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Fantasmi dell’oblio – La fotografia di Mario Cresci

Ghosts of Oblivion (The Archives of Mnemosyne)/Fantasmi dell’oblio (Gli archivi di Mnemosyne) è un testo contenuto nel catalogo della mostra Mario Cresci. La fotografia del no, inaugurata il 9 febbraio alla Galleria di Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, che sarà aperta fino al 17 aprile 2017. Si tratta della prima grande mostra antologica dedicata al fotografo. Si ringraziano la GAMeC e l’autore per la concessione a riprodurre il testo.


 

Si presentano a noi cose, segni, immagini, spettri, ovvero fantasmi […]. Non senza motivo Socrate definì l’oblio come una perdita di percezione; ma se per la stessa ragione avesse definito anche il seme del memorabile sparso e non concepito dalla memoria, egli avrebbe certo esplicato la cosa più in profondità. Se infatti la fantasia non bussa con vivacità sufficiente valendosi di immagini sensibili, la facoltà cogitativa non apre le porte, e se la facoltà cogitativa che ne è custode non apre, Mnemosyne, la madre delle Muse, sprezzando simili immagini non le accoglierà.
(Giordano Bruno, Il sigillo dei sigilli 11, 19-20)

Interni mossi, Tricarico, 1979

Osservando la serie Fuori tempo (2008) di Mario Cresci si è portati a pensare che i dipinti e le statue della pinacoteca Carrara incarnino fantasmi di una visionarietà in perenne movimento, fossili viventi, testimoni del passato che sopravvive e torna a interrogare lo sguardo. Il mosso suggerisce contemporaneamente che ogni individuo è un morto in potenza e che gli spettri non muoiono mai del tutto. Immagino il termine “fantasma” come qualcosa o qualcuno che sopravvive alla sua stessa sparizione, e ricompare nel corso del tempo, facendosi presenza anche senza rendersi riconoscibile. Nel caso delle opere d’arte presenti nella pinacoteca bergamasca, il mosso rende fantasmi i capolavori di Bellini, Lotto, Moroni, Basaiti, Pitocchetto, qui da intendere anche come immagini che sono sopravvissute alla sparizione degli artisti che le realizzarono. Gli scatti si soffermano sui volti, sugli sguardi, sul significato dell’identità soggettiva. Questi fantasmi si fanno riconoscere e ribadiscono la loro fama o quella dei loro creatori. Cresci si fa medium per riconsegnare un messaggio inviato da artisti vissuti in altre epoche. Le fotografie della serie Fuori tempo riconducono alla definizione data da Abi Warburg rispetto alla storia dell’arte o alla storia delle immagini, intesa come una “storia di fantasmi per adulti”, ovvero una proiezione dinamica continua, che ha per oggetto latenze e risvegli, entro un groviglio inestricabile di tempi e di spazi. Cresci attinge all’antico ancora attuale, scompiglia l’interpretazione e la lettura con l’efficacia simbolica, facendo in modo che la sua ricerca fotografica inneschi i vettori lineari della durata e della profondità di campo.

Interni mossi, Tricarico, 1979

Evoca la spettralità dell’arte e la conflittuale relazione tra l’uomo e la storia; lascia sortire dalle immagini del tempo presente le reminiscenze del passato, in una proiezione dove la memoria diventa portatrice di un’intenzione concettuale. Cresci intuisce il potenziale evocativo di questa possibilità già nella serie Interni mossi, realizzata a Tricarico e a Barbarano Romano tra il 1966 e il 1979. Qui cerca di comprendere lo spirito del luogo, inseguendo le anime delle persone, gli elementi culturali che hanno formato la loro identità, entro un determinato territorio, permeato di tradizioni e usanze. Così il mezzo fotografico viene messo sullo stesso piano dell’analisi etnografica e antropologica, con un tempo lungo di posa, per penetrare in profondità nelle fessure del reale. E sulle tracce di una geografia interiore, Cresci immagina di essere in uno spazio non scandito dal tempo, oltre il passato e il presente. Si figura in un altrove pur esperendo la contingenza reale del quotidiano, vissuto in un determinato periodo storico: nel qui e ora, a Barbarano Romano, l’Autoritratto (1978) della serie Interni Mossi è al contempo presenza e assenza, quasi un oggetto mimetizzato a contatto con la carta da parati nella stanza, proiezione fantasmatica e precaria che si affida al fideistico eterno fissato da uno scatto. In Segni e frequenze, sonda gli impulsi interiori di Gaetano Donizetti, osserva il sismografo del sentimento, ancora attraverso l’instabilità dei mossi, per cercare di cogliere ciò che traspare nei segni delle sue composizioni musicali, negli spartiti autografi e negli appunti, nella sua inquietudine, nel ritratto fantasma. E ancora il mosso è scelta formale e poetica nella serie La macchina di Penelope, dove anche gli oggetti divengono spettri di un’attività precaria, simulacri di una crisi economica sempre pronta ad arrembare. Gli innumerevoli fili si muovono sui telai del cotonificio bergamasco e si ricollegano idealmente al mito di Penelope: la moglie di Odisseo che disfa continuamente la tela di notte dopo aver lavorato tutto il giorno rimanda anche a ciò che non può mai essere terminato, perché il lavoro fatto precedentemente viene vanificato e ogni volta si deve ricominciare da capo. E in questo fare e disfare scorre continuamente il tempo e le persone che lo abitano, così che tutto è destinato alla continua trasmigrazione (fisica, concettuale e simbolica) di fantasma in fantasma.  Si mette in azione però un percorso importante per la lettura dell’intera opera di Cresci: la migrazione e il ritorno, l’andirivieni tra mobilità e trasformazione, sono fattori che tracciano continuamente percorsi non semplificabili nella trama discontinua della memoria. Siccome ogni fenomeno importante si esprime in forma dinamica, i segni e le figure sopravvivono solo se resistono all’esperienza del viaggio, del tremore, sia attraverso lo spazio sia attraverso il tempo. Le fotografie mosse delle persone, delle opere d’arte e degli oggetti inducono a meditare sulla loro dimensione fantasmatica, sul loro essere composte di strati temporali diversi. Prendere consapevolezza di questa condizione può servire ai fruitori per provare ad abitare nella storia in modo assolutamente anacronistico o atemporale. L’intuizione di Cresci è molto vicina al pensiero warburghiano, avendo ben presente che ogni immagine prevede il futuro, custodisce il passato, e sposta il presente per entrare nella semplice complessità dello sguardo. Così l’incontro con i fantasmi può indurre alla commozione. In questo incontro è possibile estrarre le immagini dal tempo specifico in cui sono apparse e dall’opera in cui sono nate.

Nella apparente semplicità lineare del suo approccio creativo, Cresci mira a spingere i percorsi semantici dello sguardo verso la sottile comprensione delle forme del pensiero attraverso le immagini in movimento. La sua ricerca riflette un processo spontaneo di orientamento all’interno della vita. Sembra suggerire che l’atto del vedere e del sentire sia già una via per comprendere, senza bisogno di ricorrere ad altro, facendo in modo che lo sguardo prenda con sé la visione. Rincorrendo Mnemosyne, ovvero la

Fuori tempo, Bergamo, 2008

matrice memoriale delle Muse, nella serie Bye bye signor conte (2008) Cresci testimonia sparizioni di immagini, delocazioni, la varietà delle traslazioni, oltre gli oblii, cerca le sopravvivenze, evidenti o carsiche, ricostruisce altre visioni o possibilità. Parte dalle tracce geometriche rimaste sulle pareti del museo; evoca un ritorno al grado zero della forma, al bianco di una nuova possibilità progettuale. Si aggira tra spazialità destrutturate e temporalità decostruite. Momenti del passato e del presente vengono tessuti insieme, pensati come un’opera aperta che sa rendere enigmatica ogni certezza. Le fotografie delle opere momentaneamente spostate, attaccate con lo scotch accanto alle tracce di polvere lasciate dall’esposizione nel tempo, non riconducono la conoscenza del mondo in un sistema fermo, bensì segnalano momenti provvisori, schegge di un’unità frantumata, da ricostruire ogni volta di nuovo con l’immaginazione e la memoria. Nella sua lunga carriera Cresci assembla un archivio di possibilità e di spostamenti continui, al di là dei consueti recinti disciplinari: compie una sperimentazione anche extra-fotografica, seguendo una metodologia basata sull’intreccio tra vari linguaggi.  Ama sperimentare mettendosi sempre in discussione, rischiando ogni volta la possibilità del fallimento, e così innesca una migrazione di ipotesi, di composizioni, di verifiche, seguendo intuizioni personali, o suggestioni evocate da colleghi contemporanei o da tracce del passato. Pone sullo stesso piano temporalità lontane, ricordi e attualità, senza seguire una narrazione cronologica o progressiva. Immaginando connessioni tra forme e dissonanze, cerca di cogliere con i suoi scatti imprevisti significati. Fa intuire parentele semantiche svelando l’inconscio delle immagini, i segmenti della memoria trasformata in conoscenza, immaginando il mosaico del visibile in tanti fotogrammi. Le opere dei diversi periodi di Cresci offrono percorsi di apparente semplificazione e sembrano promettere la possibilità di tracciare, in modi diversi, un metodo, una via perseguibile nella selva di temi, simboli e figure e nell’intreccio delle loro peregrinazioni. Affidandosi al sapere antropologico, alla sua fitta rete di rimandi, dove si rendono manifesti attriti e conflitti, fotografa le vite, le cose del mondo, i corpi e i gesti che sono transitati dal passato alla contemporaneità, i mossi fantasmatici, cercando di ridurre le distanze e le antitesi tra le epoche, oltre la logica dello sviluppo cronologico lineare, oltre la vertigine epistemica aperta su molteplici saperi.


Mario Cresci. La fotografia del no, edizione italiana e inglese, a cura di M.C. Rodeschini e M. Cresci, GAMeC Books, Bergamo 2017.