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Al muro – #Belleville

Prosegue la pubblicazione dei racconti che hanno vinto il concorso letterario #Laventicinquesimaora, indetto dalla Scuola di scrittura Belleville e nella cui giuria era presente anche la redazione della Balena Bianca. Il racconto di oggi, di Alessandro Mauri, si è aggiudicato ex aequo il terzo posto. Al muro è la storia di un disagio curato con la forza della fede e dell’abitudine; è la storia di chi, abituato a dare le spalle agli altri perché dagli altri rifiutato, impara a trarre vantaggio da questo essere ai margini, perché impara a guardare oltre a quel muro che era il suo stigma. Al muro è la storia di una formazione rigorosa e intransigente, pronta a incontrarsi – o a scontrarsi – con l’intransigenza degli altri, anche loro ai  margini, anche loro esclusi. Alessandro Mauri riesce a condensare in poche battute una vita intera, con i dolori, i ripensamenti e le vendette; lasciando tuttavia a chi legge il privilegio di pensare che una pistola, alla fine, non debba necessariamente sparare.


 

Al muro

La pistola è a terra davanti a lui.
Roman sapeva di essere brutto e ne soffriva. Gli altri bambini in mensa lo facevano girare di spalle. Parlavano fra di loro. Lui parlava col muro. Il muro di una scuola elementare in generale ascolta ma ha poco da dire. Per Roman quel poco si rivelò sufficiente. Lesse e rilesse la frase attaccata sulla parete, all’altezza dei suoi occhi: Proprietà dello Stato. La lesse sillabando per tutti i pranzi del primo anno: pro-pri, eccetera. E per tutti quelli dell’anno successivo la lesse fluidamente a mezza voce, proprietà eccetera. Nell’anno ancora seguente la ripeteva a memoria muovendo le labbra, tra un boccone e l’altro, lanciandoci un’occhiata distratta: Proprietà – stufato di montone – dello – sorso d’acqua – eccetera. Alla fine capì il consiglio, e lo seguì. In fondo il muro non se la cavava poi male, con lo Stato.
Purché avesse una vita regolare, si comportasse con deferenza verso i superiori e facesse quello che gli veniva chiesto, per lo Stato Roman era un cittadino come tutti gli altri. Anzi: migliore di altri, visto che rispettava le regole con quel tipo speciale di abnegazione che nasce dalla desolazione. A Roman non sarebbe mancata la fantasia per disubbidire. Ma si trasgredisce per qualcuno. E per chi avrebbe dovuto farlo lui? Non certo per lo Stato, che alle regole che fissava si atteneva con puntiglio. E, oltre allo Stato, non c’era proprio nessuno.
Divennero inesorabilmente ottimi amici, Roman e lo Stato. Fedeli. Inseparabili. Esclusivi.
Erano una piccola bolla isolata. Per il sedicesimo compleanno di Roman, insieme a un passaporto, lo Stato gli regalò un suggerimento: “Con un passamontagna nero in testa sarai come tutti gli altri, né più né meno. E se non lo toglierai mai, l’unico a conoscere il tuo vero volto sarò io”. Roman accettò coi lucciconi che si staccavano dalle ciglia. Divennero così complici, lui e lo Stato. Condividevano un segreto. Il segreto di quanto fosse brutto Roman. Di quanto fosse brutto vivere da brutti. Di quanto fortemente avesse voluto essere come gli altri. In quel passamontagna c’era il suo primo rapporto intimo con qualcuno. A parte il muro, cioè.
Roman continuava a far le cose che gli chiedeva lo Stato. Tutte. Senza troppi pensieri. Quelle al confine. Quelle oltre il confine. Quelle negli appartamenti e negli scantinati e nelle soffitte senza finestre. Fu così che incontrò quegli altri. Notò presto che anche loro avevano il passamontagna.
– Chi ve l’ha dato?
– Dio.
Dio sarebbe stata la seconda scelta di Roman, se le cose con lo Stato non fossero andate per il verso giusto. Una seconda scelta perché evidentemente dio doveva avere qualcosa a che fare con la sua faccia. Come doveva aver qualcosa a che fare con le facce di quegli altri. Finì per chiedersi se anche quegli altri avessero vissuto come lui. Isolati. Allontanati. Contro un muro. Gli venne voglia di parlarne, e lo disse allo Stato. Che però non ne volle sapere e lo rimandò in missione.

La pistola è a terra davanti lui. Con le punte dei fucili gli fanno segno di girarsi faccia al muro. Una punizione. Una vergogna. Una vendetta.
Parlano, quegli altri, tra di loro. Roman ricorda. Ricorda bene. Pro-pri eccetera.
Allora parla anche lui. Al muro.
Quegli altri non sparano, e questo per Roman è un buon segno.
Io ero di quelli che guardavano il muro.
Stanno capendo. Devono aver capito. Siamo uguali.
Silenzio.
Forse manca una prova. Un gesto di intimità. Un tradimento.
Si trasgredisce sempre per qualcuno.
Si toglie il cappuccio.
Si gira, Roman. Sorride coi denti disastrati.
Ingenuamente brutto.


3° ex aequo – Sara Nissoli, Racconto