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#PremioBg17 – due parole con Alessandro Zaccuri

Zaccuri Premio Bg

Ecco l’ultima delle cinque interviste ai finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2017, che verrà assegnato nel Ridotto del Teatro Donizetti di Bergamo, sabato 29 aprile 2017. Questa volta vi proponiamo la chiacchierata fatta con Alessandro Zaccuri sul suo libro Lo spregio (Marsilio 2016).


Lo spregio è un romanzo sul male: ci sono i contrabbandieri, una famiglia mafiosa, i poliziotti corrotti, una comunità collusa. Com’è che in questo mondo non sembra esserci una possibilità di bene?

In realtà la possibilità di bene c’è ed è il momento con protagonista il Moro, che è il più negativo di tutti i personaggi; noi vediamo questo mondo come lui se lo immagina: un mondo a sua misura, dove le cose rispondono a questo suo piano criminale, che è in realtà abbastanza modesto alla fine, parliamo di traffici di contrabbando; è come se lo vedessimo nella sua prospettiva. E questa prospettiva è destinata a incrinarsi, ad essere attraversata da una crepa, quando lui fa entrare un figlio nella propria vita: che non è un figlio naturale, è un trovatello, per cui con un atto di imperio (come sempre nella sua vita) lui decide che è suo figlio, pensa che sia in qualche modo un’occasione per ampliare il suo potere, ma in realtà il figlio porta dentro il rischio e l’occasione del bene.

Perché il Moro sperimenta l’occasione di fare qualcosa che altrimenti non avrebbe mai cercato di fare, sacrificarsi per un altro, per il figlio, e il rischio, perché quando tu affidi una parte di te a un altro non puoi essere sicuro dell’uso che l’altro ne farà, quindi ti esponi al rischio di essere ferito, tradito, di diventare l’oggetto di una contrapposizione, di una ribellione addirittura.

Quindi è vero che è un mondo apparentemente privo di un bene espresso, però è una specie di contaminazione al contrario: di solito immaginiamo una piccola comunità positiva in cui il nuovo venuto porta la divisione, invece qui c’è uno strano equilibrio del male che si incrina proprio nel momento in cui l’ipotesi del bene si fa strada nella storia.

Allo stesso tempo questo è un mondo di uomini, perché sono gli uomini che cercano di imporre la propria legge, invece le donne sembrano assorbire gli urti. Com’è stata questa scelta di creare una contrapposizione molto netta tra personaggi maschili e femminili?

Intanto, perché i sentimenti maschili sono poco raccontati, per cui offrono una straordinaria occasione di racconto e rappresentazione: sono una scoperta per gli uomini, i maschi stessi. Poi in realtà forse perché alcuni dei libri che mi hanno più colpito e più formato sono caratterizzati da questa comunità maschile molto riconoscibile. Visto che tra l’altro voi vi chiamate la Balena Bianca, mi risulta che sul Pequod di donne non ce ne siano, però c’è la memoria verso la fine, in quel meraviglioso capitolo, nel dialogo tra Achab e Starbuck, c’è all’improvviso l’apparizione della moglie di Achab e del figlio: e anche lì è un’occasione di bene che non si compie. E i pochi personaggi femminili che sono nella storia, in particolare Giustina (la moglie del Moro e la madre di Angelo) ha un po’ questo compito di raccogliere, ancora prima che di accogliere, quello che rimane di questo tentativo destinato al fallimento, di bene, amore e riconoscenza… e come quella frase bellissima del Vangelo di Luca dopo che viene ritrovato Gesù nel tempio fra i dottori, Maria custodisce tutte queste cose in cuor suo.

Non vuol dire scaricare solo sulle donne il compito del patire e conservare, però io credo che come nella struttura maschile, almeno secondo un certo tipo di educazione – questi sono personaggi di qualche decennio fa -, ci sia questa inabitudine ai sentimenti, in quella femminile c’è stato e in parte c’è ancora questa capacità di raccogliere, contenere, cercare di interpretare e di dare un senso.

Una nota sullo stile e sulla scrittura. Il tuo libro appare un po’ fuori fase – non è un giudizio di valore – rispetto a quello che si legge oggi, dove si tende a sovraccaricare la pagina. Invece Lo spregio si distingue per una certa asciuttezza, che rasenta forse in certi momenti la cronaca, nella sua essenzialità. Sentivi il bisogno di scrivere una storia che andasse “liscia”?

Sì, diciamo che sentivo il bisogno di una storia in cui l’elemento linguistico fosse il più possibile studiato e pertinente (per esempio, secondo me c’è una diversità nel modo in cui parlano i personaggi del Nord e del Sud: una diversità sintattica), dove però la ricerca linguistica non fosse di ostacolo alla lettura, anche a costo di mimetizzarsi. Io ho scritto libri ambientati in contesti differenti con personaggi differenti, ci sono dei casi in cui è abbastanza facile far apparire che stai scrivendo bene in maniera ricercata… Se scrivi un romanzo nell’Ottocento, dici “tabarro” e tutti ti fanno i complimenti per la ricerca linguistica. Se lo fai ambientato nella contemporaneità ma con lo stesso scrupolo di aderenza alla realtà, per mimare un linguaggio più prossimo al nostro, diventa difficile.
Io ho cercato di fare in modo che non fosse un resoconto propriamente di cronaca, anche se prende un po’ l’incalzare più che della cronaca di qualcosa che viene visto (questa era la mia intenzione), mettendo dentro delle avvertenze, dei piccoli segnali linguistici che però non fossero tali da essere ingombranti.

Un’ultima domanda che abbiamo fatto a tutti i finalisti. Qual è secondo te il carattere, l’elemento del tuo romanzo che potrebbe convincere la giuria a farlo vincere?

Il fatto che se anche è una storia che ci augureremmo non succedesse mai, è una storia che sappiamo che può succedere: quindi è un’occasione di accostamento alla realtà. Credo che attraverso il racconto noi cerchiamo sempre di avvicinarci a qualcosa che ci interessa o ci spaventa, e se non ci fosse questa preoccupazione non avremmo bisogno di raccontare e di farci raccontare storie… Quindi, forse per questo.