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#Mappe – Lezioni di mimo in Corea del Sud

Questo testo, con varianti, è già apparso su Librobreve.


 

Persone giovani di tutto il mondo terminano gli studi universitari e, se motivate a rimanere nell’ambito accademico e della ricerca, spesso partono. Vanno dove ci sono posizioni vacanti, affini ai loro curricula e alle loro ambizioni; giungono in contesti in cui convergono persone da più parti del mondo, più o meno giovani, sole o accompagnate, atterrando in appartamenti o dormitori più o meno rumorosi. Che cosa c’è in questi posti? C’è uno stipendio, innanzitutto. C’è anche la possibilità di inseguire un’ambizione o la prospettiva di carriera del tenure track. Può esserci la fuga da un horror vacui, lavorativo o più estesamente esistenziale, che si fa via via scorticante, così come scortica l’irrequietezza quando diventa il sale (o soltanto il cloro senza il sodio) di un’esistenza. Può esserci persino il tentativo di ridare un senso a parole forse sfibrate come “avventura”. Sono situazioni in cui può regnare o perpetuarsi la destrezza nell’arte di distanziarsi e «trasformare in un lampo una persona da essenziale a superflua».

Spesso il primo impatto, se non si finisce in un paese anglofono del quale crediamo di conoscere la lingua, è proprio di natura linguistica, all’interno di contesti internazionali che somigliano da vicino a passerelle dove sfila ciò che resta delle marche-nazioni (quello delle nazioni come brand, al di là degli stereotipi, è un tema persistente). È possibile allora che si sviluppi nel nuovo arrivato un fastidio profondo per quella parlata disidratata che contraddistingue simili situazioni, per le interiezioni fatte con lo stampo che puntellano discorsi pieni di sorrisi di disagio, di awesome e wow. In uno scenario del genere siamo catapultati all’inizio del bel libro di Maria Anna Mariani Dalla Corea del Sud. Tra neon e bandiere sciamaniche (Exòrma, pp. 168, euro 14,90). Si tratta di uno scritto caratterizzato da una nota dolente e divertente al contempo, incuneato tra il reportage brillante e la cocente testimonianza-confessione relativa agli anni coreani vissuti dall’autrice. Una volta terminato il dottorato in Italia, Maria Anna Mariani è partita per insegnare italiano in una università distante circa due ore di pulmann da Seul. L’inizio del suo libro è una scena così, striata:

È un surrogato del globo questo dormitorio di uegughì, di stranieri, venuti qui dalla Tanzania alla Georgia e dal Messico all’Indonesia per divulgare versioni disossate della loro lingua. Arrivano qui con le vene striate di vaccini, perché la Corea del Sud non se la immaginano e allora sono partiti inquieti, hanno addirittura fatto delle iniezioni specialissime, introvabili nella loro città e perciò sono andati nella capitale, alla ricerca del laboratorio che custodisce il siero contro l’encefalite giapponese, una malattia mortale, rarissima ma mortale, provocata da una zanzara che perturba le risaie del sud-est asiatico. E in quel laboratorio di veleni salvifici un’infermiera li avrà distratti dalla persistenza dell’ago nel braccio, predicendo per loro un futuro coreano fitto di avventure con scimmiette appostate a ogni crocicchio, pronte a mordere la tenerezza delle cosce.

Quando Maria Anna Mariani parte sa ben poco della Corea del Sud. La scelta di partire, giudicata da molte persone vicine sin troppo avventata, avviene in modo repentino. Del resto non c’è tempo né spazio per soppesare le scelte e probabilmente più si soppesa più si rischia di non partire e rimanere impaludati. Allora lei parte, arriva, si assesta in una nuova dimensione della quotidianità del lavoro, delle relazioni, della solitudine e delle cose che si possono fare in quell’ectoplasma che ci ostiniamo a chiamare “tempo libero”.

Il libro è costituito da un susseguirsi di brevi e smaglianti capitoli e da una calibrata selezione di foto in bianco e nero dell’autrice e di Irene Mariani. Il mondo che l’autrice lascia fa posto a nuove stanze, climi, volti, letture, brand, riflessioni oppure alla descrizione di una giornata di pioggia qualsiasi e alle relazioni con chi è rimasto in Italia. All’inizio leggiamo dell’impatto con la nazione asiatica, con il suo paesaggio, urbano e non. Ecco allora la spesa al supermercato («Salvarsi, mangiare, coprirsi, lavarsi e lavare. Cos’altro importa?»), le parole mimate quando ancora è lontana una minima padronanza del coreano, le lezioni con gli studenti «passivi e macchinici» e le domeniche o certe giornate libere, magari riempite con una gita fuori porta.

Mi capita sempre, quando sono a Seul, di stupirmi di quanto rapidamente possa cambiare il paesaggio. Così anche ieri: appena riemersa dalla metropolitana ho camminato per un po’ sulla strada principale, sfregata da macchine Kia impiegatizie e da altere, cromate Sonata. Poi mi sono infilata in un vicolo, un cunicolo tra gli Starbucks Coffee e i Barbecue Chicken. Era un mercato ricavato in un tunnel, una specie di suk marocchino, ma invece di sfilare davanti a piramidi di cardamomo, giare unte di argan e scaffali di ciabatte appuntite inciampavo nelle patate dolci e odoravo sfoglie di polpo essiccato. Le donne che sorvegliavano la merce stavano accucciate per terra, su stuoie di paglia. Erano intente a pelare cetrioli e lavare lattughe. Ogni tanto staccavano gli occhi dal verde per osservarmi, ma senza troppa curiosità. Che mi si stiano allungando gli occhi, gonfiando gli zigomi, stirando i capelli?

In queste gite seguiamo così la nostra testimone negli incontri nei luoghi del lavoro, in pullman, tra sciamani, oppure nella zona al confine con la Corea del Nord, paradiso naturale e inquietante area dove s’applica al turista un rigido protocollo (riportato per intero nel libro). Oppure finiamo anche noi in gita a Mokpo, la città più povera e «brutta» del paese, colta nei giorni del viaggio di Papa Francesco in Corea del Sud, nazione dove vive una cospicua comunità cattolica:

[…] quando ho iniziato a camminarci dentro, il cemento di Mokpo ha cominciato a incombere. La prima immagine che mi restituisce l’iPad è un edificio grigio sbrodolato di verde, con i finestroni dagli infissi a crocifisso e un albero secco e nero che spunta sopra al tetto, e che davvero è un albero, non un’antenna, anche se è così stecchito che le assomiglia. Quest’edificio moribondo preme su un viale trafficato da ruspe e motorini che sfrecciano a domicilio, carichi di pollo fritto; un viale scandito da arcate di neon spenti, enormi, modellati in onde marine e stelle a sei punte, obsolescenti come addobbi di Natale in pensione che nessuno ha mai rimosso – per pigrizia o indifferenza, condannando la città e i suoi abitanti a un malessere temporale, a un estenuante jet lag.

V’è spazio anche per un inedito e tutto sommato distaccato ritratto dell’intasatore degli scaffali di filosofia delle librerie, in tournée nelle università coreane. Avete indovinato? Sì, lui, Slavoj Žižek e il capitolo a lui dedicato, Cosa vuol dire madre, non mancherà di colpire per i diversi piani che allestisce e interseca tra descrizione e pensieri. L’autrice lo segue in alcune tappe del tour e ne scruta la sua tipica postura intellettuale

che è fatta di pop, sudore e paradossi – e di paradossi la Corea gliene offre a manciate, prima di tutto quello dell’economia, che affianca portentose dinamiche capitalistiche a una delle più fervide ideologie di stato. Se poi uno guarda un po’ all’insù verso il Nord, continua Žižek, viene da chiedersi: ma che cos’è questo regime dittatoriale folle? Un pervertimento assoluto del comunismo, direte, ma che per quanto lo perverta obbliga a farsi una domanda secca: che cosa c’era già di sbagliato in Marx se la teoria ha potuto andare totalmente alla deriva, fino a prendere un esito così terrificante? Insiste sulla frattura originaria tra teoria e prassi, Žižek, ma io ormai sono distratta. Penso invece che di questo terrificante nord-coreano non ci arriva mai l’intero, ma solo qualche notizia scheggiata e approssimativa, che in qualche modo riesce a sgusciar via dai confini pattugliati, e che però non sembrerà mai abbastanza e sarà destinata a testimoniare sempre in modo così flebile. Di foto, per esempio, non ne avremo mai, nemmeno malcerte e lacunose. Per costruirci un immaginario, un immaginario che non sia quello posticcio confezionato per l’export da Kim Jong-un, dovremo allora fare affidamento non alle foto ma ai disegni, quelli di Guy De Lisle, che col fumetto Pyongyang ci ha consegnato un vero e proprio documento: il reportage visivo della Corea del Nord più accurato che ci sia, capace di colmare i buchi di quel reale che si divincola dagli scatti fotografici.

E c’è qualcosa di nuovo quasi a ogni capitolo, in una variazione continua di temi e toni. Eppure tutto è legato con un unico nastro e assomiglia a una strana corrispondenza, una condivisione che pare lontanissima da quella istantanea tipica dei social e delle chat con le loro esche a buon mercato (ad un certo punto l’autrice confesserà, con un anacronismo che quasi fa girare a vuoto la mente, di usare ancora una lista di indirizzi email formata dagli strati geologici della propria «vita precedente» e oramai mezza inservibile). Potremmo quindi ipotizzare che Dalla Corea del Sud sia una sorta di strano libro epistolare diventato reportage, diario e testimonianza, nel quale non emergono destinatari delle singole lettere-paragrafi. È un testo che va incontro a una progressiva rastremazione verso l’impersonale, la quale s’accentua con il passare degli anni coreani o magari quando, nel bel mezzo di una sindrome premestruale, si teme di diventare una «Creatura Spam» per amici abissalmente lontani (in questi casi la soluzione è una: uscire di casa e di qui le descrizioni di luoghi, persone, piante, architetture, cielo). I destinatari di queste quasi-lettere sono anche in quella mailing list ormai inservibile, deposito della polvere del tempo su piani di scrittura e rispecchiamento trattenuti durante il lungo periodo dell’espatrio. E sicuramente il legame con la lingua italiana, che la protagonista in Corea insegna, ha un determinato ruolo nello sviluppo di questa scrittura, poiché qui ci imbattiamo anche in riflessioni e acquisizioni che toccano la natura delle stesse lingue: se l’italiano resta lingua del tempo, l’autrice scoprirà, anche grazie a dei fraintendimenti, che il coreano è segnatamente lingua spaziale.

Ecco allora lampeggiare le solite domande: perché si scrive? Per chi si scrive? In questo libro la scrittura ha inizialmente una vocazione di adattamento e testimonianza di come si vive la solitudine di certi lavori, «testimonianza sorda» perlopiù, precisa l’autrice (la sordità è il motivo per cui permanenza in Corea e scrittura non possono durare). In effetti è questo un libro molto visivo che apre all’udito soprattutto nei rumori, compresi i rumori guarda caso «invisibili» che salgono dal riscaldamento a pavimento o dai tubi di scarico delle lavatrici nel dormitorio. Dopo uno dei suoi tanti sopralluoghi, Maria Anna Mariani scrive

Era la mia prima lezione di danza postmoderna, tecnica Merce Cunningham – che fu amante delle filosofie orientali, dei movimenti asincroni, della schiena estroflessa e della musica elettronica.
Ci tornerò in quella scuola, che più che una palestra è un’accademia di danza, coi ballerini che sullo schermo lucido del Samsung Galaxy studiavano manuali d’anatomia (ho sbirciato scheletri di bacini e tibie in 3D camuffandomi gli occhi con le cosce, durante lo stretching). Ci tornerò, sì, anche se da Johyeon ci metto due ore all’andata e due al ritorno, e questo nella più fluida e meno trafficata delle ipotesi. Ma a Johyeon dove potrei andare? L’unica cosa che mi sentirei di fare – oltre allo yoga mattutino sul pavimento che ora ha smesso di gorgogliare liquido lavico perché il riscaldamento è in letargo – è andare al corso di taekwondo con MapleBough e i bambini egiziani figli di Abdullah.

Come sempre ci sono diverse ragioni che possono portarci a una lettura come questa. Se dal punto di vista editoriale fa gioco mostrare il lato esotico e persino divertente di quattro anni trascorsi in un paese lontano dal nostro vissuto medio, ad uno sguardo più ravvicinato Dalla Corea del Sud di Maria Anna Mariani, nella dislocazione persino violenta da cui prende avvio, ci dice anche di un’immersione nell’assenza, delle privazioni del mondo che si lascia, delle relazioni nuove e della continuità di altre e infine delle interruzioni senza appello. Ci parla di come si resta in contatto o ci si perde, di come si viaggia e si può provare a raccontare il viaggio, di come si parte e magari si ritorna, di come si può arrivare a giustificare il susseguirsi delle proprie scelte e l’orografia del proprio transito esistenziale. Con una strategia discorsiva innovativa e necessaria questo testo, che racchiude anche passaggi molto divertenti, intervalla descrizioni degne della migliore prosa di reportage a lacerti di una confessione senza sconti. Ed è così che leggiamo passaggi come il seguente, che descrive la visita al tempio:

Come si festeggia Buddha in Corea? Andando al tempio. Così oggi pomeriggio, sfidando la pioggia, sono andata al tempio. Non da sola: mi hanno accompagnato Paola e Andrei, due colleghi che sono già diventati molto altro […].
Ci siamo incamminati lungo una strada asfaltata infinita – prima pianeggiante, affondata in mezzo a risaie marcite, poi sempre più ripida, stretta in una morsa di condomini e azalee, e infine verticale, sepolta dentro un bosco giungla, selvaggio come una danza di sciamani. […].
Davanti a un tempio si deve sostare. Così abbiamo assaporato la soglia, mentre i polmoni strizzati si gonfiavano di nuovo. La porta del tempio era aperta: spuntava l’interno di uno scrigno foderato d’oro e velluto. Abbiamo fatto degli inchini profondi, troppo: una caricatura. Un monaco vestito di grigio correva come un folletto. Accendeva globi colorati e svuotava conche traboccanti d’acqua piovana. Quando ci ha visti si è fermato, ci ha preso le mani e ci ha chiesto di dove eravamo. Dopo aver balbettato le nostre nazioni siamo stati invitati dentro casa sua, rustica appendice di tempio, e abbiamo iniziato a scoprire.

Dentro le mura dell’appartamento però, come anticipato, si innesta la confessione, con una bruciatura dello sguardo incistata in quello che ha le sembianze di un flashforward ancora da scrivere:

È di questa solitudine di espatriata che vorrei parlare mentre fuori piove, di questo esilio feticizzato, che ha portato a ingigantire l’anaffettività, l’adattabilità e l’intransigenza. Li vedo accentuati adesso, questi tratti del mio carattere, dopo averli isolati attraverso un bilancio che si è reso necessario, ora che sto per lasciare questo luogo e spostarmi verso un altrove, posizionato esattamente all’altra estremità: Chicago.

Il luogo passa, è appunto un passato. Il luogo conta fino a un certo punto. Conta di più provare a vivere all’altezza di un tempo sfrangiato quale il nostro. La Corea può diventare così “la seconda sponda di nostalgia”. Poco prima si era letto:

L’estraneità è diventata una condizione familiare. Sentirsi esotici può farsi abitudine? Sì, e non è un paradosso perché è comodo vivere con lineamenti eccentrici e giustificare la propria inettitudine con l’alibi dello straniero piombato dentro un’atmosfera aliena. Lo spaesamento è diventato esonero, un esonero permanente, da tutto quanto credo.

L’esilio feticizzato che si fa esonero permanente da tutto: raramente capita di leggere pagine così affilate e riflettenti in uno scritto che si può ricondurre all’alveo dell’autobiografia. La vita o si vive o si scrive, sosteneva già Pirandello. La realtà è oggi un po’ diversa: la scriviamo un po’ tutti la vita, sia quando partiamo che quando restiamo, e non sappiamo se questo implichi che la viviamo tutti un po’ di meno. In queste pagine il mutamento è preso di petto e, anche se trattano un percorso di vita quasi potesse sembrare casuale, non c’è spazio né tempo per il caso, se è vero che tutto cambia a un certo punto «per una spinta sorridente o perversa, molto spesso suscitata – perché il caso siamo noi che lo fecondiamo – ma che comunque sconvolge, sconquassa. Fino a che la vita non si riassesta». C’è qua, più chiara e scottante, la confessione di chi desidera continuare a imparare, di chi preferisce «la terra franata alla palude e al movimento che si ripete». E se la palude può ancora rientrare in una mappa, la mappa diventa inservibile davanti alla terra che frana, deve dunque inventarsi nel nuovo ritmo del flusso o della fuga una maniera per continuare a esistere, per invocare l’assenza di ciò che intende rappresentare.


La foto sono di Irene e Maria Anna Mariani.