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Scende la luna; e si scolora il mondo. A proposito de «Il giovane favoloso»

@Mario_Spada

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di Carolina Crespi

Mario Martone porta al cinema la vita di Giacomo Leopardi, poeta dell’affanno e cantore ribelle dell’eterna giovinezza. Il film ha avuto un’incubazione lunghissima: lo studio approfondito di fonti e liriche ha consentito la stesura di uno script-traccia che gli attori sono stati liberi di tradire, e che in alcuni – encomiabili – tratti ha conservato il sapore del teatro. Lo spettatore non può nulla contro la stretta che ne ridimensiona il cuore quando L’infinito riecheggia in sala: non c’è nessuno che si salvi dal ricordo anche fugace dei tempi andati, quando la poesia era predominante, dentro e fuori da scuola. Il rischio di raccontare il già noto, infarcito di aneddoti grotteschi (Giacomo ghiotto di gelati, Giacomo che dà i numeri del lotto, Giacomo deforme, Giacomo depresso) era alto, così come quello di fare un film troppo detto, retorico per definizione, accompagnato dal labiale corale di un pubblico annoiato; o di ridurre il cinema a quel teatro che Martone fa e dirige. Ma Il giovane favoloso è una scommessa che Martone e il suo cast hanno vinto, convincendo anche chi temeva la scivolata del film televisivo.

Il regista napoletano si confronta con una biografia che l’Italia tutta conosce già, ma sceglie mezzi inediti e una sapiente costruzione della suspense per suscitare emozioni. Non è un caso se, a quaranta minuti dall’inizio del film, lo stomaco dello spettatore sussulta per l’abbraccio liberatorio tra Giacomo (l’ottimo Elio Germano) e Pietro Giordani (Valerio Binasco), intellettuale illustre e amico affettuoso del giovane Leopardi, con il quale intrattiene un’intima corrispondenza. Senza dubbio è la colonna sonora by Apparat (non esattamente un pivellino dell’elettronica e Premio Piccioni a Venezia71) a trascinarci definitivamente nel vortice: Martone la alterna a Rossini (che Leopardi mai incontrò, nonostante fossero quasi coetanei ed entrambi marchigiani), con una fluidità encomiabile, la stessa che si ritrova nel passaggio dalla lirica al pensiero, dal dialogo alla voce narrante.

Durante il primo, mirabile e disperatissimo atto (di gran lunga il migliore dei tre) Martone ci imprigiona nella roccaforte di Recanati dove tutto è morte, tutto è insensataggine e stupidità [1], ma lontano dalla quale Giacomo confesserà alla sorella Paolina (Isabella Ragonese) di non riuscire più a sognare. È in questo luogo senza vita di sorta alcuna [2] che Leopardi scrive la quasi totalità dei suoi versi ed è sempre Recanati il luogo in cui, nonostante il dubbio che si fa strada nel cuore di Giacomo, «padre e figlio stanno come due persone nella Trinità [3]», e Monaldo (Giacomo Popolizio) è per Martone padre-carceriere per troppo affetto. Per questo, dalla prigione-biblioteca usciamo solo se accompagnati e per incombenze irrinunciabili, o grazie alle finestra che illumina lo scrittoio e severa promette la libertà a cui Giacomo anela. Della donna affacciata dirimpetto ci bastano gli occhi ridenti e fuggitivi: una A Silvia che Martone gira e non dice perché chi guarda già sa, e perché il suo è un racconto che ha a monte una chiara scelta di campo.

@Mario_Spada

Su Leopardi si potrebbero fare decine di film differenti. Martone ha scelto il Leopardi favoloso e visionario, il cui immaginario è popolato di miti, e il cui animo irrequieto è presto eroso dal morbo dello scetticismo e dalla consapevolezza che non è dato riposo all’essere mortale. È lo strascico creativo delle Operette Morali (che da tre anni Martone scarrozza per teatri, collezionando premi illustri alla regia e l’Ubu 2011) arricchito dalla potenza di uno scenario cittadino e della notte che al cinema è prima di tutto simbolica. È con un cadavere che strizza l’occhio e una natura antropomorfa di sabbia matriforme, che Martone lascia aperto il pertugio al surreale pregando lo spettatore di non destarsi e stare al gioco. La discesa agli inferi, un bordello focoso e umiliante, arriva in una Napoli che vede un Giacomo ormai malato di cinismo, spavaldamente infelice, le cui gesta umane si contendono la magra consolazione del riso o quella altrettanto inetta della pietà.

Agli antipodi del bordello-inferno c’è il Vesuvio-demiurgo che dell’inferno condivide l’elemento [4], e che domina la terrazza di Torre del Greco dove, in compagnia del suo fedele amico – lo scrittore napoletano Antonio Ranieri (Michele Riondino) –, Giacomo trascorre gli ultimi istanti della sua vita.

Se Cesare Garboli amava definire Leopardi «un meteorite precipitato per caso nell’Ottocento», quello di Martone è un Leopardi che nel XXI secolo è perfettamente a suo agio: ribelle quanto basta, annoiato dai salotti, darwiniano ante litteram, cinico fino all’inazione, immaturo e pedante. Non resta che attendere il 16 di ottobre, quando Il giovane favoloso sarà in tutte le sale italiane, e per 137 minuti filati, al cinema scenderà la luna e si scolorerà il mondo.

[1]    G. Leopardi, Lettere, 1817.

[2]    G. Leopardi, Lettere, 1826.

[3]    P. Citati, Leopardi, Mondadori, 2010.

[4]    Quel «Sotterraneo foco che ritornando al loco già noto stenderà l’avaro lembo», G. Leopardi, La ginestra,1836.

Il titolo «Scende la luna; e si scolora il mondo» è tratto da G. Leopardi, Il tramonto della luna, 1836.