Site icon La Balena Bianca

La Svezia e il tennis come fenomeno esistenziale

Judit: Non hai visto che ho lasciato la bicicletta appoggiata alla quercia?
Allan: Sì, ho visto.
Judit: E cosa significa?
Allan: Significa… Che vuoi che venga a giocare a tennis.
(Ingmar Bergman, Danza Macabra II)


This is the dawning of the Age of Aquarius e il mondo sta cambiando da un piccolo palcoscenico off-Broadway. La quota svedese alla controcultura beat è un rovescio a due mani che sembra un colpo di mazza da hockey e invece farà la rivoluzione. Ci vogliono un maestro di tennis, Percy Rosberg, e il fenomeno björnborg per completare l’opera del primo tennista svedese, il principe ereditario Gustav V che a Londra, nel 1879, aveva visto giovani vestiti di bianco muoversi eleganti su campi d’erba. Il re che nel 1932 fece sfidare la Divine Lenglen e l’americana Wills-Moody a Stoccolma; che pochi anni più tardi, mentre Hitler invadeva la Polonia, rischiò una crisi diplomatica per salvare il tennista Gottfried von Cramm, fidanzato con un giocatore ebreo e sprezzante del regime, dalla persecuzione nazista. Game Set Match non è un libro di sport, ma la visione tenniscentrica della Svezia socialdemocratica di Olof Palme e del suo welfare state, dei Folkhem, della via al socialismo senza socialisti, della nazione diventata più ricca al mondo mentre Wimbledon, nel 1973, s’innamorava di Björn Borg.

Björn  aveva basato il proprio gioco sulla semplicità e sul controllo. Era questo che aveva imparato davanti al muro garage: i pensieri che avevano il suo modo di comportarsi: tenere la palla in gioco abbastanza a lungo, conquistare il punto. Scagliò i suoi potenti dritti, e poi si trattava di non perdere un colpo, di continuare a muoversi in modo fluido, di evitare di buttare la palla fuori. La sicurezza non era soltanto il motto di Björn , ma un prodotto svedese di successo che aveva trasformato costruttori di automobili e industrie di ferramenta in imprese miliardarie; era la scuola di pensiero sulla quale si reggeva l’intero sistema dello stato sociale (p. 116).

I successi di Borg esportarono in tutto il mondo le migliori virtù svedesi: metodo, determinazione, riserbo e impassibilità. Eppure la scelta di Montecarlo per ragioni fiscali aprì la strada alle critiche della mercificazione in atto del tennis professionistico, specchio di un capitalismo globale ante litteram in un’epoca, come gli anni Settanta, che ancora viveva di altri ideali. Risucchiati dalla legge di Jante, Borg e la Svezia non si amarono di un amore incondizionato perché Björn era troppo diverso per essere amato, eppure toccava corde più profonde, era una forma esistenziale, «Non riuscivi a togliertelo dalla testa»:

Le mosse del giovane rampollo nei mesi che avevano preceduto la vittoria di Parigi fiaccarono l’adorazione dei clan nei suoi confronti: invece di consentire loro di continuare ad autocelebrarsi, Björn li costringeva a riflettere su questioni spinose come lo sport e la politica, l’etica delle tasse e la lealtà dell’individuo verso la collettività. Per Borg, la decisione di trasferirsi a Monaco significò perdere il proprio status di idolo dello sport investito dalla divinità, ruolo che in quello stesso anno passò allo slalomista Ingemar Stenmark. Björn aveva dato inizio a un rapporto più complicato con il suo Paese: l’adorazione e la profonda ammirazione nei suoi confronti mutarono. Restava qualcosa di più durevole, un profondo interesse per il tennis (p. 126).

Game Set Match è proprio l’isteria collettiva degli svedesi per il tennis ed è il racconto di (almeno) due generazioni di tennisti formidabili: l’eleganza del gesto di Arthur Ashe, la follia seduttiva di Ilie Nastase, gli occhi tristi di Adriano Panatta – unico giocatore capace di battere (due volte!) Borg al Roland Garros, che lo svedese vinse 6 volte – l’intensità poetica di Guillermo Vilas, l’ego smisurato di Jimmy Connors, l’ascesa del fenomeno McEnroe. Ci sono i loro match più belli: la finale degli US Open 1975 Ashe vs. Connors, che segna «il ritorno della vecchia scuola e il trionfo della tattica e della visione di gioco sulla potenza fisica della nuova generazione». Flushing Meadows un anno dopo e il corso di una nuova epoca in cui invece i regolaristi, Borg e Connors, lo stacanovista silenzioso e il terribile egotista, si lasceranno alle spalle tutto il resto. La finale di Wimbledon 1976 Borg-Nastase:

Dieci anni prima, Björn aveva iniziato a palleggiare contro il muro di un garage, adesso aveva conquistato il titolo più importante. Il 3 luglio del 1976, l’incontro tra Volontà e Talento si concluse con il punteggio di 6-4, 6-2, 9-7 (p.165).

Prima ancora, la geopolitica sportiva di un biennio di Coppa Davis: dalla vittoria del Sudafrica nel 1974 per stoppare, a tavolino contro l’India, 37 anni di dominio australo-statunitense, all’incredibile progressione emozionale del 1975 e quella storica Insalatiera alzata dalla Svezia in un autunno ipnotico, fra le trame del Cile fascista di Pinochet, il Sudafrica razzista dell’apartheid e la Cecoslovacchia comunista di Husak: «Sport e politica erano ormai legati a doppio filo, e questo non era mai stato così evidente come nell’edizione del 1975 della Coppa Davis».

Le pagine più liriche di Game, Set, Match sono dedicate a quelle sfide tra Björn Borg e John McEnroe (1978/81) che per sempre hanno cambiato la storia del tennis, scandendola in momenti memorabili: la miccia di Stoccolma, i 4 match-point salvati da Borg a Richmond, la furia di McEnroe a New Orleans (“Va tutto bene, è una bellissima partita”, gli disse Björn sorridendo a rete), Milano e il rito dell’iniziazione con Broadway Vitas (Gerulaitis), le leggendarie finali di Wimbledon 1980 e 1981 e le fondate incertezze di Borg a Dallas fra una schiera di tennisti emergenti e nuove racchette. Se Borg e McEnroe erano due poli opposti che si attraevano, McEnroe e Connors facevano scintille appena scendevano in campo. Se Borg ha portato il gioco di resistenza da fondo campo ai suoi massimi livelli, ritirandosi a 25 anni, John McEnroe ha sublimato il tennis d’attacco nella sua più completa espressione.

Game, Set, Match non è solo tennis applicato alla letteratura nella penna di Ulf Roosvald (giornalista sportivo), ma anche un piacere colto prestato al tennis per mano di Mats Holm, psicologo, scrittore e autore televisivo. Dalla beffa di Jorge Luis Borges sulle ambizioni librarie di Guillermo Vilas (“Scrive più o meno come io gioco a tennis”) al primo incontro su un campo da tennis fra Woody Allen e Diane Keaton in Io e Annie; dalla favola di Pomperipossa in Monismanien di Astrid Lindren, (l’autrice di Pippi Calzelunghe) alla pièce di Ingmar Bergman, altro svedese “apolide”, sulla Danza macabra II di Strindberg.

Un libro intenso ed esatto, scritto in ordine aritmetico di divisione dei capitoli e numero di pagine, come quella fabbrica svedese di robot del tennis cui bastava avvitarci sopra delle testoline. Ovvero, «un grande bacino di talenti di ogni estrazione sociale e soprattutto una buona dose di idee fresche al posto del lupo solitario: il connubio perfetto tra il decennio che si era appena concluso e quello che stava per iniziare». Prendete quindi Borg e aggiungeteci Stefan Edberg e Mats Wilander: avrete 24 titoli dello slam vinti dalle corde più profonde di un tennis esistenziale, isterico e collettivo. E quando la Luna entrerà nella Settima Casa, il tennis regio delle Tre Kronor allineerà i pianeti sopra il cielo di Svezia.


Mats Holm, Ulf Roosvald, Game, Set, Match, add editore, Torino 2016, 384 pp. 16€