noncurante tolleranza ma con vero, entusiastico Mitleid – pensieri, anime e modi vivendi tra loro apparentemente inconciliabili, diventando città di pace e di dialogo per eccellenza. Sembra inverosimile che Kaminer, a chi gli chiede se lui oggi, ad ormai (quasi) trent’anni dalla sua fuga a Berlino, si senta tedesco, russo, russo-tedesco o berlinese, risponde di essere “un russo nella vita privata e uno scrittore tedesco per lavoro”[1]. Ma, in fondo, Kaminer non va mai preso troppo sul serio; può scrivere e dire tutto e il contrario di tutto, come un vero Hochstapler che mente sul fatto di aver detto la verità e proclama come vere falsità e menzogne. Chissà se, rileggendo qualcuna delle citazioni riportate in questo breve articolo, Kaminer non si mostri stupito ed esclami persino, come è gia capitato in qualche intervista: “L’ho scritto io? Era solo uno scherzo”[2].

 


Bibliografia

K. Bhabha, The Location of Culture, Routledge, Abingdon 2004.
Kaminer, Berliner Express. Guanda, Parma 2005 – traduzione di Riccardo Cravero.
Kaminer, Russendisko. Guanda, Parma 2004 – traduzione di Riccardo Cravero
Kaminer, Militärmusik. Guanda, Parma 2003 – traduzione di Riccardo Cravero.
Karelina, Identitätskonstruktion als Imagemaking, in Autobiographisches Schreiben in der deutschsprachigen Gegenwartsliteratur, vol. 1, Grenzen der Identität und der Fiktionalität, a cura di U. Breuer e B. Sandberg, Iudicium, München 2006.
Misch, Georg: Begriff und Ursprung der Autobiographie (1907/1949). In: Günther Niggl (Hg.): Die Autobiographie. Zu Form und Geschichte einer literarischen Gattung. Wiss. Buchges., Darmstadt 1989.


 

[1] La citazione è stata ripresa numerose volte da riviste e giornali per introdurre interviste a o articoli su Kaminer. Basti in questa sede rimandare ad un’intervista online del giugno 2015 intitolata Die kannten nicht einmal grünen Tee, disponibile al link: https://www.focus.de/familie/schule/medien/starautor-wladimir-kaminer-die-kannten-nicht-einmal-gruenen-tee_id_4741579.html

[2] Ibidem.