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#Mappe – Cosa ho visto a Idomeni

Idomeni , 14-18 Aprile 2016

Li vedi alla televisione, sui barconi. Li vedi in Stazione Centrale, sulle scale e nell’atrio. Li vedi sui blog degli amici, nelle tende o in alloggi di fortuna. Hai la sensazione di essere nel bel mezzo di un evento storico, ma di non riuscire a comprenderlo fino in fondo. La stampa è confusa e continua a parlare di “crisi” e di “emergenza” migratoria. Ma tu lo sai che non è cosi; che i migranti ci sono da sempre, ci saranno sempre e non fanno niente di male cercando opportunità di vita migliori in un posto diverso da casa. E quando a “casa” ci sono i bombardamenti, i rastrellamenti, le mine, quando una casa, di fatto, non c’è più, allora cercare un posto migliore non solo non è sbagliato, ma è un diritto, internazionalmente riconosciuto.

Ma la stampa è confusa e ti rendi conto che molte delle persone che hai intorno non riescono ad analizzare con lucidità – e umanità – tutta questa confusione.

Profondamente convinta che solo dalla consapevolezza e dalla diffusione di un diverso modo di pensare può aprirsi la via per la risoluzione della “crisi migratoria” (che, per dirla con parole diffuse tra gli esperti di questo fenomeno, è in realtà la crisi delle politiche migratorie dei paesi “di accoglienza”), ti unisci al progetto già avviato da alcune amiche, e inizi a fare sensibilizzazione nelle scuole, nelle biblioteche, nelle università, inizi a raccontare un altro lato della storia rispetto a quello della tv: inizi a parlare di persone, di umanità, di singole esistenze che meritano tanto quanto le altre il rispetto del diritto a una vita sicura e serena.

Senti però che ti manca qualcosa: andare a vedere di persona cosa succede, andare a incontrare direttamente coloro che viaggiano e che l’assurdità nel nostro sistema legislativo trasforma a volte in eroi e a volte in vittime. Come il lancio di un dado, puoi ritrovarti ad essere uno delle centinaia di forti e coraggiosi che hanno attraversato a piedi i Balcani e sono arrivati nella tanto agognata Germania, una delle migliaia di sfortunate vittime capitate su un barcone troppo pieno e finite sul fondo del Mediterraneo, o ancora uno dei tantissimi bloccato in qualche campo di confine, intrappolato tra il filo spinato davanti a te, e mesi di viaggio alle tue spalle.

È in uno di questi posti che sono andata, insieme al mio compagno, ritagliando quattro giorni e 200€ dalla nostra frenetica vita milanese a metà aprile. È cosi che siamo finiti a Idomeni, un groviglio di tende e fuochi da campo intorno alla ferrovia in disuso al confine tra Grecia e Macedonia.

Del campo profughi più grande di Europa, la prima cosa che ti colpisce è quanto sia dannatamente facile da raggiungere. Sembra un sadico gioco: per andare e tornare in questo posto dove undicimila persone sono costrette a stare senza potersi muoversi, noi cittadini della fortezza Europa ci impieghiamo, da Milano, un paio d’ore di volo low cost e 45 minuti di macchina a noleggio per 11€ al giorno. L’annoiato sguardo della hostess di terra al mio passaporto e il suo sorriso stampato mi sono sembrati l’espressione emblematica dell’assurdità che andavo a vedere.

Idomeni, con gli altri tanti campi profughi che oggi esistono in Europa, insieme ai naufragi del Mediterraneo e alle marce forzate nei Balcani, altro non è che il risultato dell’attuale legislazione europea di (non) accoglienza nei confronti dei profughi di guerra. Le assurdità e le contraddizioni del sistema sono tante: alcune fanno parte del sistema Europa da molti anni, come la legge sul diritto di asilo che prevede la possibilità di richiedere l’asilo politico in un Paese europeo solo una volta fisicamente presenti sul territorio del Paese, e il Regolamento di Dublino che prevede l’obbligo di richiedere l’asilo nel primo Stato europeo in cui si arriva. Non serve essere laureati in diritto internazionale per comprendere che questa contraddizione in termini provoca il collasso dei sistemi di richiesta asilo dei Paesi “di frontiera” dell’Europa (in questo caso Grecia e Italia) e l’istituzione di una rete illegale di traffico umano, dedicata al trasferimento di intere famiglie di profughi, di nascosto, attraverso il nostro continente, per arrivare nel Paese che vogliono raggiungere (solitamente Svezia o Germania) senza essere intercettati prima dalla polizia.

E poi ci sono le contraddizioni “nuove”, scatenatesi con l’“emergenza migranti” a partire dal 2013: quei muri di filo spinato eretti da alcuni governi europei che, da un giorno all’altro, chiudono una rotta e segnano confini che per legge dovrebbero essere inesistenti; le violazioni del diritto umanitario internazionale che prevede l’obbligo di salvataggio delle vittime di naufragi, con la pratica dei respingimenti e l’ignorare i segnali di allarme da parte di alcune navi militari; fino al recente accordo con la Turchia di questo marzo, che prevede il rientro, in un Paese Terzo Sicuro, dei profughi arrivati in Europa, in cambio di altri profughi che verrebbero ricollocati nei vari Stati europei con voli di Stato. Assurdo perché la Turchia non è un Paese Terzo Sicuro, e al momento, di fatto, non vi sono stati ricollocamenti.


Eccoci in Grecia. L’autostrada corre veloce: tutto è così normale, così familiare, così… europeo. Il paesaggio è piacevole, il cielo azzurro, le chiacchiere si fanno distese. E poi, tutt’a un tratto, inaspettatamente, eccoti catapultata in una dimensione altra, in qualcosa di sorprendente e diverso… non è ancora Idomeni, ma quasi ci siamo. È la sua sorella minore, Eko: una stazione di servizio sull’autostrada diventata la distesa fitta e compatta delle tende di coloro che preferiscono l’asfalto al fango. E l’autogrill che si sta arricchendo grazie alle migliaia di profughi che hanno deciso di soggiornare sotto le sue tettoie, e non mancano di comprare qualche pizzetta ogni tanto.

Guardi dalla macchina e vai oltre, incrociando lo sguardo sorridente di un paio di bambini che salutano le auto dal ciglio della carreggiata.
Ancora un po’ di strada, cartelli che indicano la distanza da Skopjie e avvertono di preparare i documenti per la dogana macedone. Poco prima della frontiera, prendi una deviazione sulla sinistra.
Capisci che stai arrivando al campo dall’intensificarsi dei pedoni che camminano sul ciglio della strada e dalla comparsa dei primi posti di blocco. A volte la polizia greca ferma le macchine dei volontari e le perquisisce cercando articoli che potrebbero presumibilmente essere usati per fomentare proteste e rivolte nel campo.
Spesso però passi senza problemi, parcheggi la macchina e, senza che nessuno ti chieda chi sei, cosa fai, cosa vuoi… sei dentro.

Percorri la strada asfaltata ai cui lati ci sono le prime tende. I bambini ti salutano con un my friend e una stretta di mano. Alcuni vogliono toccarti, vogliono essere presi in braccio, ti seguono per un po’ e poi spariscono in mezzo alle tende, chissà dove. Sulla strada asfaltata incroci parecchi “internazionali” che passeggiano o che sono indaffarati in qualche attività, alcuni con le pettorine delle ONG, altri con le telecamere, altri ancora senza nulla, come te. Curiosi indipendenti che vogliono capire meglio che succede.

La grandezza del campo è impressionante, ma non è vero che è illimitato: ha una fine, anzi un confine. Quello macedone, e lo vedi subito: è un confine vero e concreto, che a noi della Generazione Schengen stona un po’, abituati come siamo a girare l’Europa in Interrail.
Ma pare che dovremo farci l’abitudine: è fatto di due reti di filo spinato con spuntoni sulla cima. E un carrarmato che va avanti e indietro, nel mezzo.

La distesa di tende ti colpisce con colori e odori: colori sbiaditi dei teloni e delle scritte con le bombolette spray, e puzza acre di bruciato, plastica o polistirolo. Verso sera l’aria diventa insopportabile e senti i bimbi tossire; una mamma spazientita ti dice che si stanno ammalando tutti.
E come potrebbe essere diversamente, in un posto dove si è in balia del tempo atmosferico e l’escursione termica è massima? Si suda di giorno e si gela di notte. Se piove, tutto diventa fango, le tende affondano e i vestiti non asciugano. E il vento. C’è un vento particolare che soffia qui, che quando arriva di notte ti sveglia, piegando i pali e facendo sbattere i teloni.
Se c’è bel tempo, invece, il paesaggio è bellissimo: i prati di un verde intenso, una bella vegetazione e montagne innevate sullo sfondo. Montagne di Macedonia. Cosi vicine, eppure…

Idomeni è un borgo di un centinaio di case in mezzo alla campagna, il cui fulcro della vita sociale era probabilmente il barettino della stazione. Come tutto, anche questo adesso è regno dei migranti: ci vanno a prendersi un toast e un caffè e a ricaricare i cellulari. Probabilmente Idomeni sarà l’unico angolo della Grecia a non chiudere in recessione quest’anno.

Ormai il campo esiste da qualche mese, e pian piano tutti si stabilizzano. Racimolano una tenda in più da usare come magazzino e qualche coperta come materasso. Gli affari, legali e non, corrono: sono già arrivate le sigarette di contrabbando e i pomodori. Nascono i primi baracchini di cibo da asporto e di parrucchieri. Nadia, insieme al marito, prepara meravigliosi falafel a ridosso dei binari. Così riescono a comprare cibo buono per le loro figlie, tre bellissime sorelle di 17, 14 e 10 anni. Sono riusciti a guadagnarsi uno degli ambitissimi posti nei tendoni di Médecins Sans Frontières grazie all’ultima arrivata… una piccina di 2 mesi, nata a Izmir, in Turchia, pochi giorni prima che la famiglia al completo si imbarcasse per Kios, l’isola greca più vicina. È bella e sana, mi dice fiera, andrà tutto bene… Insha Allah.

Poco più in là Hussein, curdo siriano con la passione della musica metal, aiuta insieme alla moglie Aicha i volontari italiani di Hope for Children facendo traduzioni e segnalando loro le famiglie più bisognose dei beni che hanno portato col furgone. Insieme hanno costruito un posto da barbiere vicino alle docce, dove Hussein continua a esercitare la sua professione per 2€ a taglio, con la figlia Evanescence sempre intorno.

Anche le infrastrutture corrono: oltre al grande ospedale da campo, ogni giorno nascono nuove costruzioni in legno o in metallo ad opera delle ONG o delle associazioni che costruiscono punti Wi-fi, docce, spazi per le donne e per i bambini, “hammam” per lavarsi, magazzini per la distribuzione dei beni. C’è un cultural center, una grande e inspiegabilmente sempre pulita tenda verde che funge da scuola per i bambini la mattina, scuola di inglese per gli adulti il pomeriggio e da centro culturale la sera. C’è un team di professori molto variegato e composito di profughi e volontari, ognuno con la sua personalissima storia: come Ahmed, maestro di inglese in Siria e di nuovo maestro e traduttore ufficiale qui, indispensabile per i volontari europei. Quando gli esprimi ammirazione per quello che fa, ti risponde solamente, con una dignità che non riesci a capire come abbia conservato all’interno del campo, “is my duty”.

I bambini. I bambini sono migliaia a Idomeni, di tutte le età, in una percentuale che sorprende chi viene dal Paese più vecchio d’Europa. E ne arriveranno ancora, presto: le associazioni stimano la presenza di circa 600 donne incinte nel campo. Alcune, dopo aver affrontato il viaggio col pancione, hanno già partorito nelle tende. Come Amina, dignitosissima e simpaticissima 24enne di Kobane, che ha attraversato il confine turco-siriano camminando per due giorni tra le montagne, senza aver potuto portare in braccio la sua prima figlia di due anni e mezzo, a causa della gravidanza di 6 mesi. Per fortuna, Dlava è forte e ce l’ha fatta, cosi come le sue sorelline, Sclava di un anno e otto mesi e la piccola Rhudine, nata il 1o aprile in una tenda azzurra sulla ferrovia a 30 metri dal confine.
Come tante altre donne qui, Amina non esce molto dalla tenda. Il marito è sempre impegnato a lavorare e lei deve badare a tre bimbe piccole. La separazione di genere purtroppo è marcata e visibile a Idomeni, con gli uomini che affollano gli spazi pubblici di ricarica cellulari e i punti Wi-fi, mentre le donne che rimangono perlopiù all’interno e si fanno una passeggiata alla sera, quando i bambini dormono.

Quando è alto, nel cielo sopra Idomeni, il sole brucia le guance dei bambini e provoca affollamento alle fontanelle che erogano acqua. Alcuni volontari previdenti distribuiscono creme protettive e doposole. I più scottati, in realtà, sono loro. Biondi, rossi, chiari, lentigginosi. Col coppino arrossato e la fronte sudata. Ce ne sono da tutta Europa, come ti aspettavi, ma è una bella sorpresa scoprire che ne arrivano anche da USA, Kuwait, Bahrein, Yemen… uomini barbuti e donne velate con le pettorine. Che bella immagine sono, in questo periodo di fondamentalismi; costruiscono moschee da campo e ti chiedi come mai nessuno parla di loro.
Alcuni dormono in paese, altri scelgono di condividere coi profughi anche la notte. Stanno nelle stesse tende, fanno la stessa fila per il tè caldo, si siedono con le famiglie sulle coperte.

Ma nella babele di Idomeni non tutti sono uguali: c è chi è qui per scelta e chi è qui per obbligo. Chi è arrivato con un volo low cost in un paio d’ore e chi ci ha messo mesi tra bus, gommone e piedi. C è chi dà il massimo sapendo che presto se ne andrà, e chi non sa quanto dovrà rimanere.

Anche tra gli abitanti stanziali del campo, balzano all’occhio delle differenze. La nazionalità, prima di tutto: la maggior parte è siriana, ma poi ci sono iracheni, afghani, iraniani. Tantissimi curdi, della regione del Rojava – una vita di resistenza tra le montagne per il proprio popolo – e altrettanti palestinesi, spesso già profughi in Siria dopo essere stati cacciati dalla propria terra.
Sono anche di diversa estrazione sociale e livello di istruzione. Probabilmente gli unici che mancano sono “gli straricchi”, le classi molto agiate. Avere una buona base economica di solito è la garanzia per non rimanere intrappolato nelle maglie della burocrazia europea; legalmente o illegalmente, in qualche modo con tanti soldi si arriva a destinazione.

Ci sono moltissimi giovani, però, appartenenti a una classe media, e con un alto livello di istruzione. Parlano inglese, hanno studiato, hanno magari già viaggiato prima d’ora. Molti di loro soffrono nella monotona quotidianità della vita da campo, fatta di giorni tutti uguali in attesa di qualche novità: l’inoccupazione e l’inattività, insieme alle esperienze traumatiche vissute nel proprio Paese e nel viaggio, sono alla base dell’alto livello di tensione che spesso si respira, quando non sfociano in un vero e proprio malessere psichico, per adulti e bambini.

Spinti dal bisogno di tutelarsi da questa monotonia, o semplicemente dal senso civico e dalla voglia di impegnarsi per migliorare le condizioni proprie e della propria gente, molti giovani istruiti prendono iniziative o collaborano con i volontari. Come Kadija, ventitré anni e lunghi capelli neri; aiuta come traduttrice nell’animazione ai bambini. Quando le chiedo dove ha imparato così bene l’inglese mi dice all’università, ad Aleppo. Era al secondo anno di giurisprudenza quando le bombe sono arrivate troppo vicine a casa, ed è partita con tutta la famiglia. O Ali, infermiere in un ospedale di Damasco. Parla inglese perfettamente ed è indispensabile per far rispettare la fila alla SolidariTEA, la tenda che distribuisce tè caldo per tutti, tutti i giorni, dalle 7 a mezzanotte. Ha anche stretto una sincera e profonda amicizia con i volontari tedeschi che la gestiscono, e con gli italiani di Over the Fortress che abitano la Info Tend lì di fianco.

Fumano sempre una sigaretta insieme, dopo che i giovani spettatori del “cinema” – un proiettore regalato e un telo bianco in mezzo al campo, che ogni sera raduna decine di bambini con un cartone Disney e adolescenti amanti di orribili film bollywoodiani – sono andati a dormire e il generatore si spegne. Finalmente un po’ di relax, alla fine di una giornata passata a costruire mobili, stampare notizie, aiutare una famiglia ad accedere alla procedura di relocation via Skype o visitarne un’altra che ti ha invitato nella propria tenda a condividere un chai o un pasto.
Non serve che parlino inglese per riuscire a farti capire che hanno piacere a darti qualcosa, che non sono lì solo per ricevere, che tenacemente resistono e proteggono una profonda umanità e uno spontaneo senso dell’accoglienza e della condivisione, loro che noi lasciamo fuori col filo spinato.

Alcune tende sono montate a non più di 30 metri dal confine, per essere pronti a correre, caso mai l’aprissero. Già… perché tutto questo esiste, e continua a esistere, perché il confine è chiuso… Ma chi è qui continua a sperare e a chiedere, insistentemente, please, open the border.

E noi? Noi non possiamo far altro che apprendere da questa tenacia e resistenza, e dopo quattro giorni tornare a casa, e continuare, con più entusiasmo di prima, la nostra minuscola ma quotidiana opera di sensibilizzazione e informazione. Ogni amico che ci chiede informazioni e pareri, ogni ragazzo del liceo che ci guarda corrucciato quando inizia a capire, ogni associazione o singolo che ci contatta per chiederci a chi, tra quelli che abbiamo conosciuto, consigliamo di fare una donazione è un’iniezione di entusiasmo e di incoraggiamento per continuare a sostenere la loro battaglia, che diventa anche battaglia nostra dal momento che, in fondo, ha gli stessi, ampi obiettivi: quelli di un’Europa accogliente e civile, senza più muri né campi profughi, quelli di un mondo giusto, garantista e rispettoso dei diritti di tutti, a prescindere dalle 36 pagine del loro passaporto.


Siriani in Transito è il principale progetto della nascente associazione Nur – A Spotlight on Migrant Voices, costituitasi a Milano nel dicembre 2015.

Il progetto persegue gli obiettivi dell’informazione e della sensibilizzazione attraverso l’esposizione di una mostra fotografico-narrativa che racconta il transito dei Siriani attraverso la Rotta Mediterranea, l’organizzazione di serate di presentazione e discussione aperte alla popolazione e interventi laboratoriali nelle scuole superiori di primo e secondo grado.

Dal 17 maggio al 5 giugno la mostra è esposta presso la Sala degli Olivetani, nel consiglio di zona 7, in via Anselmo da Baggio 55 Milano.

Ci sarà una presentazione domenica 22 maggio nel pomeriggio, all’interno della ricchissima giornata di eventi A maggio a Baggio.