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Di Dio e dell’Uomo: Leviathan

“Quando ponevo le fondamenta del mondo, tu dov’eri?”. Questo è, in sostanza, tutto ciò che ha da dire Dio a Giobbe, i cui beni sono stati spazzati via, i figli massacrati e la salute devastata da una terribile malattia. Alla fine del libro omonimo della Bibbia, Giobbe non può che ammettere la sua insignificanza al cospetto dell’immensità di Dio, e pur non capendo il perché, decide comunque di affidarsi a Lui. Nemmeno Kolya lo capisce, lui che si è costruito da solo la casa e sa maneggiare un fucile. Kolya è un combattente, che non si è dato per vinto alla morte della moglie. Ha una nuova compagna e buoni amici. Ma tutto questo è messo a repentaglio da un potere – quello di un sindaco corrotto – tanto meschino quanto invincibile, almeno per un uomo come lui. Per rispondere alla prepotenza del sindaco che gli vuole portare via la casa, si difende ingaggiando un suo vecchio compagno d’armi, Dimitri, ora avvocato. Una serie di eventi nuovi e inaspettati renderanno però ancora più difficile la risoluzione del caso.

“Perché dovrebbe essere felice? Il suo compito non è questo. Chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?”. La risposta che un saggio cardinale dà allo spaesato Mastroianni di 8 e mezzo potrebbe fare da manifesto a Leviathan, l’ultimo film di Andrey Zvyagintsev. Il regista russo, che esordì nel 2003 con Il ritorno, ci vuole parlare con Leviathan di un uomo schiacciato da un Nemico. A un primo livello questo Nemico è chiaramente identificabile con lo Stato, la corrotta Russia di Putin. Il sindaco del paese, dal passato più che oscuro, è interessato al terreno su cui sorge la casa di Kolya, ed è disposto a tutto pur di costringerlo a vendere. Ha amicizie nella polizia, conosce il giudice e il procuratore, è spalleggiato dal pope locale e non esita a servirsi di tutte le armi a propria disposizione, compresa la violenza e l’intimidazione. Kolya si scontra con l’arroganza della polizia al soldo del sindaco, omertosa e aggressiva, con la doppiezza del pope, che predica l’importanza della verità ma poi consiglia al sindaco l’uso della forza, con la freddezza e l’impenetrabilità della magistratura. Da segnalare uno dei momenti più inquietanti e riusciti del film: la lunghissima sequenza in cui il giudice legge la sentenza che rigetta le richieste di Kolya: tre interminabili minuti e mezzo di lettura velocissima e alienante, dove ciò che conta non è tanto quello che il giudice-automa dice, ma come lo dice. È sufficiente questa sequenza straniante per delineare il ruolo kafkiano e inaccessibile del potere giudiziario, incurante dei bisogni dell’uomo comune.

Questo primo livello è il Leviatano di Hobbes, il potere rappresentato come un gigante che in una mano regge la spada e nell’altra il vincastro, inglobando i singoli cittadini. Poi c’è l’altro Leviatano, se possibile ancor più terrificante, quello della Bibbia, l’immane mostro marino simbolo della supremazia di Dio – suo creatore – sull’uomo. Sì, perché,  a un certo punto del film , quella che può sembrare una normale contesa tra amministrazione e cittadino assurge pian piano a qualcosa di ben più ampio, quasi cosmico. L’ancestrale lotta tra l’essere umano e il male della vita, l’indifferenza del mondo di fronte all’ingiustizia e lo stupore dell’uomo nudo e indifeso. Il Kolya che alla fine sussurra tra le lacrime “io non capisco” è il simbolo dell’impotenza del genere umano di fronte a un potere insondabile e incomprensibile: dopo tutto, il film si apre e si chiude con inquadrature molto simili di paesaggi lividi e deserti della costa russa, e non è difficile cogliere la presenza della natura indifferente aleggiare sulle spiagge, gli scogli, i relitti e lo scheletro di balena che sembra lì giacere sin dall’alba dei tempi.

La religione è elemento centrale del film. Due sono gli uomini di fede, in contrapposizione tra loro ma entrambi incapaci, per motivi differenti, di compiere il bene. L’influente pope locale, che in pubblico predica verità e carità, salvo poi consigliare in privato al sindaco l’uso della forza per risolvere il contenzioso. E poi l’umile monaco a cui un disperato Kolya chiede provocatoriamente dove sia il suo Dio di fronte a tante ingiustizie, sentendosi raccontare in risposta la parabola di Giobbe. La religione, che sia collusa con il potere o semplicemente impotente, sembra incapace di fornire alcun conforto ai deboli e agli sconfitti. All’avvocato Dimitri, assunto da Kolya per rappresentarlo, viene spesso posta la domanda fondamentale – credi in Dio? – e sempre questi risponde allo stesso modo: credo nei fatti. Il divino è assente, esiste solo la materia.

Due sono le chiese rappresentate. Quella vecchia, oramai un rudere usato come ritrovo e riparo dai giovani del paese per ubriacarsi e raccontarsi storie, forse un simbolo di valori antichi e sconfitti. Quella nuova, eburnea e immacolata, alla cui inaugurazione partecipa tutta la buona società, sindaco e famiglia in testa. La macchina da presa di Zvyagintsev, mostrandoci con chiarezza un motivo circolare ricorrente sul soffitto delle due chiese, forse vuole indicarci che esiste un filo che le unisce, come se il rudere anticipasse il destino che attende la chiesa dei ricchi. Nulla sfugge al tempo e al disfacimento, e anche i potenti cadranno.

Zvyagintsev è un regista ambizioso dallo stile classico e ricercato, attento a temi sociali quanto spirituali. Così come Il ritorno, Leviathan è un film complesso e profondo – a tratti intellettualistico – che esige un pubblico colto e attento. Zvyagintsev dimostra di essere spesso geniale (prologo ed epilogo, la rappresentazione della magistratura), talvolta indulgente verso certi stereotipi (i russi ubriaconi), di certo coraggioso nel realizzare un film sulla corruzione del proprio paese e sull’infelicità del mondo.