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Louisiana – the other side

Nell’immaginario collettivo, la Louisiana occupa un posto ambiguo. Terra di jazz e di paludi, di Louis Armstrong e Britney Spears, questo Stato rimane oggi uno dei luoghi d’America tra i più complessi e sfuggenti. I suoi paesaggi contraddistinti da una vegetazione indomabile, allo stesso tempo rigogliosa e decadente, costituiscono quasi una cesura naturale, che isola la Louisiana dal resto della nazione, rendendola altro dagli Stati Uniti, il suo opposto, the other side.
Questo il titolo originale del documentario distribuito in Italia dalla Lucky Red e realizzato da Roberto Minervini, regista italiano che vive e lavora da diversi anni oltreoceano. Other side è una frase idiomatica americana, che indica generalmente ciò che è altro da sé, il diverso. La utilizza, ad esempio, il ricco per definire il povero, o viceversa. La Louisiana è l’other side di molte cose. Qui i bianchi rappresentano ancora la netta maggioranza della popolazione, ma non si tratta degli stessi bianchi di New York o Los Angeles: sono white trash, gente culturalmente inferiore, emarginata. Nell’America post crisi economica, tornata a essere locomotiva dell’occidente prima di ogni previsione, la Lousiana rappresenta l’altra faccia della medaglia, con un elevato tasso di disoccupazione (nel nord raggiunge il 60%) e una profonda sfiducia nei propri governanti. L’abuso di sostanze illegali è estremamente diffuso e moderne forme di tribù colmano il vuoto lasciato da un sistema statale percepito come lontano ingannevole. Minervini racconta con mano ferma le abitudini del popolo dei bayou e delle palafitte, lontano anni luce da un qualsivoglia sogno americano.

Amore tossico

Il documentario si apre su un uomo nudo che cammina lento in mezzo a una strada immersa nel verde. Si chiama Mark, ha un lavoretto presso un ferrivecchi, produce anfetamine in casa e ama Lisa. È lui il protagonista della prima parte del documentario, la più intima. Mark è un tossicodipendente che ha scontato alcuni anni in prigione. La sua vita scorre lenta e senza speranza, tra incontri con parenti, lavoro, piccoli traffici e le dosi consumate insieme alla compagna. Minervini ci mostra un uomo disilluso, ma ancora legato ai suoi affetti e alla sua piccola comunità. La sua attività di spaccio sembra inserirsi in un contesto di miserabile normalità, dove passare qualche grammo alla sorella o iniettare eroina nel braccio di una stripper incinta vengono registrati come l’esercizio di un funzionario. Mark del resto è un uomo che ama. Numerosi sono i momenti di sorprendente e sbilenca dolcezza, con cui Minervini ci ricorda che anche nella waste land può esistere una storta forma di amore.

Una questione politica

Nella seconda parte del documentario, il ritmo cambia, gli spazi si ampliano e le tematiche prendono una direzione più sociale. Incontriamo alcuni paramilitari radunati da una sorta di leader carismatico intento a esporre la propria dottrina. I contenuti sono vaghi, la forma è derivata da certi discorsi camerateschi incentrati sulla fratellanza e l’onore. Nulla di particolarmente originale, se non fosse per un passaggio riguardante la distinzione tra Patria e famiglia. Questi due concetti notoriamente indissolubili nella visione che il popolo americano offre di sé stesso, vengono opposti l’uno all’altro: il concetto di libertà non risiede più nella nazione, ma nel nucleo familiare, in una una tribù di simili che si chiamano per nome e condividono le stesse terre e usanze. La milizia protagonista del documentario si appresta a difendersi da una minaccia di portata epocale, che sia esterna o interna non ci è dato saperlo. Il nemico è ovunque. Lo prova il pupazzo con la maschera di Obama fucilato e fatto saltare in aria dentro a un’auto.

Raccontare l’invisibile

Minervini ha voluto raccontare un popolo di emarginati, di gente che non vota e che non può che subire la storia del suo paese senza la forza di poter intervenire nel processo di cambiamento. Sono degli invisibili. E per rappresentarli nel modo più autentico, il regista italiano ha scelto di scomparire a sua volta. Minervini non compare mai, la sua presenza sembra apparentemente incorporea. Da 150 ore di girato, vengono estratti 90 minuti in cui è lasciato allo spettatore il compito di ricostruire il filo della narrazione, il passaggio dal lirismo alla politica, dall’autolesionismo di Mark all’insubordinazione anarcoide dei paramilitari. È un cinema d’osservazione, in cui gli interventi si riducono a quei “transition shots” necessari a confezionare il prodotto. In qualche momento forse, si ha la sensazione che il gesto non sia autentico, che l’autore sia intervenuto eccessivamente sull’azione dei suoi personaggi, piegandola alle sue intenzioni poetiche, ma non sapremo mai con esattezza quanto questo sia realmente accaduto. Quello di Minervini resta un lavoro potente quanto ben girato, in grado di dare una forma nuova al genere documentaristico.