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“Un crimine o una preghiera”: «L’Avversario» di Emmanuel Carrère

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di Davide Valtolina

L’Avversario è un libro di Emmanuel Carrère, pubblicato nel 2000 e riproposto l’anno scorso da Adelphi, sulla scorta del successo raccolto dal mirabile Limonov. Difficile da inquadrare, si presenta come una sorta di non fiction novel in cui si mescidano reportage, autobiografia e lettere private. Il lavoro prende spunto da un fatto di cronaca nera, accaduto poco più di vent’anni fa in Francia: l’assassinio di moglie, figli e genitori da parte di Jean-Claude Romand. Una manciata di giorni d’indagine serve a scoperchiare la vita del colpevole, che per diciotto anni aveva vissuto come se fosse un medico dell’OMS di Ginevra, ma «dietro la facciata sociale lui non era niente». Aveva mentito a tutti, e c’era riuscito, costruendosi un’identità seconda con cui coprire una voragine vuota e senza misura. Ma quando ha avvertito che il castello di carta stava per cadere, non ha saputo reggere; e questa storia ha assunto i tratti di una fosca, incomprensibile tragedia. «Ho tentato di raccontare con precisione, giorno dopo giorno – spiega Carrère –, questa vita di solitudine, di impostura e di assenza. Di immaginare cosa gli passava per la testa durante le lunghe ore vuote, senza progetti né testimoni, che avrebbe dovuto trascorrere al lavoro e invece passava nei parcheggi autostradali o nei boschi del Jura. Di capire che cosa, in un’esperienza umana tanto estrema, mi ha toccato così da vicino. E tocca, credo, ciascuno di noi».

Lasciandole ravvolte, Carrère schiude continuamente interrogazioni sulla questione ultima del male. Che non si inscrive nell’orizzonte a prima vista costretto del titolo – «Avrebbero dovuto vedere Dio e il suo posto avevano visto, sotto le sembianze dell’amato figlio, colui che la Bibbia chiama Satana: l’Avversario» –, ma cresce a contaminare tutti gli spazi dell’esistenza: si sollevano a mezz’aria delle ombre che sfiorano la vita di tutti i giorni, senza che se ne abbia nemmeno coscienza. La storia di Romand mostra la ragione che si fa a pezzi mentre cerca con affanno di ghermire un senso, una connessione minima capace di piegare il silenzio; o una possibilità di ricostruire l’ordine, che sembra sempre ferma, inevitabilmente involuta anche dopo la sequenza della giustizia. Al processo – a cui Carrère comincia ad assistere, dopo aver avviato uno scambio epistolare con Romand – la presidente rimane più volte sconcertata, chiede come sia stato possibile che la menzogna dell’imputato, capace di circuire chiunque gli stesse vicino, non sia emersa prima: sarebbe bastata una telefonata ordinaria, una verifica qualunque. Per esempio un’occhiata, da parte di un amico, ai risultati degli esami di ammissione del terzo anno di Medicina (la prima, decisiva finzione che finirà per allargarsi come uno strappo infinito). «Il mistero, però, è che non esistono spiegazioni, e per quanto inverosimile possa sembrare, questo è ciò che è accaduto».

A colpire di più, dopo tutto, non è forse l’efferatezza del crimine; ma l’identità sfaldata, indecifrabile di Romand, educato secondo le norme di un’impostazione tradizionale che prescrivono di dire la verità ogni qual volta viene richiesta, e consentono tuttavia di conservarla in una zona grigia per evitare di incrinare le superfici degli affetti, come all’interno della sua famiglia d’origine. Impossibile però dire se si trovi qui l’origine della deriva, in un caso così estremo le tracce della ragione non possono che sovrapporsi, finendo con il cancellarsi a vicenda. Lo stesso Romand non sa, o forse non vuole capire. Come magari non ha voluto fare (è ciò che suggerisce l’accusa in merito al suicidio mancato dopo lo sterminio della famiglia). E lotta contro se stesso nel labirinto a specchi della sua coscienza. In una lettera a Carrère, dice che letteratura, più che la psichiatria, potrà servire a fare luce su quanto successo: chissà se non vi vedesse invece un nuovo artificio con cui rivestirsi, consacrandosi definitivamente come figura tragica. Col passare degli anni in carcere arriva però la sua certezza: Cristo. Carrère definisce «indecidibile, nell’accezione matematica del temine», la sua testimonianza religiosa. «Sono sicuro che non stia recitando per ingannare gli altri, mi chiedo però se il bugiardo che c’è in lui non lo stia ingannando. Quando Cristo entra nel suo cuore, quando la certezza di essere amato nonostante tutto gli fa scorrere sulle guance lacrime di gioia, non sarà caduto ancora una volta nella rete dell’Avversario?». Anche scorciando, di questa domanda, i contorni metafisici, si avverte con un senso di smarrimento il richiamo a un bacino esistenziale comune, che in qualche modo coinvolge la vita di tutti.

L’Avversario ha una forza perturbante impetuosa, che tracima e strappa: anche se poi la sua significazione complessiva rimane indefinibile, sotto una coltre nera di ombre: «Ho pensato che scrivere questa storia non poteva essere altro che un crimine o una preghiera», dice alla fine Carrère, che fatica a nascondere il proprio disagio, e forse un certo senso di colpa. D’altronde la gestazione del libro, durata sette anni, si è inceppata più volte, mostrando le gravi difficoltà incontrate dallo scrittore nell’affrontare una storia terribile e irreale. La pietra angolare della narrazione è il punto di vista: scartate varie ipotesi inadeguate – fra cui quella di una conduzione limpidamente esterna che tenesse a modello il classico del genere, A sangue freddo di Truman Capote – Carrère sceglie di mettere insieme un libro di annotazioni in prima persona, in cui il giudizio finale, però, rimane come bloccato dall’orrore. Frammischia così in un testo granulare e ininterrotto pagine di autobiografia, cronaca processuale, scambio epistolare e romanzo d’inchiesta. Lasciando che le parole si sporchino fra loro, in una prosa bilanciata e veloce, anche fin troppo spoglia – a volte letteralmente smembrata, come per il resoconto del processo – nel suo esasperato tentativo di analisi e definizione. Costruendo una struttura aperta, liquida: l’unica possibile, forse, per una storia che lascia impietriti, ma che si deve raccontare se «tocca, credo, ciascuno di noi».

E. Carrère, L’Avversario, Milano, Adelphi, 2013, pp. 169, € 17