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Perché ci ricorderemo di Ivo Brandani

Ci ricorderemo a lungo di Ivo Brandani.

E non potrebbe essere altrimenti, visto che su di lui si concentra tutta la forza narrativa di La vita in tempo di pace, ultimo romanzo di Francesco Pecoraro, che consegna ai lettori un’opera complessa e ricca, sfaccettata e unica, come la psicologia di ogni uomo. Opera emblematica, d’altra parte, perché Ivo Brandani si presenta come uomo del suo tempo e che del suo tempo, il tempo di pace, sembra incarnare tutte le contraddizioni. Proprio per questo, credo, un esercizio utile potrebbe essere quello di individuare i principali caratteri che definiscono il personaggio. Non tanto per aggiungere un’altra voce al già nutrito gruppo di critici – dai più scafati come Giglioli e Mazza Galanti ai più giovani come Carbè e Bellardi – che si sono cimentati su questo romanzo, riconoscendovi i contrassegni del capolavoro. Ma semplicemente per capire se, e perché, possiamo considerare Ivo Brandani una figura rappresentativa della nostra civiltà.

Il senso di catastrofe

«Ivo Brandani era perseguitato dal senso della catastrofe». La vita in tempo di pace comincia così, consegnandoci un primo e indimenticabile aspetto della psicologia di un uomo, che ancora non conosciamo, ma che già ci sembra interpretare, con chiarezza e cinismo, un carattere centrale del nostro presente. Da qui in poi, il romanzo si dispiegherà in un attraversamento delle diverse conformazioni che assume questa catastrofe. E non si tratta, come apparentemente potrebbe sembrare, di tutti quei momenti in cui lo scorrere lineare del tempo s’interrompe e la realtà intorno a Brandani esplode in manifestazioni di incontrollabile violenza, come quando partecipa – o sarebbe meglio dire assiste – agli scontri di Valle Giulia, o come quando, davanti allo schermo del televisore, osserva attonito il crollo delle Twin Towers. Sono i passaggi che per Cortellessa rendono “storico” il romanzo di Pecoraro; e tuttavia, per quanto marchino la progressione del racconto, caricandone il voltaggio e le ambizioni, a segnare profondamente quel senso di catastrofe sono altri momenti, meno memorabili perché più nascosti, e per questo capaci di un’azione più profonda. Sono i momenti invisibili che segnano il livello del tempo di pace, «una guerra silenziosa di tutti contro tutti».

Brandani ha imparato a riconoscerli, e non a caso nel momento del loro accadere, la sua riflessione si sbriglia, dimostrando un acume sociologico e antropologico non comune. Le pagine più significative sono quelle in cui contempla il progetto di ricostruzione artificiale della barriera corallina al largo di Sharm el Sheikh, che l’azienda per cui lavora, la Ecocare, si è impegnata a realizzare insieme alla giapponese Fakenature. Gli elementi dell’analisi sono tutti al loro posto: il tempio del tempo libero dove arriva a svernare il cosiddetto Ceto Medio Mondiale, la definizione in termini commerciali di un processo di falsificazione della natura che è in corso ormai da decenni e che porterà a rendere insignificante quella distinzione tra vero e finto, tra reale e artificiale, su cui l’uomo contemporaneo continua a baloccare la propria intelligenza. La realtà è in preda a un declino, lento ma irreversibile; i vari tasselli del romanzo, assemblati in un montaggio di stampo modernista, mostrano l’evoluzione di questa inerzia in cui tutto sembra agglutinarsi, farsi sterile e minerale. Ivo ha compreso presto che non è possibile opporre resistenza; i giovanili fervori, peraltro tiepidi, sfumano in una rassegnazione addirittura compiaciuta. La realtà non c’è verso di cambiarla; e forse non ne vale neanche la pena.

Non farò in tempo a vedere il mondo uscire da questo stadio di verità inautentica per rigenerarsi nella finzione completa, nell’artificio totale: mi è toccato vivere nell’era intermedia della degradazione, in cui si vedono cose morire una ad una, neanche tanto lentamente, per essere sostituite, quando va bene, da una copia più o meno ben riuscita… Quale specie ci sostituirà una volta estinti? I cani? Le scimmie? Le formiche? C’è tempo, milioni e milioni di anni… E poi, cosa me ne importa?…

Stare dentro, essere estraneo

Ivo Brandani attraversa settant’anni di storia italiana, tocca con mano i simboli di un cambiamento che riguarda la sfera collettiva come quella privata. Eppure sembra agire sempre dalla posizione dello “straniero”, di chi è capitato per caso nell’occhio del ciclone. È così quando da giovane universitario prende parte alle proteste studentesche, ma senza avvertire, né nel cuore né nella testa, la convinzione che invece dovrebbe avere. Si tratta di una disposizione costitutiva della sua figura che si ripresenta sistematicamente a ogni episodio, definendo la condizione del personaggio, a un tempo privilegiata e ambigua, ovvero doppia. Come un Mattia Pascal o un Vitangelo Moscarda, Ivo mostra diverse identità, sembra al tempo stesso “essere” e “non essere” partecipe delle situazioni che vive. È un personaggio scisso, diviso tra quelle che chiama la parte di Padre e la parte di Madre, la parte cinica e la parte innocente, quella democratica e quella carrierista, l’attiva e la riflessiva, quella d’ingegnere e quella di filosofo. Tuttavia, a differenza dei suoi antenati, questo scollamento interiore avviene in lui alla luce della piena coscienza. E questo appare evidente nei momenti cruciali della sua vita: la prima volta che fa a botte con un compagno di classe, il primo giorno del suo nuovo lavoro in comune. Qui Ivo si percepisce sdoppiato, vive le situazioni e si vede viverle. Questo gli permette di comprendere cosa gli stia accadendo nel momento stesso in cui gli accade; Ivo è in grado cioè di osservare le cose dalla giusta distanza, come fa chi, seduto dietro il vetro della hall di un aeroporto, guarda il mondo scorrere davanti a sé.

Questo sdoppiamento dovrebbe fare di Ivo Brandani una persona capace di compiere sempre la scelta giusta. Ma non è così, perché le sue due parti non comunicano, restano trincerate dietro il muro di una reciproca diffidenza. Ivo rappresenta il tipo d’uomo che riflette e per questo non agisce, o che agisce senza riflettere; ovvero il suo agire resta subordinato al calcolo cinico, che si rivela miope, o al furore dell’impulso emotivo, destinato a consumarsi nell’arco di un istante. Mai, in lui, prevalgono le ragioni del senso di appartenenza o del senso comune. Al contrario, Ivo sembra rifuggirle, risentito o spaventato, ribadendo l’opzione per un isolamento autarchico e rancoroso. Convinto di proteggere la propria eccezionale singolarità dalle sirene dell’inclusione che cantano in nome di progetti collettivi (l’ideologia politica, l’amore coniugale, il carrierismo spietato), Ivo rimane vittima di un mantra – non mi avrete mai – che si svuota un poco a ogni ripetizione, fino a lasciarlo disarmato di fronte al fatto compiuto: egli non è altro che uno dei tanti rappresentanti di un’umanità bovina e infeconda (l’homo faber che non costruisce nulla), destinata all’estinzione.

Niente di originale se, alla presa d’atto del fallimento, non corrispondesse anche il sorriso ottuso di chi si abbandona al piacere “inesorabile” dell’autocommiserazione.

“La Città sta andando sott’acqua, Brandani. Ti dispiace? Puoi dire che ti dispiaccia? No eh? Quanto a voi, Non mi avrete mai”. Decise di depositare un altro Tavor da un milligrammo sotto la lingua.

I nomi delle cose

Ivo Brandani non chiama le cose per nome. O almeno non tutte. Per alcune cose preferisce adottare delle strane formule, tra la perifrasi descrittiva e l’allocuzione evocativa. Il procedimento riguarda tutte le categorie nominali. Le persone: il padre e la madre sono Padre e Madre, senz’altri attributi e senz’altre specificazioni, così come il Gruppo di amici e conoscenti del mare. Le città con tutti i loro luoghi specifici: l’Italia è la Penisola, Roma è la Città di Dio, che ospita il Tempio Pagano, il Ponte Ancestrale e il Fiume, mentre nelle spiagge vicino alla Città di Mare c’è la Rotonda, inevitabile luogo di avventure estive. E poi ci sono altri topoi della vita di Brandani: Buca di Bomba, vicino alla casa dei tempi dell’Esilio del Dopo-Guerra, dove Ivo fa le sue prime esperienze di vita; la Festa del pomeriggio, dove si consumano amori e drammi ad altissima intensità emotiva, come sempre capita nelle questioni di adolescenti. Residui dell’infanzia che la pratica di nominazione rende luoghi assoluti, luoghi dell’anima, recuperati nella vita adulta e capaci di rinnovarne le potenzialità percettive.

Si potrebbe dire che questo procedimento è proprio di ogni uomo e di ogni nucleo famigliare: sempre accade che si trovino nomignoli e soprannomi capaci di evocare gli argomenti che più frequentemente toccano i discorsi, evitando inutili spiegazioni. Ma se questo procedimento ha abitualmente il compito di costruire un circuito di riconoscimento, dove la parola nuova sostituisce quella vecchia e ne rimpiazza il referente con uno carico di attribuiti “forti” e impliciti, nel caso di Ivo Brandani, invece, questo stratagemma produce l’effetto esattamente opposto: i nuovi nomi, agendo per paradosso o semplice ipostatizzazione, cercano di disattivare il riconoscimento per far “vedere” la realtà delle cose, come prescrivevano i formalisti russi. È così che questi nomi costruiscono una nuova realtà, la realtà di Ivo, in cui gli oggetti, i luoghi, i momenti della vita scelti a tutte le latitudini (dagli Oscuri Cinquanta alla Scesa di Letto) si trasformano in “soglie”, passaggi fondanti la biografia personale e collettiva: questi nomi, infatti, risveglieranno nel lettore reminiscenze e sensazioni, generando una segreta e istintiva sintonia, ma produrranno anche comprensione.

La biografia di Brandani, per un semplice effetto tipografico, si trasforma così nel calco di una storia collettiva.


Essere figli ed essere padri

Ivo Brandani è figlio, ma non è padre. Ivo sembra incrociare cioè una questione centrale della letteratura italiana di questi ultimi quindici anni (si pensi, tra i più recenti, a volumi come Geologia di un padre di Magrelli e Il padre infedele di Scurati); ma soprattutto incarna un problema generazionale che tanti osservatori annoverano tra le cause della crisi di questo paese (si pensi alle analisi sempre acute di Massimo Recalcati). Ivo ha un rapporto difficile con suo padre, figura autoritaria dalla quale non riesce a ribellarsi una volta per tutte, e che per questo non può fare a meno di odiare visceralmente. Padre è rancoroso e violento, incarna un universo fatto di leggi date e indiscutibili (i Precetti), di costrizioni e divieti, di responsabilità dovute e di attese mancate (di contro, Madre rappresenta il regno del perdono e della concessione). Ivo, raggiunta l’età dell’autonomia, non può fare altro che intraprendere scelte diverse da quelle che Padre avrebbe voluto per lui: parteggia per una sinistra sempre più annacquata e incerta, ma comunque lontana dal liberalismo di toni e dal fascismo di maniere propri di Padre; Ivo inizia filosofia quando Padre avrebbe voluto che studiasse per rilevare la sua impresa edile, e quando passa a ingegneria si promette di non cedere mai alle pressioni paterne. Nonostante questo, l’eredità che grava sulla sua generazione non è rimovibile solo con qualche scelta in controtendenza. Quando osserva gli scontri tra studenti del movimento e giovani fascisti, Ivo non può fare a meno di pensare: «l’odio storico è montato di nuovo, ci stiamo facendo carico dei vecchi conti lasciati aperti dai padri».

Forse è per questo che Ivo non ha mai avvertito il bisogno di diventare padre: troppo è costato quel processo di emancipazione dalle battaglie e dagli orizzonti paterni – un processo peraltro fallito – che non è rimasto il tempo per invertire la prospettiva e iniziare a pensare alle generazioni successive. Per Ivo i più giovani non sono altro che ragazze su cui riversare un desiderio erotico ormai sopito e ragazzi svuotati da decenni di televisione, consumismo e vacanze alla moda. Ivo Brandani si colloca al centro della schiera di antieroi contemporanei, come il Walter Siti di Troppi paradisi o il Nimbo del Tempo materiale, che tra paternità putative non riconosciute e paternità effettive ma fallite, dimostrano la difficoltà, se non l’incapacità di rinnovare un vincolo generazionale che permetta il passaggio di consegne, la ridefinizione dei ruoli, il cambiamento degli orizzonti. Il canale di comunicazione si è svuotato: si tratta di un dato storico. E la spiegazione di Brandani, che conserva in questo un accento ipocrita quanto infantile, riversa ogni responsabilità sui cattivi modelli che hanno rovinato quelli che oggi dovrebbero essere i padri: «Mi perseguita, si è fatto odiare inutilmente per tutto il tempo che è stato in vita… Adesso che è morto da quasi trent’anni – quanti anni sono? – mi ricompare nelle ossa del cranio e mi fa odiare il mio/suo stesso viso, come mi ha fatto odiare tutto ciò che lo riguardava» (458).

La vita è il dominio di uno spietato determinismo biologico, che non lascia spazio ad alcuna ambizione di cambiamento. Inutile battersi; inutile anche ricostruire sopra il proprio fallimento. Il senso di responsabilità resta una semplice illusione, buona per chi crede che resistere abbia ancora un senso. Se non per noi, almeno per chi verrà dopo.

F. Pecoraro, La vita in tempo di pace, Ponte alle Grazie, Milano 2014, €16,80, pp. 509