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Sul treno con Vassalli

Ho la (s)fortuna di aver avuto a che fare con Sebastiano Vassalli per una trentina d’anni. Di cui cinque da lettore e dieci da lavoratore (giornalista, factotum editoriale ecc.). Ma tutti e trenta da novarese, e piemontese. È difficile spiegare cos’ha rappresentato Sebastiano Vassalli per una città piccola e spesso bistrattata come Novara. Ed è quasi impossibile riassumere la sua opera e il suo operato intellettuale quasi cinquantennali nel solito ‘coccodrillo critico’ asettico e (non di rado) ipocrita che si può trovare su qualsiasi giornale.
Così ho scelto la terza via: un semplice racconto in cui descrivo il nostro primo incontro, del tutto casuale e libero da qualsiasi formalità deontologica, avvenuto quasi dieci anni fa. Che è stato di gran lunga il più piacevole e sorprendente, e che non ho mai dimenticato.
L’ho incontrato molte altre volte per lavoro ma (a parte il fatto che non mi riconosceva mai) si era sempre attenuto al suo personaggio burbero e ispido: francamente insopportabile, diciamolo.
Si sa che quando muoiono sono tutti buoni. Tranne Sebastiano Vassalli. E credo che la dura verità, l’asciuttezza priva di retorica (ovvero la sua cifra stilistica) siano il migliore omaggio che gli si possa fare, e che ho tentato di riversare in questo piccolo racconto che scrissi con tutta l’ingenuità, la sfrontatezza e la tenerezza dei vent’anni.
Adesso, forse, non riuscirei più.   

 

C’era un uomo, laggiù, seduto sulla panchina del binario uno. Spingo la porta del bar e lo vedo, lo riconosco. Un impermeabile olivastro lo protegge dal collo alle caviglie. Si guarda intorno con aria severa e assorta.
Curvo su se stesso, i gomiti appoggiati alle ginocchia, le mani incrociate. Sembrava isolato tra i presenti.
Decido di sedergli accanto. Lui si gira con aria stizzita. Apro lo zaino e prendo il mio libro, l’ultimo di Sebastiano Vassalli: La morte di Marx e altri racconti.
Inizio a far finta di leggere, sperando che si volti di nuovo a guardarmi, ma non accade.
Così decido di divertirmi un po’, forse so come prenderlo.
Gli rivolgo uno sguardo sbarazzino e dico: “Non le sembra la scena di un film?”.
Lui si gira di scatto, corrugato. ‘Adesso m’ammazza’, penso. Dopo avermi scrutato da capo a piedi chiedendosi chi mai fosse quell’impertinente, l’occhio gli cade sul libro, e di colpo scoppia in una sonora risata.
“Cià, dai qua”, dice.
Mi prende il volume, estrae una penna dal taschino interno all’impermeabile, apre la prima pagina, mi chiede il nome e la firma con il suo. Nessuno gliel’ha chiesto ma apprezzo il gesto.
Gli chiedo dov’è diretto. Sta andando a Ferrara e Bologna per una serie di conferenze. “Mi hanno dedicato dei convegni”, dice. Mi chiede se mi piace il libro. La prima metà istiga al suicidio, penso. “Molto carino”, rispondo. “Uno dei suoi migliori.”
Poi smettiamo entrambi di parlare e guardiamo il cielo. Da qualche parte, lassù, vibra una minaccia di pioggia. Penso a un modo di riaccendere il dialogo. Considerazioni sul meteo? Intervista improvvisata? Consigli a un giovane autore? Conscio del suo celebre caratteraccio, decido di andarmene e lasciarlo alle sue riflessioni.
Mi rimetto lo zaino, mi alzo. “Guardi”, dico. “Questa situazione mi sembra quella delle barzellette: vorrei dire mille cose ma non me ne viene in mente neanche una. Quindi, tolgo il disturbo. Arrivederci.”
Mentre volto le spalle, chiede: “E lei dov’è diretto?”.
Uh.
“A Milano, all’università”, rispondo un po’ sorpreso. “Ho una lezione.”
Decido di calare l’asso con un argomento prelibato.
“Lo sa chi vado a seguire?”, riprendo.
“Chi?”
“Turchetta.”
Contrae i lineamenti in una smorfia di disgusto puro. Come se avesse ingoiato del cibo avariato. Lo sapevo. Tra loro due scorre un fiume d’odio reciproco. Entrambi sono studiosi di Dino Campana, e Vassalli accusa Gianni Turchetta [docente di Letteratura e Cultura dell’Italia Contemporanea presso l’Università Statale di Milano] di aver copiato, per i suoi lavori critici, il romanzo-biografia di Vassalli La notte della cometa.
Iniziamo a parlare del Poeta di Marradi, del quale avevo appena terminato la lettura dei Canti orfici.
Lo avevano arrestato qui a Novara, Campana (il suo ‘Babbo Matto’, come lo chiama Vassalli), nel 1917, per vagabondaggio, proprio davanti alla nostra stazione, a pochi metri da noi due.
Gli chiedo di raccontarmi qualcosa di Campana, del suo passaggio a Novara, della poesia che compose sul Baluardo (‘Settembre solare denso’…) dell’arresto. Ma devo stare attento con le domande. Non ho davanti uno qualunque. Io so tutto di lui. La sua misantropia, la sua amarezza, la sua superbia. So che potrebbe accendersi da un momento all’altro e scagliarmi qualche frase-lampo da romanziere che mi brucia all’istante.
Ma lui inizia a raccontare.
Ascoltarlo culla l’udito. La sua voce sembra provenire da un’epoca lontana, o da una caverna molto profonda; sembra graffiata dal tabacco, ma i suoi baffi spessi, staliniani, sono nero pece senza traccia di sfumature di nicotina.
I suoi occhi sembrano malati: sono acquosi, ricoperti da una sinistra patina giallastra. La pupilla che ci galleggia non è proprio marrone ma color sabbia bagnata. E non ha neanche un filo di ciglia.
Niente vale un discorso spontaneo di un grande narratore. È enfatico, ma non istrionico né affettato. È un magma di parole che sgorga assolutamente naturale, perché gli scorre nelle vene.
Nel frattempo, dagli altoparlanti annunciano il mio treno. Lo devo salutare.
“Devo scappare, mi scusi ma non posso perdere il treno.”
“Oh be’, ma posso prenderlo con lei”, dice, prendendo il suo trolley. “Tanto è lo stesso.”
Rimango di stucco. Aveva detto che doveva prendere il diretto per Milano, l’Intercity per Venezia. Invece prende il mio interregionale da pezzenti.
Mi trovo a chiedermi chi, dei due, in quel momento abbia più bisogno dell’altro.

È un omone ben piantato, robusto, alto, passeggia a grandi falcate con il capo rivolto all’asfalto. Lo affianco ma non lo seguo.
Fate largo, signori. Sta passando un immortale. Capace di trattare il mondo come si tratta l’argilla. Portategli rispetto. Un uomo ha affrescato i nostri paesaggi in un grande romanzo che brucia ancora come un rogo [La Chimera].
Fate passare, signori.
Durante il viaggio parliamo quasi ininterrottamente di letteratura. Sfogo tutta la mia curiosità in attesa di qualche aneddoto prezioso, che so di non poter mai trovare nei manuali accademici.
La sua misantropia delle volte sconcerta. E il suo pessimismo deprimerebbe anche Leopardi, Werther, Ortis e tutta la cricca di entusiasti.

Non gli piace nessuno scrittore attuale, ogni volta che gli nomino un mio caro autore lui ride, fa le corna e tocca ferro. Parliamo di Nico Orengo, che poco prima lo aveva attaccato in un articolo su ‘La Stampa’; lui lo ha soprannominato Fico Orrendo, e dice che non sa scrivere elzeviri, che prima di arrabbiarsi ha dovuto leggerlo tre volte. Mi fa scompisciare, dice che “ Orrendo fa di tutto per diventare uno scrittore, ma non ce la fa proprio: è come se volesse diventare una giraffa”.
I poeti non esistono più, dice. La poesia non esiste più.
Gli chiedo se conosceva Montale. Dall’espressione capisco che neanche lui gli andava a genio.
“Era un uomo piccolo così”, dice, stringendo pollice e indice. “Pensi, ha avuto tutto quello che voleva: un posto al Corsera, il Senato, il Nobel…”
Odia tutti i professori universitari, indistintamente: li chiama ‘puzzole che infestano la Statale’.
Concordo con entusiasmo. Lo ringrazio. Finalmente qualcuno che la pensa come me! Mi gaso, e aggiungo che: “per quanto sudino, scavino e s’impegnino, i critici sono condannati a brillare di luce riflessa. Fare il critico è più facile”, aggiungo, “certo non più semplice…”
Questa è forte, mi è uscita proprio bene. Mi faccio i complimenti. E so di averlo colpito, perché il suo sguardo si stringe pensieroso, rivolto al panorama che fugge dal finestrino.
Gli chiedo di Gadda, dovrò dare un esame su di lui e sono disperato. Non lo sopporto. Non capisco una madonna di quello che scrive. Magari lui mi può aiutare: so che Gadda era un nume tutelare del Gruppo 63, dove Vassalli aveva militato da esordiente (ma bado bene a non menzionarlo, so che non va fiero del suo passato rivoluzionario, anzi lo rinnega, e ogni volta che glielo nominano lui si incazza di brutto).
Gli chiedo se era un genio o soltanto uno sborone, Gadda. Lui risponde così: “Ci sono scrittori che sfidano i secoli…”.
Soltanto così.

Sembra piovuto dal passato. Questo mondo non è proprio il suo posto. Ma non potrei attendermi diversamente da uno che ha scritto solo romanzi storici. Va fiero del suo isolamento monacale nelle campagne novaresi, dell’estraneità al circuito mondano della nostra intellighenzia. Dice che in via Solferino è andato solo due volte in undici anni di collaborazione al Corriere.

“Sono solo io che me ne sto per i fatti miei”, dice.
Lui è la conferma di una cosa che lessi proprio in un’intervista a Orengo: diceva che ‘ogni scrittore si sente il migliore, si sente l’unico’.
A un certo punto mi dice che lui è la persona sbagliata per un ragazzo curioso come me. Eppure non ha mai smesso un attimo di parlare. Mah. Gli rispondo che è troppo severo con se stesso. Che non mi ha deluso. Che è esattamente come si evince da uno qualsiasi dei suoi romanzi.
Stazione Centrale sta per ingoiarci. Ma prima di andarmene devo sapere una cosa. Assolutamente. Ne ho bisogno. Mi dico: ‘adesso o mai più’.
“Senta, c’è un ultima cosa che vorrei chiederle da tempo. Ricordo una sua frase celebre, diceva che alla mia età riteneva il lavoro dello scrittore come il più bello del mondo. Mi scusi il tono da giornalista: ma a quarant’anni da quella dichiarazione, lo pensa ancora?”
Respira profondamente. Fissa un punto inesistente del panorama metropolitano. Guarda le sue Muse ormai vecchie negli occhi, come per trovare una sorta di consenso, o per chiedere perdono, o dirgli addio…
“No, no…”, risponde, con un sorriso malinconico. “Ma sempre meglio che lavorare, no?”

Immagine di copertina: “Pioggia, vapore, velocità” @ William Turner