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Occhi chiusi in sala. Holy Motors e l’apocalisse del cinema

La sala cinematografica è buia e stracolma.

Il film è già iniziato. Sullo schermo scorrono cronofotografie di Muybridge, il soggetto è un atleta intento in alcuni esercizi ginnici.

Tutti gli spettatori dormono profondamente nelle loro poltrone.

Un uomo in una stanza spoglia si alza dal suo letto, apre con un dito/chiave la serratura nascosta in una parete e si ritrova anch’esso nella sala dei dormienti, ad ascoltare sirene di navi e gridi di gabbiani provenire da uno schermo che nessuno guarda.

Questo l’esordio di Holy Motors, un’apertura degna di un’allegoria rinascimentale, con un suo preciso codice cifrato che solo il proseguo del film potrà sciogliere.
La materia di questa pellicola esige, infatti, un filtro, una struttura metaforica che impedisca il contatto con il suo tragico e mistico tema, ovvero l’apocalisse imminente del cinema, la sua infinita morte.

Holy Motors è l’ultima folgorante prova di Alex Christoph Dupont, in arte Leos Carax, bizzarro anagramma che contiene in sé il nome Alex e la parola Oscar, la famosa statuetta che ogni regista sogna di conquistare. Figura atipica e romantica del cinema mondiale, Carax ha prodotto pochissimo, 5 lungometraggi in tutto, in una carriera registica iniziata negli anni 80 e segnata da prove eccezionali e controverse tra le quali Mauvais Sang (un sci-fi-gangster-romantic movie con una giovanissima Juliette Binoche) e Les Amants du Pont Neuf, per cui il nostro, in un delirio romantico alla Fitzcarraldo, occupa il famoso ponte di Parigi, dilapidando un budget già inizialmente sostanzioso, per girare un film dal lirismo insuperabile ma che non avrà quel ritorno di pubblico necessario a coprire le spese sostenute.

Leos Carax, del resto, mostra in ogni singolo fotogramma dei suoi lavori un amore smisurato per chi va al cinema, ma anche un’intransigenza poetica estrema e anacronistica, che mai tradirebbe per qualche dollaro in più. I suoi film sono composti, del resto, da materiale visivo e attoriale di prima scelta, nulla a che vedere con le produzioni attuali, che tanto nocciono alle retine sofferenti degli spettatori, i quali perdono inesorabilmente l’unico senso che li rende tali e assistono alle proiezioni dei film in cartellone quasi anestetizzati, incapaci di percepire (dormienti).

Holy Motors è la pellicola che ogni amante del cinema attende da anni, è quel genere di film che ti fa venir voglia di chiuderti in casa a riscoprire i capolavori passati, di aprire cineclub, di accendere dibattiti o chiudere tutto e fare fagotto, alla ricerca sciocca e sublime di un briciolo di bellezza. Perché il cinema in questi casi torna ad essere ingenua e potente macchina da storie, il cui unico motore è il gesto deciso e sciamanico dell’attore di fronte all’occhio di chi guarda.

Protagonisti della storia, o meglio delle storie, sono il signor Oscar (Denis Lavant), una Limousine bianca e la sua autista Céline (Edith Scob), viaggiatori insoliti e pittoreschi nella Parigi odierna. Il vistoso veicolo è l’icona di un’epoca in cui il lusso era sinonimo di smisuratezza, opulenza, teatralità. Agli occhi di uno spettatore di oggi, quel mezzo oblungo appare ormai ridicolo, stravagante, la sua bellezza non è percepita; la limousine si muove per le strade di Parigi con la goffaggine e l’ingestibile maestosità dell’Albatros baudelairiano, le cui enormi ali da dominatore dei cieli lo condannano sulla terra ad essere oggetto di scherno da parte dei marinai.

Denis Lavant, attore feticcio di Carax, protagonista di quasi tutte le sue opere, vero e proprio alter ego sulla scena del regista francese, dà fondo a tutto il suo istrionismo per recitare il ruolo di super-attore, o del dirsi voglia meta-attore: mestiere del suo personaggio è infatti quello di interpretare ruoli, di calarsi senza sosta in nuove vite e pantomime, apparentemente per nessuno spettatore e nessuna cinepresa, quasi a voler attrarre nientemeno che lo sguardo della città stessa. Per chi lavora il signor Oscar? Qual è lo scopo del suo “mestiere”, quest’attività di attore poliedrico full time? Non ci è dato saperlo e in fondo non abbiamo bisogno di alcuna spiegazione. L’azione del film infatti gode di una nettezza e una perfezione tali da rendere superfluo ogni significato, ogni didascalia o chiarimento; il cinema, come d’incanto, recupera la sua primordiale forza, fatta di pochi e semplici ingredienti: luce e movimento. Seguiamo così l’attore Oscar attraverso la sua giornata fatta di innumerevoli ruoli da interpretare tra le strade e gli edifici di Parigi, in una surreale routine da operaio specializzato in epifanie, in impressioni fantasmagoriche che, come elettricità, riattivano il cuore stanco della Ville Lumière. Oscar conduce la sua vita di eterno interprete con abnegazione e solennità tragica, qualunque sia la parte da recitare, dalla zingara che chiede l’elemosina o il mostro che vive nei sotterranei, fino al ruolo dell’assassino. Come in un singolare ciclo di rinascite, il protagonista si tuffa disperato nel ruolo seguente, alla ricerca della pace, dell’ultima interpretazione e del sipario che finalmente cala.

La morte del cinema che Carax mette in scena non può essere quindi che una sfilata felliniana a tinte dark, caleidoscopica e per sua natura, inesauribile; del resto si decretava la morte del cinema già pochi decenni dopo la sua comparsa, perché è la sua sostanza effimera di sogno a renderla arte fantasma, il cui senso non ha bisogno di mediazioni, ma passa per osmosi e si imprime nella retina come un evento.

I dormienti nella sala del cinema possono sollevare finalmente le palpebre. La rivelazione, forse, è giunta.

 

Holy Motors (Francia 2012), 115 min., di Leos Carax con Denis Lavant, Edith Scob, Eva Mendes, Kylie Minogue, Michel Piccoli…