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Il crollo e il canto – per il XII Quaderno di Poesia

[Era il 1991 quando Franco Buffoni decise di dare inizio ai Quaderni Italiani di Poesia Contemporanea. In quel primo, affascinante numero comparvero Nicola Vitale (1956), Stefano Dal Bianco (1961), Antonio Riccardi (1962) e Maurizio Marotta (1963). Diverse generazioni di poeti hanno attraversato i ventiquattro anni che separano il primo e il dodicesimo quaderno; sarebbe pretestuoso riuscire a sintetizzare in poche parole i cambiamenti che hanno accompagnato e accompagnano tuttora la poesia italiana contemporanea. Di fronte a questo mare magnum mi venne in mente l’idea di fornire ai lettori dei quaderni uno strumento d’indagine che potesse avvicinarli dialetticamente alla poesia italiana. È nato così il progetto che fa oggi il suo debutto:  un dialogo tra critici e poeti dell’ultimo quaderno, preceduto da una nota introduttiva del poeta Tommaso Di Dio e chiuso da una riflessione di Franco Buffoni.A partire dal 21 settembre, e con cadenza settimanale, usciranno le sette conversazioni tra Maddalena Bergamin (1986) e Alessandro Giammei (1988); Maria Borio (1985) e Alberto Comparini (1988); Lorenzo Carlucci (1976) e Claudia Crocco (1987); Diego Conticello (1984) e Michel Cattaneo (1987); Marco Corsi (1985) e Daniele Visentini (1985); Alessandro De Santis (1976) e Fabrizio Miliucci (1985); Samir Galal Mohamed (1989) e Francesco Giusti (1984). Non voglio dilungarmi ulteriormente e lascio la parola a un altro poeta, che, come gli altri, non è altro che un lettore: questo è l’orizzonte d’attesa cui tende la nostra iniziativa, ossia provare a ricucire il legame tra il pubblico e la poesia. – Alberto Comparini]

Ogni pretesa di fornire un indirizzo decisivo al fiume di poesia in piena di questo nuovo millennio sembra destinato a scontrarsi con un centimano Briareo. Eppure mai come in questi tempi i tentativi di valorizzazione e di comprensione della poesia contemporanea sembrano necessari; non solo per comprendere una vitalità che, sebbene a tratti caotica e con alterni risultati, sembra aver proiettato nella poesia alcune modalità proprie, fino ad ora, solo del cosmo dei generi di massa; ma anche – soprattutto – per la grande fiducia che gli scrittori contemporanei dimostrano di avere nei confronti del medium della parola poetica. A discapito di un tempo che sembra completamente ignorarli e che addirittura sembra rendere ridicolo ogni ruolo sociale possibile per il poeta; a discapito di un mutamento nelle pratiche cognitive quotidiane che addirittura sembra elidere ogni potenzialità effettiva per la parola poetica e quasi per la parola tout court, questi scrittori mostrano uno slancio, una forza nella scrittura, un’energia, una fiducia che, se non ingenua, può apparire coraggiosamente folle.

I dati delle vendite sono – come al solito – esigui; eppure si assiste in questo periodo storico ad un significativo allargamento del numero degli scrittori e ad un confronto diretto fra loro che forse mai è avvenuto così vasto e variegato nella storia letteraria di questo paese. La poesia sembra aver trovato un proprio perfetto ambiente in un ecosistema parassitario del tardo capitalismo; ne sfrutta a pieno i vantaggi tecnici, per ritagliarsi un’area al di fuori, o meglio, al margine dei mercati. Laddove ovunque c’è la rincorsa al guadagno, all’accumulo del profitto, la poesia diventa sempre più un baluardo della dépense: un genere senza prezzo, costruito su traiettorie di intensità, circuitante libero attraverso la rete in formati digitali e fruito in contesti sociali, orali e comunitari molto più di quanto avvenisse in passato. Il libro c’è e non verrà meno, sicuramente, ed è ancora percepito come un momento portante della vita della poesia; ma è come un approdo di un tragitto che oggi per lo più avviene vistosamente altrove: il libro è completamente attraversato da altre pratiche e non basta a sé solo. Dove si vada a leggere e, ovviamente, a scegliere, i risultati sono spesso elevati: per capacità di composizione, per chiarezza delle scelte stilistiche e per varietà e intelligenza delle soluzioni perseguite. Ad alcuni pare che in questa stagione poetica manchi originalità; a me pare che invece sia finito il tempo in cui possa risuonare l’imperativo della originalità a tutti i costi. In netta controtendenza rispetto alla società, mai come in questo tempo c’è invece un iper-coscienza della relatività di ogni scelta stilistica: ogni autore è libero; e libero traccia una propria storia all’interno delle plurime possibilità offerte dal campo magnetico della letteratura, creando singolari chimere. Questo a me pare il tempo dell’eclettismo e dell’orizzontalità, non dell’unicità dello stile: non c’è (e non c’è più spazio perché vi sia) una dittatura verticale del buon gusto critico, né (se mai è esistito) di alcun altro potere che prenda la parola e dica una volta per tutte cosa sia poesia e cosa no. C’è invece una continua partizione dello spazio poetico, una fluttuante piega che continuamente s’implica su di sé, agitandosi nel diorama sempre mutevole dei possibilia letterari.

Se questo è il campo, ciò non vuol dire che non vi sia criterio di scelta o possibilità di scelta; semplicemente ciò vuol dire che ogni scelta potrà trovare le proprie giustificazioni e trovare, se ne trova, chi ne partecipi. Ogni scelta esibirà i propri presupposti e i propri tragitti, finalmente svelati in quanto presupposti; e su di essi si potrà commisurare il valore letterario, al di là di ogni gusto personale. Oggi più che mai si assiste a ciò che chiamerei il “brulichio letterario”, alveare ronzante sul cadavere sempre vivo del corpo nutriente delle tradizioni, rigorosamente al plurale. Oggi davvero sentiamo da vicino il  sussurro organico, fluido, metamorfico della comunità letteraria nel suo fare e disfare i fili di un intreccio infinito. Insomma, il modello è biologico: non più il salto quantico, ma il lento progredire di differenza in differenza rispetto ai progenitori, fino a derive imperscrutabili e future. In questo contesto, sembra che solamente nella somma moltiplicata delle antologie possibili, nell’incrocio e nel confronto fra i vari indirizzi e fra le possibili idiosincrasie si possa davvero iniziare ad intuire cosa sia oggi la parola poetica, quanto possa, quanto significhi. Ma è tutto un lavoro da fare, da costruire, in un contro passato prossimo da cui, finalmente, ci sentiamo liberati: c’è la percezione dei padri, in questa nostra poesia, la loro interrogazione e forse anche la sofferenza e l’empatia, oserei dire una felice pietà verso gli eventi, le figure, i modi del passato; ma mai mi è dato riscontrare quella nevrosi della storia che ha tanto attanagliato gran parte della letteratura del ‘900.

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Di tutto questo caglio, i Quaderni di Marcos y Marcos sono un ottimo reperto. Se non altro proprio perché una storia da esibire ce l’hanno, eccome: ben 25 anni di storia; e anche chiarissimi presupposti, incarnati nelle pratiche testuali e culturali dei poeti che ne hanno costituito il criterio di scelta. Di certo, oggi, per comprendere cosa sia la poesia non basta aprire un libro soltanto e affidarsi alla scelta univoca di questo o quel tragitto; ma certamente questo mantiene un ruolo e un peso, proprio in quanto offre un argomento notevole a chi voglia comprendere la varietà, la ricchezza della poesia odierna nel percorso di questi ultimi anni.

La lettura delle raccolte dei sette poeti antologizzati in questo dodicesimo quaderno (Maddalena Bergamin, Maria Borio, Lorenzo Carlucci, Diego Conticello, Marco Corsi, Alessandro De Santis e Samir Galal Mohamed), coerentemente con la varietà del panorama complessivo, risulta imprendibile in una formula unitaria: davvero diversissime le posture che i linguaggi mettono in scena, diverse le ascendenze a cui si rifanno, gli obiettivi stilistici che perseguono. Eppure, mi pare, la diversità formale non nasconde una più profonda affinità sotterranea. Se dovessi forzosamente costringerla in un motto, selezionando una espressione fra le tante possibili, oserei questa dittologia: Il crollo e il canto. Tutti questi autori, infatti, sono egualmente intrisi da una nettissima coscienza della precarietà di ogni stato, della fragilità di ogni essere e di ogni nostro momento; eppure ciò non preclude il desiderio del canto, della felice gioia di fermare ogni cosa per un attimo dentro le «cornici d’argento» (Bergamin, p. 37) della poesia. Se infatti Bergamin scrive: «Vedo resistere nel mondo le cose\ e crollare» (ibidem), Maria Borio le fa eco, quasi in un controcanto armonico, scrivendo: «Siamo cose leggere\ che sillabano e vivono» (p. 87). Ancora più distante, con uno stile che più diverso non si può immaginare da queste due autrici e che spesso disgrega il verso per riversarlo in una magmatica prosa, Lorenzo Carlucci constata: «Tutte le forme sono rotte. Canto.» (p. 147). Questa fiducia nel canto, nell’accettazione musicale del disastro di ogni vivere quotidiano e di ogni forma possibile della tradizione, non è scontata ed è anzi uno dei tratti più caratteristici di questi testi (azzardo: forse di una parte consistente di questa generazione?). Questa fiducia si tramuta in vero è proprio slancio energetico negli intarsiati versi di Diego Conticello, il cui stile tanto deve all’espressionismo primonovecentesco, quando scrive: «Importa\ la striscia lasciata,\  ràdica vortice ignezione,\ la spinta volenterosa\ dell’aria\\ in cerca di uscita.» (p. 181); egli sembra  indicare la direzione di un superamento di una stagione di nichilismo linguistico, per affermare la decisa importanza della traccia del movimento, al di là del fallimento che ne possa conseguire, al di là dell’effetto che possa provocare. Cosa è allora quello che chiama «il frutto squisito della mente», quella «duramadre\ vista oltre la scorza» (p. 189)? Sembra rispondergli Marco Corsi, in alcuni versi tratti dalla sequenza significativamente intitolata das glück: «la felicità è saperti successivo» (p. 224). Essere successivo, essere testimone capace di rendere conto di una tradizione, ovvero di una pluralità, che in ogni ora s’invera e che non è solo letteraria, ma implica una continuità organica compresente in tutto il corpo vivente del mondo, di cui la poesia con il suo movimento nel tempo e nella sua intensità momentanea sarebbe il mimo per eccellenza: «all’umano consegue il naturale, l’animale\ fino all’esperienza della foglia\ in una programmata regressione.»

Questi poeti sono attenti a mostrarci i minimi movimenti di relazione, sincronici e diacronici, i minuscoli spostamenti millimetrici che gli esseri esercitano per continuare a stare in contatto gli uni con gli altri, in un’azione di scrittura che mira a confondere e distinguere umano e disumano, presenti e assenti, linguaggio e ciò che lo supera. Maddalena Bergamin, fra le «nostre\ viventi rampanti rincorse» (p. 27), rappresenta questa tensione relazionale con un raffinato e ironico teatro delle persone grammaticali, che esplicita in un componimento programmatico: «C’è una terza persona\ fra la terza e la seconda persona\ e un terzo elemento […] tra ciò che esiste e ciò che non c’è\ tra la nostra vita e la poesia» (p. 30); così come Maria Borio, nelle sue poesie sinuose e mobili come serpi o nuvole, ci suggerisce che ognuno di noi è abitato dagli altri, presenti nelle «voci che non sembrano vere» e che rendono noi e lei «molto più unica\ di una persona sola» (p. 77), plurali come «vite meravigliose, parti fossili al macero» (p. 96). Anche Alessandro De Santis, nei suoi ritratti di un’umanità marginale e fragile, nel crollo totale dei loro lineamenti e della loro dignità sociale, catturato ad un’ora precisa e in un luogo definito, se da un lato sembra prescindere dal problema del medium linguistico in favore di una rappresentazione diretta, non può non mostrare il legame fra osservatore e osservato, entrambi attori e coautori di questo mondo; ecco perché, ritratto nella sua spasmodica ricerca di contatto, «l’uomo senza braccia» di una sua poesia che «muove il mento\ come a voler dire qualcosa» è un immagine forte, riassuntiva della propria esperienza di scrittore: «un uomo – si sa – esige dei legami\ non ha motivo d’essere\ quell’albero potato,\ senza rami» (p. 257). Egli scrive: «l’aria intorno ha memoria\ di colpi a vuoto»; ma è solo questo movimento, oscillatorio, basculante fra gli esseri umani, mimato dall’andirivieni dei versi, il contenuto di verità a cui possiamo attingere: quella «forma creata che si oppone all’agonia» (p. 274). Tale tensione alla relazione, se orizzontale di De Santis, ritrova in Galal Mohamed lo slancio verticale di una riflessione sulla propria dinastia, ma un eguale e inesausto anelito alla capacità creatrice del canto e della parola: «Noi siamo il creatore. Siamo\ i nostri figli, obbligati, i soli: originiamo\ l’universo come fratello e sorella» (p. 292). La poesia di Galal Mohamed si dischiude anche alla traccia del desiderio carnale, in una gioiosa furia di avvicinamento fra i corpi («Dicesti che una bocca è come un’altra, poi\ i tuoi vandalici baci volgesti\ a deflorare le mie labbra corinzie», p. 293); però è la riflessione sulla propria origine identitaria un aspetto determinante della sua raccolta: «Io sono l’orfano\ figlio di un uomo annientatosi\ nel nome di un’altra identità». Con questo padre, intravisto «tra i corpi\ di oggi dilaniati dalla storia», il poeta non può non cercare un rapporto, un «dialogo»; esattamente quanto ricerca Marco Corsi, «nella nostra malmostosa insensatezza», nel piano dei millenni, quando sonda gli aspetti della ultracentenaria vongola «ming» (p. 236), oppure quando ritrova vicini a noi i resti di più di 2000 anni fa dell’uomo di Tollund (p. 223).

Sia storia personale o dell’uomo, sia storia organica o storia di una terra, l’interrogare le proprie radici e il riscoprirle presenti, pur nel crollo e nella precarietà di ogni aspetto, sembra essere davvero ciò che anima il canto di questi poeti, meravigliati da quanto «la distruzione delle cose» non annienti tutto; la lingua, mutando, rimane ed essi ancora ci dicono che si può attingere alla sua forza: «i nomi lì a rifulgere\ rifiutare di piegarsi\\ di nuovo a fare luce» (Conticello, p. 176). Questi poeti decidono esplicitamente di rimanere in un’acqua che «preme» e «tiene nelle tradizioni» (Corsi, p. 216), non per mancanza di forza espressiva o per deficienza di originalità; ma proprio perché soltanto aderendo al movimento relazionale con il passato  attraverso lo stile, è possibile cogliere il movimento metamorfico più grande e generale della natura. È certo, però, che in Lorenzo Carlucci il confronto con l’eredità assume tinte più radicali ed esplicite. Soltanto «rinunciando al proprio nome» (p. 164) saremo riconosciuti, soltanto regredendo dalla propria individualità in un «sacrificio alla morte» potremo giungere alla «negazione della morte» (p. 157), ovvero ricongiungerci all’anonima vita di ogni cosa. Il poeta, veicolo precario, può soltanto tramandarne il «segreto», richiuso nella vita sempre espropriata dei nomi. Egli sta solo con «in bocca le parole» del proprio «padre», come un uomo che tiene in bocca una pistola carica e pronta a sparare; e che sparerà: soltanto perché le parole, loro sì, vadano presto altrove.

Settembre 2015


Immagine di copertina: Testa di Medusa @Caravaggio