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Tabù: il vangelo nero di Giordano Tedoldi

 

Tabù è il secondo romanzo di Giordano Tedoldi, pubblicato nella collana Narrazioni di Tunué, dopo che l’autore aveva esordito nel 2006 con la raccolta di racconti Io odio John Updike per Fazi Editore e nel 2013 con il romanzo I segnalati.

Diviso in cinque parti, sviluppato attraverso tre differenti prime persone, il libro traccia le vicende di Piero Origo – insegnante di lettere dotato di grande fascino e di una certa idiosincrasia nei confronti di ogni sovrastruttura, morale o sociale non fa differenza – dal momento in cui egli, ci rivela, decide di commettere adulterio seducendo Emilia, la moglie del suo migliore amico Domenico. Dall’attimo stesso della violazione di questo “comandamento”, fondamentale centro di attrazione attorno a cui i nuclei tematici del romanzo – l’amore e i limiti che ne scaturiscono, il dolore dell’assenza e la sua natura nell’uomo moderno – compiono la loro rivoluzione, comincia un vero e proprio viaggio archeologico alla riscoperta degli strati anteriori di aggregazione umana, un percorso regressivo che conduce Piero, e il suo circolo di amicizie pescate dal mondo dell’alta borghesia, sino agli esordi tribali del concetto di organizzazione umana, alla ricerca dei tabù, le violazioni dei contratti rudimentali oltre i quali c’è l’animale privo di società.

Questa ricerca per tesi involutive – per la natura del protagonista, per la sua forza vitale lucida e degenere («i nomi sono morti, chiamiamoci in qualche altro modo, indichiamoci, grugniamoci, sogniamoci») – è destinata a non avere mai una battuta di arresto, ma a ricevere anzi sempre nuove spinte da antitesi nate in seno ai limiti e ai tabù, per l’appunto, che di volta in volta la forma aggregativa seguente pone davanti a chi la adotta, e che se violate portano alla disintegrazione della forma in esame perché

L’amore tra uomini non cristiani, non più cristiani, è una cosa estremamente complicata. Si naviga a vista, si approda in paesi selvaggi, dove è in uso tutto e il contrario di tutto. Non ci sono età, calendari, tempi, nascite e morti. Ci sono regole da rispettare senza che si possa risalire al motivo per cui bisogna rispettarle, ma se le si violano, la nave che ci ha portato fin lì affonda.

A supportare questo meccanismo narrativo c’è una lingua, quella scelta da Tedoldi, fatta di ipotassi e un certo gusto per le figure retoriche dell’ordine della frase, una lingua che forza, in una prima parte, la sua ricerca di termine verso un’area semantica dalle tonalità seppia, una predisposizione per l’ambito antico il cui richiamo anticipa la deriva verso i primordi che il romanzo è destinato a prendere (e così il protagonista alza gli occhi sulla moglie di Domenico «cercando antichi dei in cielo» oppure lei, nel tentativo di difendersi dalla sua seduzione, chiama in servizio un’amica «per difendere le mura assediate») e cerca di percuotere in profondità, investendo più sulle riflessioni dell’io narrante che non sui dialoghi.

Questi ultimi infatti – e sintomatici sono a tal proposito proprio i primi due dialoghi, quelli tra Piero ed Emilia – risultano statici e troppo espliciti, privi di quella sottotestualità squisitamente umana che potrebbe sottrarli a una meccanicità che emerge e riconsegnarli al realismo: ci troviamo di fronte così tentativi di far vedere i personaggi emozionati che sono un po’ sgangherati (come la progressione di Piero, proprio Piero: «Emilia, Emilia che è successo!», e, dopo che lei piange, «Dimmi che cavolo è successo!», ma noi abbiamo già capito chi è Piero, che non si tratta di un personaggio che si può preoccupare per un banale pianto), assenza di costruzione di una progressione drammatica organica, fattore che contribuisce a far sembrare alcuni dei dialoghi il ping pong unilaterale di un solitario contro il suo muro («Non ce la faccio», «Cosa non ce la fai?», «Andrà tutto malissimo, non devo farlo, non devo», «Ma che dici andrà tutto benissimo», «Sto prendendo per il culo me, l’uomo che amo, la mia famiglia, tutti», «Emilia smettila sono dubbi assurdi […]»), e, nell’assenza generale di resistenza di ogni interlocutore, nel sottrarsi dal conflitto, tentativi di sottintendere – a tratti – che però sembrano riguardare più Tedoldi stesso (sempre Emilia a Piero, «Guarda non ho molto, prosciutto, mozzarella di bufala, […]», «Per me prosciutto e mozzarella di bufala vanno benissimo, cioè la mozzarella non potrei […] ma in effetti ne ho proprio voglia», «Ma sì dai che se hai tanta voglia non può succederti niente», «Allora hai tutto, perché dici che non hai molto?») contribuendo nel complesso all’idea che – a differenza delle voci narranti – quando parlano i personaggi non abbiano una propria lingua, che debbano in qualche modo farlo per imposizione autoriale. Certo, va detto, questo aiuta Tedoldi a rendere l’impressione di morte e vacuità dell’ambiente che tramite gli occhi di Piero il lettore è chiamato a vedere, e la cui debolezza dipende dalla sostanziale natura di funzioni narrative di molti degli agenti che ruotano attorno al protagonista.

Ecco, può apparire questo come un difetto costruttivo – durante la lettura delle prime tre parti del romanzo –, essendo legittimo pensare, per un libro che mira a distruggere, smontare, svelare, rompere, che sia necessario un impianto psicologico di prima mano per ogni personaggio: un impianto elaborato tanto quanto, almeno, quella che ci sembra essere l’ambizione dell’opera. Tuttavia fin dal suo inizio, la quarta parte – dove il testimone del racconto passa a Padre Eusebio Kuhn – mi ha dato modo di credere che la forma di rappresentazione scelta dall’autore per tratteggiare il suo mondo cominciasse improvvisamente ad acquisire un senso ulteriore.

In questa quarta parte cambia la lingua, innanzitutto, spostando il suo ambito semantico (le mura diventano chiese, le frasi parabole, le divinità l’entità unica di certi monoteisti) e guadagnando sempre maggiori concessioni liriche, tanto da raggiungere qui i picchi di valore estetico e letterario («l’uomo sperimenta una putredine viva, anteriore alla morte, della quale sembra essere la parafrasi» o «noi siamo sangue felicemente smarrito nel cosmo») proprio per via di questa orogenesi simbolica che comincia a scuotere il testo, spostando il focus su un piano altro, quello meno aderente alla realtà e più malleabile proprio della favola e del mito – o del racconto evangelico – un territorio dove ci sembra che tutto possa succedere, e che – a proposito dei dialoghi –, sdoganando una certa libertà di rappresentazione, aiuta l’autore ad ottenere degli ottimi risultati; da una parte perché quei personaggi essenziali – che sembravano in un primo momento fuori luogo – si ritrovano improvvisamente mossi nel loro habitat più consono, e non ci si meraviglia più di una certa neutralità di alcuni passaggi; dall’altra perché quella tendenza ad imporsi – caratteristica dei primi dialoghi – con un lavorio autoriale esuberante può sfociare facilmente qui in un uso costante dell’allusione, e negli spostamenti di senso: in una certa libertà quindi di allontanarsi dallo spettro di un realismo in cui Tedoldi pare costantemente essere scomodo e oppresso come da una catena, l’assurdo che sdogana l’assurdo. Si può assistere allora agli scambi migliori, le summe tra Piero e Padre Eusebio che tentano di esaurire il tema, ma in particolar modo i dialoghi sognanti tra Padre Eusebio e Messabianca – una delle varie figure femminili chiave del romanzo.

Concessioni e fratture nella lingua quindi – che finalmente diventa un corpo vivo –, ma anche un certo movimento di chiarificazione strutturale, che mette a sistema i personaggi e ne svela le funzioni in questo accadimento metanarrativo che è la dichiarazione di un prete – sì atipico ma prete –, della sua volontà di terminare la storia della vita di Piero Origo. Arriviamo così a domandarci di più sulla funzione di questo “protagonista col martello” – come si è detto altrove – o, per usare le parole di Padre Eusebio, di questo uomo, che sprigiona uno «strano gas intossicante insieme con le sue parole fatte di schegge di vetro», un catalizzatore al cui fascinoso potere di corruzione nessuno sembra in grado di resistere, un profeta del cataclisma che incontra gli archetipi e li abbatte (e così trasforma Marco, idealista della corruzione, in un servo concreto dell’anti-ideale, o semina in Wanda, antropologa distaccata, il nucleo della vita). E dal testo, durante questo domandarci in itinere, riceviamo risposta, nello stato degenere massimo – forse – che sembra suggerirci uno scopo: redimere la redenzione dal peccato, sdoganare una salvezza – che pone le sue basi proprio nel suo essere completamente effimera – per gli afflitti dal giudizio sulla violazione del tabù.

In questo modo mi sembra che il testo muova un passo oltre, ovvero operi un meccanismo dialettico per cui il nichilismo non è la sintesi del, ma solo l’antitesi al mondo, poiché la sacralità che l’essere umano attribuisce per sua natura a un uomo, a un gesto, o a una violazione fa parte di un processo di costruzione dell’idolo dal quale nessuno – in un modo o nell’altro – si può esimere; in questo senso il romanzo di Tedoldi non è un romanzo nichilista, in questo senso l’assurdità magica che entra in gioco nelle sue pagine si trasforma in mito, o racconto evangelico, e credo che questo passaggio dell’impossibilità del nichilismo sia ben riassunto dalle parole di Padre Eusebio, quando riflette che:

Dissolto l’animismo, ci si dispone in contemplazione abbagliata dei corpi che dell’antico miscuglio sono ciò che resta, reliquia, stagliati in un risalto innaturale e irrazionale, circondati da un’aura sacra, e attraversati nei tendini e nei muscoli e impregnati nelle ossa da un senso invisibile. Questa contemplazione si chiara materialista ma, nella sua fissità, mostra il segno del rapimento religioso. […] L’oggettivismo, come il materialismo integrale, sono estranei alla natura umana.

Si tratta in definitiva di un libro che non si fa inserire in quel filone staticamente nichilista e a tesi immobile che ad esempio è il presupposto della trilogia dell’Inumano di Massimiliano Parente, ma oltrepassa l’assenza di una metafisica verso il territorio complesso dove l’uomo è il dispositivo generatore delle proprie costruzioni metafisiche; e così Tedoldi non si arrischia a dare nulla per assodato, ma vaga – pur sostenuto da una struttura molto solida – in un territorio che non sa di già detto ma che, anzi, con risultati fluttuanti riesce ad aggiungere.

La lettura di questo romanzo è complessa per via di un linguaggio molto elaborato e per un numero elevato di citazioni e rimandi che alcune volte sono dimenticabili, e per via di un primo scoglio di lettura, una prima parte che, vuoi per i dialoghi, vuoi per la caratterizzazione, vuoi per la pesantezza apparentemente ingiustificata, può dare un’impressione di debolezza, ma che acquista senso nel corso della lettura. Tedoldi dimostra in questa prova grande talento, raggiungendo eccellenti momenti linguistici e dalla sottile intelligenza, in grado di trasportare, soprattutto nelle zone del testo favolistiche e dal taglio più irreale, il lettore in un mondo che dal primo all’ultimo momento ci sembra credibile perché proprio, un mondo tremendo ma dal quale – quando si rimane in esso invischiati – è difficile uscire.

Un libro ambizioso e che lascia ben sperare nei prossimi lavori di Giordano Tedoldi.


 

Giordano Tedoldi, Tabù, Tunuè, Latina 2017, 360pp. 14,90€