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Bertante e gli anni Ottanta, alla ricerca dell’autentico

«Ogni generazione di giovani […] si trova davanti a problemi nuovi, diversi da quelli delle generazioni precedenti, e deve risolverli da sé».
Italo Calvino


Alessandro Bertante ha un conto aperto con la Storia. Anzi, si potrebbe dire che ha un conto aperto con gli anni Ottanta; ma non tanto con quel decennio in quanto tale; piuttosto con tutto ciò che lo ha preceduto e con la percezione che di quegli anni la narrazione nazionale ha prodotto. Per questo, prima ancora di parlare di trama, piani narrativi o aspetti formali, si dovrà dire che Gli ultimi ragazzi del secolo (Giunti 2016), quinto romanzo dell’autore, sembra scritto per chiudere definitivamente questo conto.

Il romanzo, infatti, come si dirà, non s’inserisce tanto in continuità con le narrazioni precedenti – da Al Diavul (2008) a Estate crudele (2013), passando per Nina dei lupi (2011) e La magnifica orda (2012) – quanto con due testi brevi ma densi, e soprattutto significativi della posizione assunta da Bertante sulla questione politica degli anni Ottanta: Komakino, il primo dei racconti generazionali della raccolta Festa del Perdono: cronache dai decenni inutili (Bompiani 2014), e Contro il ’68: la generazione infinita (2007), un pamphlet di aperta denuncia alla generazione della rivoluzione culturale.

Gli ultimi ragazzi del secolo si costruisce su due piani narrativi, che si compongono progressivamente grazie a una precisa alternanza di capitoli. Da una parte c’è l’asse milanese, il racconto autobiografico dell’infanzia e della giovinezza di Bertante, gli anni Ottanta trascorsi tra giochi per le strade di QT8 – la scuola, la vita di banda, i furti all’oratorio –, viaggi epici al Leoncavallo, tra droghe sintetiche e nuove scoperte musicali, e le prime esperienze di vita adulta in via Festa del Perdono, alla Statale. Dall’altra parte c’è l’asse iugoslavo, il racconto di un improvvisato viaggio a Sarajevo, a 27 anni, durante una vacanza sulle coste croate. Da una parte «Milano Metropoli degli anni Ottanta», come viene chiamata per tutto il romanzo, simbolo di un’epoca che nessuno vuole più ricordare, prologo alla fine di una Storia, quella del Novecento, che in Italia hai il suo termine nell’oggi celebrato 1992; dall’altra Sarajevo, città-fantasma, simbolo a sua volta del cammino inarrestabile di un’altra Storia che, mentre il mondo sembra proiettarsi in un futuro nuovo e diverso, mostra di sapersi presentare ancora sotto le vecchie spoglie: l’odio, la distruzione, la guerra, la povertà. Milano e Sarajevo sono due facce di una stessa medaglia che il tempo sembra aver disintegrato, ma che l’esperienza individuale, quella di Bertante appunto, prova a ricomporre.

Gli ultimi ragazzi del secolo è di fatto un romanzo di formazione, dove tuttavia la sorpresa, la delusione, la speranza e tutti gli altri sentimenti che accompagnano le scoperte dell’adolescenza sono continuamente depotenziate dallo sguardo retrospettivo di chi racconta, il Bertante di oggi, quarantasettenne disilluso e orgoglioso, che non tarda a rivelare il proprio esercizio di rievocazione. La sua posizione è chiara fin da quando, in apertura, il narratore non dichiara di volersi affidare agli oggetti per ripensare agli anni della propria infanzia, per evitare il rischio di idealizzare il passato, come sempre succede quando, ricostruendola da adulto, «ogni gioventù diventa unica e ogni epoca impareggiabile». Un altro, tuttavia, sembra l’intento che spinge Bertante ad affidarsi agli oggetti, ineguagliati veicoli d’immaginario, vettori, come insegnano Pierre Bourdieu e Edgar Morin, dello «spirito del tempo» e quindi alleati perfetti per chi voglia – come Bertante – ricostruire una mappa della memoria collettiva per segnare la propria presenza all’interno di quella storia.

È un continuo e ricorsivo bisogno di esserci, quello che marca la scrittura degli Ultimi ragazzi del secolo. Lo stile duro, assertivo, a tratti anche legnoso, rivela questa urgenza – umana molto più che letteraria – di dire e di spiegare, di riscrivere una storia per ricordare di esserci stati, di ricostruire un quadro per mostrare le ragioni del proprio esserci e quelle del proprio aver agito. Eccoli, allora, gli oggetti che prendono piede e si dispongono sulla scena di una Milano attraversata dai venti di una controrivoluzione culturale, quella degli yuppies e delle televisioni commerciali, di Drive in  e dell’apoteosi di Bettino Craxi. Un ritratto ormai noto, questo degli anni Ottanta (suggellato peraltro dal recente libro di Paolo Morando), che tuttavia, sotto la superficie patinata e transgenica, nasconde il cuore marcio di quel decennio: la piaga dell’eroina – già raccontata da Nicola Lagioia in Riportando tutto a casa, decisamente un ottimo romanzo sugli anni Ottanta (costruito peraltro con un impianto narrativo non molto diverso da questo) – e quella dell’AIDS sono chiavi d’accesso e stigma, al tempo stesso, di un mondo suburbano in cui Bertante sembra trovarsi più a suo agio. Un mondo che si esprime attraverso passioni fasulle, lunghe il tempo di una canzone (meglio se inglese, visto che quelle nostrane sono sempre piaciute poco), ma che nascondono tutto il dolore di una generazione rimasta ai margini e dimenticata. Ed è qui che batte il dente, in continuazione. Bertante riprende proprio le argomentazioni del pamphlet sul Sessantotto per infilzare la generazione dei padri, di quegli studenti contestatori che al «richiamo della classe sociale di appartenenza» hanno detto presente, ristabilendo le gerarchie di un mondo dove gli ultimi sono destinati a rimanere ultimi. Niente di nuovo: lo stesso Fortini l’aveva previsto, proprio nel 1968, quando aveva detto che ad aspettare gli studenti «dopo la cena di laurea» ci sarebbe stata «la vera controparte, quella capitalistica, l’industria, la finanza, i sindacati», e lì si sarebbe misurata la vera portata della rivoluzione culturale.

Ma quello di Bertante non è certo un racconto teso a misurare pregi e difetti di un passaggio storico-culturale decisivo (non foss’altro per la trasformazione dei costumi e per le conquiste nel mondo universitario), rispetto al quale la generazione dei figli cerca la propria emancipazione. La sua è piuttosto una narrazione consolatoria e autoassolutoria, che dice di una classe di giovani che cercava un nemico da combattere e non l’ha trovato, perché i padri hanno camuffato il conflitto da amicizia fraterna e hanno trasformato lo scontro generazionale in una «festa dai mille colori» a cui «noi adolescenti, ripeto innocenti fino a prova contraria, fummo da subito destinati a partecipare». Una generazione tradita, presa in giro e poi schiantata contro i muri in frantumi della fine del secolo, una generazione defraudata del proprio futuro e costretta a patire l’illusione di un benessere che non le apparteneva: questa sarebbe la generazione di Bertante, la generazione degli «ultimi ragazzi del secolo».

La retorica dell’unicità, tuttavia, del tradimento “storico” eccezionale, mostra le sue falle proprio quando cerca di individuare i traumi della propria storia: la mappa ricomposta da Bertante, ricca di motivi e di oggetti che fanno rivivere in parte l’atmosfera di quegli anni ricostruendone l’immaginario, è priva di “eventi” che giustifichino veramente il racconto di quel sabba nichilista e dionisiaco che fu l’accesso all’età adulta della sua generazione – ben simboleggiato dall’epilogo orgiastico dei giorni della Pantera. Generazione senza trauma e senza Storia, quella di Bertante, costretto a cercare altrove l’ispirazione per costruire la propria identità. E altrove significa cercare nelle metropoli straniere – Londra, Berlino – le tracce di una controcultura nichilista, che trasformi anche Milano in città degna di un’orgogliosa epica nera; ma altrove significa soprattutto guardare a Oriente, ai luoghi in cui la Storia ha continuato a mostrarsi in un conflitto durissimo tra vittime e carnefici. Ecco qual è la funzione della parte iugoslava degli Ultimi ragazzi del secolo.

All’inizio del romanzo c’è una scena molto significativa. Alessandro e il suo amico Davide sono arrivati a Mostar, città dei ponti e delle rovine, simbolo di un secolare incontro tra le culture che la modernità ha reso impossibile. La città è presidiata dai soldati dell’IFOR, le forze di pace internazionali della NATO. A un certo punto, da una comitiva di giovani locali schiamazzanti, un ragazzo si stacca, comincia a correre lungo il ponte di ferro ricostruito dai militari e si tuffa nella Neretva, bellissimo nell’eleganza del gesto atletico. Nemanja – così si chiama il ragazzo – si inabissa nelle acque scure del fiume e per alcuni istanti nulla si muove: gli amici, i soldati, Alessandro e Davide sono immobili e attendono qualcosa, attanagliati dalla paura che quel tuffo sia stato fatale. «Poi succede»: Nemanja riemerge, alza il pugno in trionfo, rivolgendosi agli amici esultanti; anche i soldati applaudono. È un momento liberatorio, per tutti. «Noi, insieme a loro, gridiamo come da anni non mi capitava, gridiamo la gioia di Nemanja, il suo coraggio e la sua gioventù». Eccolo, il transfer; il riconoscimento nell’identità di qualcun altro, la ricerca di un trauma da rielaborare per sentirsi finalmente vivi e felici – «come da anni non mi capitava».

Le pagine dedicate alla Bosnia – a Mostar e a Sarajevo, al racconto dei palazzi distrutti e del coprifuoco notturno, della gente che di giorno ricomincia a vivere normalmente e dei silenzi che rimbombano dalle valli, facendo risuonare l’eco di violenze ancora troppo vicine – sono già racchiuse in questo passaggio. Non conta la trama, non contano gli incontri, le avventure sessuali; quello che conta qui, sono i momenti di riflessione. La vista di luoghi e paesaggi noti solo grazie alla televisione, associata alla conoscenza della loro storia, produce un racconto che in parte risulta forzato, teso com’è in una volontaristica ricerca di riconoscimento e di compartecipazione, in parte però è più esposto agli imprevisti della contemplazione. Lontano dal proprio universo simbolico, il narratore Bertante perde la sicurezza e l’aggressività che contraddistinguono il suo racconto milanese e sintonizza la voce su un sorprendente tono elegiaco, buono per intonare un canto dolente al popolo slavo tradito – questo sì! – e sconfitto, ma utile anche per interrogare le proprie sensazioni e per considerare la propria posizione.

È qui che Bertante abbandona il pulpito della concione generazionale e si trova obbligato a riconoscere la propria condizione di privilegiato. Una condizione condivisa, peraltro, con quella comunità nazionale denigrata in apertura di romanzo – in una breve divagazione sull’orgoglio antinazionalista – e ritrovata in chiusura, quando fuggendo dalla Bosnia l’io narrante non può far altro che ammettere che «è ingiusto fingere un’empatia che può essere solo compassione». Il passaggio è decisivo. Comprendere le ragioni della propria finzione è il primo passo per ritrovare un’autenticità ricercata vanamente nella rievocazione di una giovinezza bruciata dalla disillusione e dall’arrabbiatura, consumata in un invidioso isolamento e in orgogliose pretese vittimistiche. Andare dove brucia ancora il fuoco della Storia non serve a capire meglio l’inferno dei Balcani – peraltro sempre sull’orlo di essere fraintesi, con quel richiamo al loro fascino ancestrale perfettamente complementare all’insopportabile “tribalismo balcanico” delle ricostruzioni massmediatiche –, ma serve a  sbarazzarsi delle eredità – presunte o desiderate – e «della stanchezza di sentirsi generazione mancata». Questo ondivago viaggio nella memoria sembra allora aver seminato i germi di una laicissima conversione: fare i conti con i propri errori, dopo aver tanto condannato quelli dei padri, diventa un passo imprescindibile, per questa nuova generazione di padri, per comprendere il proprio ruolo nel mondo, ora che la Storia chiede di esserne all’altezza.


 

Alessandro Bertante, Gli ultimi ragazzi del secolo, Giunti, Milano 2016, 224 pp. 16€