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L’abisso che era scrivere: sulla poesia di Bernardo Pacini

Bernardo Pacini (fiorentino, classe 1987) si conferma poeta prolifico quanto versatile, con la terza raccolta pubblicata in appena tre anni (La drammatica evoluzione, Oèdipus, Salerno, dicembre 2015). Si tratta stavolta, come anticipato da tempo, d’un libro sui Pokémon; ed è una scelta che poteva destare legittime perplessità. In apparenza, il gioco di Pacini è stato tentato diverse volte in tempi recenti: applicare forme chiuse tradizionali a una materia per sua natura estremamente pop, caduca, effimera. È tanto più notevole, allora, che in questo caso l’operazione non si svolga all’insegna della solita ironia ammiccante postmodernista; l’intento di fondo non è scherzoso, perché si sente che l’autore nutre un autentico amore per la sua materia. Di postmoderna c’è in lui, tutt’al più, una condizione di base che però è oggi quella d’ogni esistenza e quindi d’ogni scrittura: un dato neutro, al quale è lecito reagire nei modi più diversi, ma comunque in sé non significativo o interessante da rilevare. Non siamo nemmeno di fronte alla ricerca di un effetto ‘cannibale’ un po’ cheap, trascorsa ormai l’epoca in cui poteva di per sé produrre scandalo che un letterato s’interessasse a un soggetto (video)ludico; e tantomeno siamo di fronte a una qualche oltranza avanguardistica. Pacini, infatti, scrive di Pokémon, ma non scrive come un Pokémon. Diversamente, un poeta come Manuel Micaletto è un Pokémon, antropologicamente parlando, e quindi non ha bisogno di tematizzare i mostriciattoli giapponesi, bensì guarda egli stesso il mondo con gli occhi di una creatura da videogioco, per la quale la differenza tra pixel e realtà è estremamente labile.

Pressoché opposta l’operazione di Pacini, che non vuole sbeffeggiare il pop calandolo nei panni curiali della metrica tradizionale, né sbeffeggiare la tradizione costringendola a cantare il pop, ma neanche proporre un punto di vista post-umano. Sembra piuttosto che il poeta toscano voglia chiudere i conti in maniera creativa col proprio (generazionale) passato di pokémonista oggi diventato adulto. Un giovane adulto laureato in filologia, però, il quale sa che esiste una tradizione letteraria che nei secoli ha saputo dar voce a tutte le infinite espressioni dell’umano, e dunque sa vedere un’espressione dell’umano anche nei Pokémon, e sa ricondurli a questa loro radice ultima – non pokémonizzando l’umano (come farebbe un neo-neo-avanguardista o un cannibale) ma umanizzando i Pokémon.

Per questa ragione non trovo troppo cogente, nonostante la comune provenienza fiorentina e alcune indubbie convergenze, il paragone con Marco Simonelli e in particolare col suo Palinsesti (Ed. Zona, 2007), avanzato fra gli altri da Rosaria Lo Russo nella postfazione alla Drammatica evoluzione. È vero che lo spunto è superficialmente simile, ma nel suo ‘Canzoniere catodico’ Simonelli trattava una materia più scopertamente mainstream pop (laddove i Pokémon, come Pacini stesso mi ricorda, sono in fondo una nicchia per appassionati, per nerd) e anzi trash, quella del gran circo mediatico e televisivo. Di conseguenza, tale materia mi pare oggetto, in Simonelli, di un’assoluzione molto più ambigua, in cui è implicita una certa risata amara: insomma, un’operazione più tipicamente postmoderna di bathos, in cui lo stridore tra una forma ‘nobile’ (ma ormai non più prendibile sul serio) e una materia ‘volgare’ non è evitato, bensì ricercato come effetto preciso. Da questo punto di vista, una raccolta come quella di Simonelli si collocava ancora nella scia dei cannibali ricordati sopra (e non sarà fuori luogo ricordare come più recentemente la maniera dello stesso Simonelli sia evoluta in direzioni diverse).

Sui toni, invece, empatici e sostanzialmente seri del libro di Pacini appaiono centrate le osservazioni della citata Lo Russo, e soprattutto quelle offerte da Davide Castiglione nella ‘recensione anticipata’ raccolta ora su Laboratorio in differita – vol. 1, 2013-2015, Pareri di lettura sulla poesia emergente (www.inrealtalapoesia.com, 2016, pp. 178-189). Come spiega Lo Russo, obbiettivo del libro è “rivisitare con serio piglio filologico le storie dei mostriciattoli, al fine di liberarsi […] della malefica fascinazione subita nell’infanzia”, recuperando “l’immane potenza di una fantasmagoria” che ha segnato la sua generazione per “inaugurare una tradizione scritta” dei Pokémon. Ma se la prefatrice insiste fin troppo moralisticamente sull’estraneità dei Pokémon, “fantasmagoria […] rimbambente”, alla cultura e all’educazione occidentale[1], e quindi sul valore catartico di un’operazione poetica che consentirebbe a Pacini di “liberarsi […] della malefica fascinazione subita nell’infanzia”, Castiglione avverte chiaramente che quella allestita da Pacini è una Spoon River, “una galleria di emarginati” cantata da un “narratore […] empatico, né distaccato né giudicante”; i Pokémon, insomma, lungi da essere un bestiario di mostri “incarnano tipi umani” verso cui l’autore mostra “personale affezione”.

In virtù di questo atteggiamento Pacini sfugge, per fortuna, ai terrorismi di quello pseudo-prescrittivismo storicistico per cui le evoluzioni della società o della tecnologia renderebbero obbligatorio scrivere certe cose e vietato scriverne certe altre; imperativo risolto quindi in un bieco contenutismo (“oggi esiste X, quindi bisogna parlare di X”) o in altrettanto bieco (ma più pericoloso perché più subdolo) formalismo (“oggi esiste l’internet, bisogna parlare come l’internet”). Si tratta di atteggiamenti tutt’altro che sepolti con Marinetti e il suo “automobile ruggente”: riproposti sempre in forma vagamente ricattatoria dalle neo-avanguardie di mezzo secolo fa, sono oggi tornati di moda presso le neo-neo-avanguardie, i cui massimi esponenti non solo agitano lo spettro di un ‘cambio di paradigma’ peraltro mai precisamente definito, ma nelle occasioni più infelici arrivano letteralmente a rispolverare gli slogan più ottusi del futurismo storico. Così in alcuni recenti interventi di Gilda Policastro[2] (rappresentativi, comunque, di tutta una tendenza), dove si leggono inviti a “farla finita col chiaro di luna […] come se davvero aprendo la finestra i poeti oggidiani potessero vedere uccellini e campagna invece di traffico e gasometri”, e dove si sostiene che “una poesia di oggi non può parlare di cuore e sospirare”, perché “una poesia che si legge sul tablet e dice cuore è improponibile, va fermata subito, va impedita.” Ridurre una querelle in sé non banale a termini così caricaturali, sia pure in articoli di taglio giornalistico e polemico, non si vede che bene possa fare al dibattito; la stessa Policastro è autrice capace, per fortuna, di molto maggior sofisticazione.

Abbandoniamo dunque questi discutibili anatemi teoretici, per tornare al nostro autore e osservare più da vicino la scrittura della Drammatica evoluzione. Non so cosa veda Pacini dalla sua finestra, ma di certo è scrittore tecnicamente preparatissimo, e volendo comporre un libro in metri tradizionali[3] non si è rivolto al solito sonetto, persino abusato dai neometrici nostrani, ma adopera nelle diverse sezioni del libro forme più rare e/o sofisticate: settenari doppi con rime aBbA ‘alla Gozzano’, strambotto (nella forma ABABCCDD), limerick (tradizionale, sì, ma non in Italia), mottetto (qui interpretato come due quartine di ottonari, con schema di rime variabile). Forme brevi, queste ultime, e tipiche della poesia più o meno giocosa, arguta e popolare – a loro modo adatte, dunque, alla materia. In tre delle quattro sezioni della raccolta, si noti, è introdotto a parlare uno specifico Pokémon (Drowzee, Slowbro, Jigglypuff), il quale si esprime sempre in una determinata forma metrica: le scelte metriche sono dunque al servizio della prosopopea, o meglio dell’etopea[4]. Per questo, delle molte interpretazioni mutualmente non esclusive consentite dal titolo, non scarterei l’idea che l’aggettivo drammatica sia da intendersi in senso etimologico, per la forte teatralità di un testo dove sono i Pokémon stessi a salire, uno dopo l’altro, sulla scena.

Risulta interessante, date le premesse, il contrasto fra la metrica rigorosa e il frequente ricorso a rime imperfette; queste non compaiono esclusivamente quando servono ad accomodare terminologia forestiera (che comunque è assonanzata a partire dalla pronuncia italiana approssimativa, non secondo quella nel sistema linguistico originario[5]), ma anche in italiano. Alcuni esempi a caso, fra i molti: devastante : fronte, cloro : duraturo, epicentro : spento, tenacia : brucia. In questo approccio rilassato alla rima si può vedere una concessione alla libertà formale (post‑)novecentesca che tempera la scelta del metro regolare. Lo stesso compromesso appariva già nel sonetto “L’allunaggio sul manto del tuo occhio…”, apparso nella prima raccolta dell’autore: impeccabile nella misura dei versi, ricorreva però spesso all’assonanza (ad esempio notte : palafitte : soffitte : costrette) in luogo della rima.

Pacini ha infatti pubblicato in breve giro di tempo, per tre editori differenti, tre libri diversi fra loro da ogni punto di vista (tema, forme, e non ultima la rilevanza della dimensione grafica – il secondo è un libro d’arte a tiratura limitata, accompagnato dalle foto di Valentino Barachini, e il terzo è comunque illustrato, a cura dell’Atelier Blu Cammello, con i ritratti dei Pokémon protagonisti; entrambi sono dunque strettamente legati al loro impianto iconografico). In questo senso, pur mostrandosi all’esordio già tutt’altro che ingenuo e anzi ben accessoriato sul piano teorico e tecnico, Pacini non è un autore già chiuso in una maniera, bensì in evoluzione, e perciò in potenza ancor più interessante. Per meglio contestualizzare e comprendere la sua ultima raccolta, quindi, non sarà fuori luogo riprendere in mano le precedenti pubblicazioni.

Cos’è il rosso (Ed. della Meridiana, 2013) era per molti versi un tipico libro d’esordio, che raccoglieva un ampio ventaglio di umori, ispirazioni, esperienze, e anche di soluzioni formali differenziate; le raccolte successive sono più compatte ma anche più circoscritte, più limitate nel loro focus. Sono presenti, beninteso, anche i difetti di questo genere di raccolta giovanile, vale a dire diseguaglianze, cadute di tono e una certa sovrabbondanza di materiale; eppure il libro risulta accattivante, oltre che per i suoi meriti linguistici e formali già notevoli, proprio per questo suo carattere picaresco, formativo, per l’ampio orizzonte esistenziale che percorre.

Perfavore [sic] rimanete nell’ombra (Ed. Origini, 2015) ha un titolo che ribalta il più bel disco dei Talking Heads (Remain in Light) anche se – a quanto pare – non intenzionalmente (ciò nonostante la cultura di Pacini in fatto di art rock sia tutt’altro che limitata, come dimostrano certe sue frequentazioni neo-progressive e post-metallare decisamente per intenditori). Tornando alla poesia, Perfavore (raccolta un po’ esile, appunto perché quasi subordinata al suo lussuoso apparato tipo‑ e iconografico) è il libro ‘americano’ di Pacini, e infatti la sezione più interessante sono i flashes (uso apposta il termine montaliano, incoraggiato dai mottetti dell’Evoluzione) di un viaggio negli Stati Uniti, dove l’attento sguardo del poeta si apre a paesaggi più esotici e ariosi rispetto al mondo in massima parte fiorentinocentrico (pur con escursioni iberiche) di Cos’è il rosso.

A questo proposito, trovo che la toscanità, e anzi proprio la fiorentinità di Pacini si rifletta percettibilmente in determinati tratti della sua scrittura: in primis, nel suo abitare la lingua italiana con grande naturalezza e destrezza, quella che le vecchie storie della letteratura avrebbero chiamato grazia o schiettezza toscana, e che lo tiene lontano da quelle rigide stilizzazioni e/o deformazioni espressive del linguaggio così tipiche (anche oggi!) di scrittori provenienti da certe altre zone d’Italia. In effetti, uno dei maggiori godimenti stilistici che provo come lettore di Pacini è proprio certa saporita estrosità del lessico, certa scelta di parole inusuali, precise, bizzarre o rare, che però non diventa mai esibizionismo pedantesco. Un breve elenco esemplificativo è necessario, con l’avvertenza però che nei testi queste spezie sono dosate con gusto, e non producono mai quel sovraccumulo, quella vertigine lessicale gaddiana che esalta ma può anche facilmente stomacare:

Da Cos’è il rosso, senza pretese d’esaustività: insugherite, diavolesse (derivato da Buzzati), schignida, buiore (termine venerabile, già noto ai lessici cruscanti, ma segnalato dal corsivo nel testo originale), inconchigliare, mangira (neoformazione per ‘mangia in giro, gira mangiando’?), mefisto, sarchiare, unghielli.

Da Perfavore: lanicci, cimosa, acrostolio, fagliamento, camera anecoica, forra modanata.

Nella Drammatica evoluzione, invece, si fatica a trovare esempi simili di lessemi preziosi o ispidi che balzino all’occhio – forse per un processo di maturazione autoriale, forse per la maggior compattezza stilistica e tematica del concept, gli scarti lessicali sono più contenuti.

La toscanità di Pacini, inoltre, si avverte in certa sveglia, fresca, asciutta ironia (non cinismo, come avvertiva bene Fabrizio Sinisi nel risvolto di copertina a Cos’è il rosso), che nella sua opera agisce da costante antidoto nei confronti di possibili eccessi voluttuari sia d’ottimismo che di disperazione. Burbero quanto basta, il poeta si tiene lontano tanto da una poesia bamboleggiante, forzatamente solare e ottimistica, quanto dal compiacimento della negatività e dell’abisso. Sottolineare la natura non parodica e non sarcastica della scrittura sui Pokémon, a questo proposito, non significa negare un’importante presenza dell’elemento ludico nella poesia di Pacini. Bernardo è un autore serio, ma per nulla serioso: il piacere e il vero e proprio divertimento che senza dubbio prova nell’invenzione poetica risultano evidenti alla lettura.

Soprattutto nei primi libri, di nuovo meno condizionati dalla precisa scelta tematica del terzo, Pacini mostra un occhio particolarmente acuto ed empatico per i dettagli obliqui e marginali, per le buffe scenette quotidiane che rasentano un lieve grottesco[6], per i personaggi secondari o addirittura ‘muti’ (animali, piante, cibi, bevande, arnesi).

Da Cos’è il rosso: il finire della maionese, il mannello di carciofi, i funghi intirizziti, le pozze di dentifricio, le melanzane a mezzanotte, le cipolle di tutti gli orti; le bevute notturne d’acqua frizzante con relativa dissertazione sulle dinamiche della diuresi; i cancelli dietro cui si sospettano non più giardini coi loro giardinieri, ma banche private; il merlo sulla balaustra, la zanzara schiacciata, le “lucciole chiuse / in un vasetto di miele”, i nidi di geco, le “zampe delle lepri / [che] profumano di mosto”, i mirtilli in fiamme; “lo strascico della sposa / sporco di terra del sagrato”, il “panaio / che non ha più schiacciata / alle undici del mattino”, il capocoro del Novara calcio che reclama lambrusco in uno strano gergo semidialettale.

Da Perfavore: la “birra esplosa / nel vano congelatore”, la “cameriera che riempie furiosamente / i barattoli di mostarda”, “l’inserviente del Walmart […] persa nella taiga di grucce”, i tramezzini, e la donna che “urla grassa sulle cosce e disperata” la frase che dà il titolo al libro.

Come si può vedere dal numero degli esempi addotti, è una maniera largamente prevalente nella prima raccolta, non solo – direi – per le maggiori dimensioni di quest’ultima, ma per la centralità tematica che ha in essa la dimensione picaresca e bohémienne, del poeta come flâneur (auto)ironico che si aggira svagato e goloso d’identificarsi nei dettagli più curiosi che gli si propongono ai sensi. In un certo senso, però, potremmo classificare nel novero delle creaturine improbabili anche gli stessi Pokémon, e dunque vedere nella più recente silloge un macro-esempio di questo stile. Trovo azzeccato, per questa poetica delle illuminazioni sorprendenti estratte da “piccole cose, il più possibile feriali e comuni”, il riferimento a Govoni proposto da Gianfranco Lauretano nella prefazione a Cos’è il rosso. È anche vero che, come osserva lo stesso Lauretano, i mezzi stilistici specifici impiegati dai due poeti sono sensibilmente diversi (tra gl’italiani contemporanei il più simile a Govoni resta sempre il bravissimo Nader Ghazvinizadeh).

Con tutta la sua attenzione per il dettaglio umile e concreto, Pacini è comunque lontano nel bene e nel male da uno stile naïf, perché ha la capacità d’iscrivere elementi in sé ‘comici’ (almeno nel senso tecnico della stilistica medievale) in miniature quasi araldiche, con una classica nobiltà da alta poesia ermetica. Per quest’ultimo tratto, Castiglione parla riguardo alla Drammatica evoluzione di “affondi lirici […] di letterarietà elevata” che spezzano il tono più colloquiale e diretto della raccolta (nel quale comunque, a differenza di Castiglione, non sento affatto il rap, per quanto la materia stessa obblighi a introdurre nel verso dei barbarismi – e quindi altri barbarismi con cui farli più o meno rimare, come si è visto sopra). Ma è vero: Pacini è abile a incastonare versi di pronuncia nobile e alta in componimenti dalla trama complessivamente più umile, il tutto con naturalezza, senza far avvertire uno scarto troppo brusco e dunque senza voler cavare effetti di dissonanza da tale scarto. Ecco qualche saggio di questo stile:

Da Cos’è il rosso: “bloccata sull’arsi del passo”, “mi mantiene in sezione aurea con l’alba”, “ci studiano le stelle / scrivono la sentenza”, “si bagni in un’arteria di rugiada”.

Da Perfavore: “Ti sostiene uno strapiombo di giorni”, “una terra / dove  i vivi sono teca per i morti”, “subito celebra di me / pasqua feroce”.

Dalla Drammatica evoluzione: “La madre che fraintese il corpo e il capezzale”, “L’abisso che era scrivere se lo sentiva addosso”, “gli occhi un dolore, la perla epicentro”, “un rostro in più difende un fuoco spento”.

Peraltro, la capacità di modulare senza salti la temperatura stilistica dei testi aiuta l’autore a schivare il rischio che l’elemento crepuscolare prenda il sopravvento (rischio non alieno neanche dalla Spoon River dei Pokémon, che alla fine è pur sempre un piccolo mondo di piccoli drammi, piccole cose di pessimo gusto, e infine se vogliamo un mondo di pupazzi, di marionette – tipica figura del decadentismo più intimista e crepuscolare da Laforgue in giù, anche se i Pokémon sono marionette, certo, dell’età massmediatica e digitale). A disinnescare ulteriormente ogni possibilità di sdilinquimento, invocherei di nuovo proprio le due doti già menzionate: burbera vivacità della lingua, salubre scetticismo del pensiero. D’altro canto, l’attenzione per il concreto e il quotidiano scongiura lo scivolamento in un poetese astratto e autoreferenziale, per quanto eventualmente splendidamente congegnato, come accade in scrittori che sono tutti formalisti e – magari per precise ragioni ideologiche – spregiano la realtà esterna al testo o la trasfigurano radicalmente.

Tornando alla raccolta fresca di stampa, si può osservare che le perplessità paventate all’inizio sono state fugate, sì, ma non del tutto. Proprio per la sua natura di lusus (per quanto non gratuitamente goliardico), questo libretto è un oggetto ben fatto ma in sé conchiuso, e che chiuso resterà in parte a chi di Pokémon sa poco o nulla, per questioni di gusti o anche solo anagrafiche – che sento di scontare già io, di soli due anni più anziano dell’autore e però già troppo grandicello quando il fenomeno esplose per maturare nei suoi confronti un vero interesse. La Drammatica evoluzione, insomma, non fuga la curiosità di vedere da dove riprenderà, in che direzioni muoverà l’autore dopo questo episodio. Finora, pur nell’alta qualità media di tutte le sue proposte, il suo libro più riuscito, proprio perché il più generoso, mi pare ancora il primo (pur con tutte le imperfezioni e i ‘giovenili errori’)

[1] E alla sua “kalagàthia” (sic! per kalokagathía).

[2] Cfr. http://www.doppiozero.com/materiali/recensioni/e-suo-sonno-due-libri-piu-uno-in-arrivo e http://www.wikicritics.com/uccidiamo-la-poesia-o-almeno-facciamole-un-po-male-di-gilda-policastro/ .

[3] Si noti che Pacini non è un neometrico esclusivo: nei libri precedenti, dove pure i versi sono sempre informati a un robusto senso ritmico di sostrato, la metrica è perlopiù libera.

[4] Mentre redigevo questa nota, è circolata la notizia che un giovane cantautore americano si è lanciato nell’impresa di scrivere una canzone per ciascun Pokémon (cf. http://www.rockit.it/news/canzone-per-ogni-pokemon). Lo spirito dell’operazione non pare lontano da quello di Pacini, se è vero che “sembra che dietro a ogni Pokémon ci sia un aspetto dell’umano”.

[5] Es. ketchup : check-up, rocket : racket, Stoker : Haunter, Scyther : lager, Weltanschauung : d’antan.

[6] Solo a tratti e mai nel complesso, in certi momenti di più panica identificazione con una realtà materica scarmigliata e magari personificata (“la luna [che] orina in Arno”, “le froge dilatate di una mesa”, il canyon come vagina, la fissità “masticata / a larghi morsi dal sole”), in certi squarci d’un mondo provincial-primitivistico di umori e sudori deformato da un surrealismo onirico, il Pacini delle prime due raccolte può assomigliare alla maniera visceral-picaresca di Francesco Maria Tipaldi (e ai suoi vari antecedenti, fra i quali mi pare notevole Vittorio Bodini – namechecked da Pacini in una poesia del primo libro, tanto per chiudere il cerchio). Rispetto a lui, però, manca quasi sempre l’afflato (un po’ forzatamente) drammatico, e le esagerazioni biblico-stercorarie.