«L’altra ferita, quella morale, avrebbe potuto non sanarsi mai».
Luciano Bianciardi, Garibaldi

0.

Il 14 dicembre 2022 sono cento anni dalla nascita di Luciano Bianciardi.
Dopo decenni da outsider, con qualche menzione pretestuosa qua e là, qualcuno urla: “è vivo!” e il mostro (che è, prima di tutto, etimologicamente un prodigio) di Frankenstein editoriale ricomincia a muoversi. Escono nuove edizioni dei suoi libri, per esempio La trilogia della rabbia (Feltrinelli), con all’interno Il lavoro culturale, L’integrazione e La vita agra; Non leggete i libri, fateveli raccontare (per Neri Pozza, ma il titolo originale corretto sarebbe: Come diventare un intellettuale), quindi l’incompreso Aprire il fuoco per minimum fax, ultimo di una buona serie (qui il catalogo). La Fondazione Bianciardi promuove diverse iniziative (bello il ciclo Raccontare il lavoro) e, assieme alla casa editrice ExCogita diretta da Luciana Bianciardi, pensa al recupero e al rilancio di testi sommersi, per esempio Tutto sommato. Scritti giornalistici 1952-1971.   
Bianciardi morì il 15 novembre 1971, dopo giorni interi a nutrirsi con sola grappa gialla, di cirrosi epatica. Penso al brano di La vita agra sulla defecatio post mortem: «cioè a dire il morto, quando è morto per davvero, se fa ‘na bella cagata, nel letto, in modo da cominciare a puzzare prima ancora che si sia avviata la normale putrefazione», che è un po’ il ghigno del cadavere, direbbe Carmelo Bene, il comico davvero. Dopo aver scritto un funerale (per «Altri animali», qui), in questo pezzo provo a guardare al miracolo di un corpo letterario che riprende vita, un po’ alla Mary Shelley, certo, un po’ alla Gesù Cristo.

1.

In I minatori della Maremma (Laterza, 1956) – l’inchiesta scritta da Luciano Bianciardi e Carlo Cassola sulla tragedia della miniera di Ribolla del 4 maggio 1954 – chi sfila al funerale dei quarantatré minatori uccisi sventola le «bandiere di Marx e la Croce di Cristo», assieme. Diversa, la «liturgia autocarrata» per il «cuore di Gesù», nella periferica Grosseto-Kansas City[1], in Il lavoro culturale (Feltrinelli, 1957). In Da Quarto a Torino (Feltrinelli, 1960), primo tra i libri “risorgimentali”, Bianciardi arriva a sostenere che Garibaldi, sottotraccia, sia il padre di Gesù, in una ribaltata genealogia insurrezionale:

I volontari si recarono in visita al tempio di Segesta, poi ciascuno andò a dormire al suo convento, ma la mattina all’alba erano di nuovo in piedi: Alcamo li attendeva e ad Alcamo, ovviamente, fra’ Pantaleo. Garibaldi e i suoi ufficiali entrarono in duomo per ricevere la benedizione, quindi l’acceso frate di Castelvetrano superò se medesimo nell’orazione di benvenuto: spiegò alle turbe che Emanuele significa «mandato da Dio» e che Cristo fu appunto l’Emanuele, e poiché il padre di Gesù ebbe nome Giuseppe, come Garibaldi, si poteva concludere che Garibaldi e Vittorio Emanuele II erano padre e figlio.

Tipico pseudo-sillogismo di Luciano Bianciardi. Ma la confusione, forse, non è senza implicazioni. Leggiamo La vita agra, che a differenza dei due “romanzi-pamphlet” (Il lavoro culturale e L’integrazione – questo secondo uscito nel 1960 per Bompiani e dedicato alla nascita dell’editore Feltrinelli), è un libro più esposto. Scritto di domenica tra una traduzione e l’altra[2], pubblicato nel 1962 da Rizzoli, con il famoso «biscione milanese» in copertina, è una passeggiata-sproloquio durante la quale è raccontato l’arrivo a Milano, il licenziamento dal lavoro di redazione per scarso rendimento, dunque la riconversione a traduttore freelance. È raccontato l’amore per Anna (nella vita vera Maria Jatosti, la compagna per la quale si separò dalla moglie Adria Belardi e, di fatto, dai figli Ettore e Luciana; e la compagna con la quale ebbe Marcello), le difficoltà economiche, eccetera.         
È svelata anche la ragione per cui sarebbe emigrato, da Grosseto: «abbattere il torracchione», cioè il grattacielo della Montecatini, l’azienda responsabile, per negligenza, della tragedia di Ribolla. Insomma: come un suo collega, Ottiero Ottieri, Milano era il suo «dover essere»[3], dove si sarebbe tenuta la lotta[4].      

Comunque, Cristo si dà all’anarco-insurrezionalismo, moltiplicando pani e pesci, nel cap. X:

Tutti questi sono i sintomi, visti al negativo, di un fenomeno che i più chiamano miracoloso, scordando, pare, che i miracoli veri sono quando si moltiplicano pani e pesci e pile di vino, e la gente mangia gratis tutta insieme, e beve (il fatto fu uno solo, anche se il dottor Giovanni scinde e sposta la storia del vino nella località di Cana). Mangiano e bevono a brigate sull’erba, per gruppi di cento e di cinquanta. Mangiano, bevono e cantano, stanno a sentire la conferenza e appena buio, sempre lì sull’erba, come capita capita, fanno all’amore. Il conferenziere si è tirato in disparte coi suoi dodici assistenti, e discorre con loro sorridendo. È un dottorino ebreo, biondo, sui trent’anni. I miracoli veri sono sempre stati questi. E invece ora sembra che tutti ci credano, a quest’altro miracolo balordo: quelli che lo dicono già compiuto e anche gli altri, quelli che affermano non è vero, ma lasciate fare a noi e il miracolo ve lo montiamo sul serio, noi.

Me lo ricordavo diversamente il miracolo, senza orgia. Dice: quando si moltiplicano, tra l’altro. Un soggetto collettivo direi antitradizionale. Una parodia, se vogliamo. Oppure un avvicinamento alle pratiche di dialogo dei movimenti.

2.

Dobbiamo smettere di essere moderni per accettare l’incrocio tra immaginario marxista e cristiano, e precisamente, come si è visto, tornare all’eros.[5] Nel cap. IV di La vita agra, Bianciardi sostiene di aver avuto in sorte di scopare tanto e cita Abelardo, Molinari Enrico di New York e il calciatore Cherubillo. Per questo non ha bisogno di fare filosofia. Gli “esperti” dicevano tante cose:

Dicono: guardate come oggi per vendere un’aranciata la si accoppia a un simbolo sessuale, e così un’auto, un libro, un trattore persino. […] Tu, dicono in sostanza, desidererai il coito per arrivare a. Mai il tuo desiderio, dioneliberi, sia per il coito in sé. Deriva da qui l’attivismo ateleologico della civiltà moderna, da qui deriva, aggiungiamo pure, lo scadimento della professione meretricia […].         
La riduzione di fine a mezzo, qui e altrove, aliena, integra, disintegra, spersonalizza e automatizza, e così viene fuori l’incomunicabilità, e così viene fuori l’uomo-massa e la prostituta moderna […].

Si serve un assist da solo: un ritorno al desiderio sessuale non pubblicitario farebbe cessare «ogni incentivo alla produzione dei beni di consumo, essendo dono gratuito di natura l’unico bene riconosciuto e durevole […]. Unico grande bisogno sarebbe quello di accoppiarsi, di scoprire le centosettantacinque possibilità di incastro realizzabili fra l’uomo e la donna, ed inventarne ancora […]».      
Il brano è tra i più iconici[6] e si conclude, attraversando una precognizione dell’utopia (vedremo), con un’«eiaculazione ritardatissima sulla paltrona padronale del padrone Timber Jack», cioè Giangiacomo Feltrinelli.[7]              
A parte l’attacco personale, torniamo al cap. X, quello del Gesù-conferenziere, perché Bianciardi oppone i miracoli “veri” a un fenomeno «che i più chiamano miracoloso». Qualche riga indietro leggiamo l’incipit:

Lo so, direte che questa è la storia di una nevrosi, la cartella clinica di un’ostrica malata che però non riesce nemmeno a fabbricare la perla. Direte che se finora non mi hanno mangiato le formiche, di che mi lagno, perché vado chiacchierando? È vero, e di mio ci aggiungo che questa è a dir parecchio una storia mediana e mediocre, che tutto sommato io non me la passo peggio di tanti altri che gonfiano e stanno zitti. Eppure proprio perché mediocre a me sembra che valeva la pena di raccontarla. Proprio perché questa storia è intessuta di sentimenti e di fatti già inquadrati dagli studiosi, dagli storici sociologi economisti, entro un fenomeno individuato, preciso ed etichettato. Cioè il miracolo italiano.

Più avanti, Luciano sogna ad occhi aperti e descrive, come un profeta, in un brano che ha il ritmo della poesia (e ricorda vagamente l’Urlo di Allen Ginzberg, che Bianciardi tradusse per l’Antologia del 1961 di Guanda Narratori della generazione alienata), il suo, per l’appunto, «neocristianesimo a sfondo disattivistico e copulatorio»:

No, Tacconi, ora so che non basta sganasciare la dirigenza politico-economicosocial-divertentistica italiana. La rivoluzione deve cominciare da ben più lontano, deve cominciare in interiore homine.         
Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha.     
La rinunzia sarà graduale, […].

Un disegno utopico, o forse sarebbe meglio dire: ucronico (dal momento che non è un non-luogo ma un non-tempo), con caratteristiche, anche, ecologiche: rinuncia al consumo, desiderio di inattività, economia del “donativo”, sussistenza tramite i frutti spontanei. Nell’attesa che ciò avvenga, che la civiltà moderna collassi progressivamente, però, conclude, «io debbo difendermi e sopravvivere».            
Il miracolo è proprio l’idea-collante tra «neocristianesimo», slavoro ed eros. Ma da dove viene?

3.

I Tropici di Henry Miller escono nella traduzione di Luciano Bianciardi per Feltrinelli nel 1962, qualche mese prima di La vita agra. L’influenza della prosa milleriana, è noto, su Bianciardi fu importante, sia a livello macrotestuale sia microtestuale, un vero e proprio «tornado stilistico e psicologico», come sottolinea Michele Maiolani in un suo saggio[8]. Penso che la centralità del “miracolo” venga da qui, e così la sua ambiguità, tra escatologia e scatologia.    
In Tropico del Cancro, Henry Miller – dopo aver raccontato l’avventura di un monaco che, non conoscendo a cosa servisse il bidet, ci caca dentro poco prima di accogliere una escort in camera – scrive:

E così io penso che miracolo sarebbe se questo miracolo che l’uomo aspetta in eterno si dimostrasse non essere altro che quei due stronzi enormi che il fedele discepolo molla nel bidet. E che, se all’ultimo momento, quando il tavolo del banchetto è imbandito, e strepitano i cembali, comparisse all’improvviso, del tutto e senza avviso, un vassoio d’argento su cui persino un cieco vedesse che non c’è niente più, e niente meno, di enormi pezzi di merda. Questo, io credo, sarebbe più miracoloso di ogni e qualsiasi cosa l’uomo abbia mai desiderato. Sarebbe miracoloso proprio perché nessuno mai avrebbe potuto sognarselo. Sarebbe più miracoloso del sogno più pazzo perché chiunque potrebbe immaginarne la possibilità, ma nessuno l’ha mai immaginata, né probabilmente la immaginerà mai più.

Ora, a parte il facile link freudiano dell’anale, di miracoloso nei Tropici, continuamente inimmaginabile, c’è soprattutto l’eros.      
Bianciardi aveva già ribaltato (tradotto) i Beat e gli Angry Young Men (Narratori della generazione alienata); I sotterranei di Jack Kerouac (Feltrinelli, 1960)[9]; Arte e oltraggio. Dibattito epistolare fra Henry Miller, Lawrence Durrell, Alfred Perlès (Feltrinelli, 1961); nonché una serie di libri di divulgazione psicologica o scientifica in tema. Era uscito, infatti, Il peripatetico (1961), un racconto-passeggiata tutto volto alla ricerca dell’happy ending.   
Miller e i suoi Tropici furono la goccia. Da quel momento, l’oltranza erotica è fisiologica alla scrittura bianciardiana. Ne fa un’ossessione che culmina, dopo I sessuofili (1963), con il racconto La solita zuppa (1965)[10], dove il mondo si rovescia.[11]

4.

Il racconto La solita zuppa è costruito su un’ipotesi semplice: esiste un universo parallelo in cui il sesso non è tabù, lo è il cibo. Tutti sono tenuti a scegliere un cibo da mangiare per tutta la vita. Il protagonista ha scelto, per esempio, a diciotto anni il semolino. L’eccezione è solo per i ricchi, dal momento che hanno o la possibilità di scegliere cibi pregiati, come «l’aragosta o i capperi», oppure, «sempre chi ha i mezzi, ottenere dalla Sacra Rota l’annullamento alimentare». Lo sproloquio finisce con un evangelico: «Andate e concimate la terra».

Capite che l’obiettivo parodico non è soltanto il comune senso del pudore o il matrimonio[12], ma anche o soprattutto le logiche capitalistiche.
Rovesciare, attraverso l’eros, l’immaginario del capitalismo:

Pochi passi e mi fermai davanti alla vetrina del Callipigia, accanto a una signora col suo bambino.
Il piccolo si masturbava, fissando coi suoi begli occhioni celesti la fila delle natiche esposte in vetrina. Gli carezzai i capelli.       
“Che bel bambino” dissi rivolto alla madre. “E anche bravo. Sembra proprio un ometto.”    
“Sì,” rispose la signora “siamo proprio contenti di lui. Pensi, vorrebbe già entrare e scegliere. A sei anni.” 
“Va a scuola?” chiesi.      
“Sì, e anche la maestra è tanto contenta di lui. Nell’ora di masturbazione è il migliore di tutti.”     
“Beata lei, signora. Il mio invece,” e qui trassi un gran sospirone “il mio bisogna pregarlo, minacciarlo, masturbarlo con le nostre mani. È una disperazione. Non se le vuole fare, mai. La mamma è preoccupata, dovremo chiamare il medico, fargli prendere una curetta. Il suo… prende qualcosa?”           

Ovviamente, Bianciardi andò a processo per oltraggio. Ma non per le numerose scene ostinatamente erotiche. Per aver, invece, alluso, con una capriola, alla natura orgiastica del miracolo e di tutta la parola di Dio, riprendendo la natura millenaria del tabù:

Sia il Frobenius sia il De Martino lo farebbero risalire alla carenza di cibo dopo la glaciazione, che fece estinguere piante e animali. E l’uomo, che vedeva attorno a sé ricrescere la fauna e la flora, conserverebbe il “trauma” del pericolo:     
Così il cannibalismo fu bandito, e a poco a poco dal cannibalismo l’interdizione si estese a tutta la sfera alimentare. Mangiare diventò peccato, anzi delitto contro la propria specie. […]       
Una prima rivoluzione contro il tabù è contenuta, in germe, nel cristianesimo primitivo. […] A scuola di catechismo si insegna, per esempio, che Gesù compì il miracolo di moltiplicare i membri, che non bastavano a tutta la folla adunata per sentire la sua predicazione. In questo caso ci si è fatti forte del doppio significato che la parola pesce ha […]. La verità è che il Salvatore moltiplicò dei veri e propri pesci, e quella turba ne mangiò liberamente, abbondantemente.          
[…]
L’ultimo incontro di Gesù con gli apostoli, che gli esegeti vogliono farci passare per un convegno omofilo, fu in realtà un’orgia alimentare, nella quale si rievocava, simbolicamente, il tabù del cannibalismo. […] “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo”.

Ora, il processo lo vinse[13]. Un miracolo? No: perché non dovette menare le mani.

5.

Abbiamo già visto Da Quarto a Torino (Feltrinelli, 1960), per il long shot su Giuseppe Garibaldi padre di Gesù mandato da Dio. Non mi sembra di aver detto, però, che anche in questo romanzo ricorre spesso la parola “miracolo”: per indicare la spedizione dei Mille[14], per riassumere le tante vittorie, addirittura per descrivere l’abbigliamento del Re. Ma Bianciardi amava il Risorgimento – fin da quando il padre gli aveva donato I mille di Giuseppe Bandi (che nel 1955 annotò pure, per Franco Parenti)[15] –: non ha alcun senso che considerasse “miracoloso”, romanticamente, il movimento che portò all’Unità d’Italia.    
Del resto, abbiamo visto come la parola, da Miller in su, passando per il «neocristianesimo a sfondo disattivistico e copulatorio» e il Boom, non significhi più (o soltanto) l’evento straordinario. Significa piuttosto l’inimmaginabile ordinario. Forse è a questo che servono narrazioni eroiche, l’epos ottocentesco.

Mi spiego meglio. A fianco alle sperimentazioni ucroniche e parodiche in forma breve, Bianciardi scrive La battaglia soda (Rizzoli, 1964), il primo dei romanzi crocevia o “a forcella”[16], in cui mescola le linee temporali ottocentesche e novecentesche. Manca qualcosa però, ed è il Sessantotto: la discronia torna in numerosi articoli, in alcuni racconti (Exodus, per esempio), tra entusiasmo e disillusione politica, e infine in due romanzi antistorici: Daghela avanti un passo! (Bietti, 1969), e, soprattutto, Aprire il fuoco (Rizzoli, 1969)[17].        

In Aprire il fuoco il protagonista è in autoesilio a Nesci (in verità: Rapallo, in Liguria, dove Bianciardi con la compagna e il figlio si era trasferito nella seconda metà degli anni Sessanta). Viaggia in direzione di Milano ogni tanto, in incognito, per consegnare i frutti del «diurno battonaggio», le traduzioni.    
Vive la routine dello sconfitto, aspettando segnali dal mare, con qualche processo pendente e qualche acciacco. Le noie (qui il salto dalla cornice al racconto) sono strascichi dall’anno domini 1958, quando, senza occupazione, aveva accettato di lavorare come tutore nella casa di una contessa, che gli lasciava completa libertà nella scelta «dei metodi di insegnamento e degli orari». Perciò, quando scoppia la guerriglia, trovandosi nel mezzo del conflitto, il protagonista si porta Emilio, Giovanni ed Enrico con sé.
Sono le Cinque Giornate di Milano ambientate però nel Novecento, con atmosfera sessantottina[18]: l’obiettivo è liberare l’Italia dal giogo dell’impero austroungarico e dal suo leader Adolf Hitler.   

Ora: a parte il sorriso nel vedere Carlo Cattaneo fumare di fronte alla TV, il romanzo sta tutto nella continua sovrapposizione di due epoche che fanno detonare praticamente tutto. Il protagonista, pur partecipando attivamente, è soprattutto un pedagogo, colui che insegna agli alunni come fare una barricata facendola, cosa lanciare e come dalle finestre tirando giù olio bollente, e spiegando perché mai un esercito regolare dovrebbe perdere contro dei comuni cittadini sconfiggendo proprio le truppe austriache.[19]        
La storia è già scritta, però, e la riscrittura non può che confermarla. Il protagonista, nella cornice di chiusura, si rivolge, senza badare all’ucronia, agli stessi giovani che hanno fatto il Sessantotto e fallito. Sarebbe bastato, dice, occupare le banche, non le università o le scuole, ma le banche. E infine, fuori dalla cornice (in una rottura metadiscorsiva inedita), pone un avviso:

Nel marzo del 1959 successero a Milano parecchie cose, ma non vi fu alcuna insurrezione armata di popolo. I giornali dell’epoca me ne danno conferma. Ciò vuol dire che i fatti raccontati in questo libro sono un’invenzione. Purtroppo sì.

Dicendo «Purtroppo sì» Bianciardi non biasima nessuno se non sé stesso, ora che ci penso. Nel 1959 viveva lui a Milano, aveva lui lasciato Grosseto per cercare di riscattare gli operai della Montecatini, lui si scatenava sull’ipocrisia dell’industria culturale e sugli intellettuali, lui non credeva al partito né ad alcuna organizzazione, lui cominciava a essere ingurgitato dalle rate da pagare, dal lavoro alla catena, poi dal successo
Ritrovo un appunto dai Diari Universitari, datato Grosseto – Maggio 1942:

Non c’è moralità senza un forte sentimento che ci sia legge e sprone, e non c’è moralità senza attivo intervento nella prassi. Se un giorno morirò, lacero e sporco, vero Cristo delle barricate, tu sarai nel mio cuore ed io invocherò soltanto il tuo nome.

La distanza tra l’io autofinzionale, irriducibile militante, e l’io reale, ridotto dal sistema, è la più profonda ferita di Bianciardi. Si immaginava come un «Cristo delle barricate», un ossimoro! Un’impossibile unione di privato e pubblico.

6.

Un anno dopo la morte, nel 1972, esce Garibaldi, una biografia romanzata dell’eroe del Risorgimento italiano. È una storia anche umana, costretto com’è Garibaldi sempre ad andare via, a combattere guerre non sue, in attesa del momento giusto, che arriva. Finalmente, dopo anni in Sudamerica (dove pure ha conosciuto l’amore), può tornare alla «terra promessa, che tanto amo e che mi sfugge e mi bandisce come reprobo» e condurre la famosa spedizione dei Mille, quella che ha chiamato, tante volte, miracolo. Eppure, dopo l’entusiasmo:

Il “miracolo” dell’unità d’Italia era avvenuto, ma si trattava di un’unità raggiunta con l’intrigo e con la forza. Il paese restava profondamente diviso, e in qualche misura continua a esserlo ancora oggi. È una faccenda che preferiamo chiamare “questione meridionale”.

Le virgolette. Quando Garibaldi prova a lasciare il testimone, ad autoesiliarsi sull’isola di Caprera, quando cerca un po’ di pace, tutto precipita. Vi ricorda qualcuno? Non si può dismettere la lotta. Non a caso, la frase maggiormente ripetuta nel libro è “menare le mani”.    

Bianciardi riconosce la centralità della violenza (ma come violenza creatrice di diritto, à la Walter Benjamin), e il fatto che, come scrive Henry Miller citando Cristo in Arte e oltraggio, la violenza sia intimamente legata alla verità:

Se io allora sapessi quel che poi sono giunto a sapere con certezza, è altro problema: cioè, le parole di Gesù, che la verità ti farà libero. Se solo mi fossi limitato a dire la verità su me medesimo, sarebbe andata bene. Ma io volevo dire anche la verità sugli altri, sul mondo. E questa è la trappola peggiore: ti pone al di sopra degli altri, se non esattamente al disopra del mondo. Più volte io cerco di buttarmi giù. Tutti voi sapete come vaneggio e smanio. C’è sempre una parte di verità in queste esplosioni, certo, ma quanto è caricaturale!         
Eppure io sento che la verità si lega alla violenza. La verità è la spada nuda: taglia netto. E cos’è che combattiamo, noi che tanto amiamo la verità? La menzogna del mondo, la menzogna eterna. Ma ecco che torno a deviare…

Miller vede la trappola, cerca il disinnesco. Il “miracolo” è, mi correggo, non l’inimmaginabile ordinario, ma l’inimmaginato. Quando si guarda all’effetto e si rimuove la causa.         
Il capitalismo funziona così. Rimuove la produzione, espone la merce. Il privilegio, distribuito casualmente come i talenti, oscura la vista. Bianciardi, che è profetico davvero, liberatosi dalla parresia, cioè dal diritto-dovere di dire la verità, vuole far vedere, insegnare che la rivoluzione è possibile, nonostante parlasse da sconfitto. Che cos’è, d’altro canto, il Risorgimento se non una rivoluzione? Considerarlo diversamente, dal momento che il risultato fu un’Italia monarchica e divisa, è il frutto di una storia raccontata dalla parte del privilegio.   

Per molti rimaneva e rimane inspiegabile, al di là dell’influenza paterna, che un irregolare, un anarchico come lui avesse dedicato al Risorgimento così tanta energia. Ma sono libri divulgativi, spesso didattici, sempre sul filo tra il Bianciardi “autore”, espressivo, e il Bianciardi “pedagogo”, comunicativo.
Lasciamo perdere i “miracoli”, scrive dovunque. Dietro Gesù c’erano i discepoli e chissà quanti altri uomini e quante altre donne, se il catering non ha fatto rimanere nessuno a bocca asciutta. Dietro Garibaldi c’erano mille uomini, e più. Dietro il Boom ci sono i metalmeccanici, e via discorrendo.
La rivoluzione può funzionare solo se non finisce mai. Se non si abbassa mai la guardia, se si fa lo sciopero generale, se si sfila ognuno con i propri problemi, i propri simboli, insieme.

Per Bianciardi, però, non è destino: Il discidium, la divisione psicologica tra il personaggio letterario e sé è troppo grande, forze non ce ne sono più. La sua guerra l’ha perduta tanto tempo prima, i minatori di Ribolla rimangono senza riscatto. Il destino lo ha reso il Garibaldi della fantasia, dell’immaginario.     
In un articolo del 1969, E se la rivoluzione fosse già scoppiata?, pubblicato su «Kent», Bianciardi, scrive:

Perché […] la rivoluzione è innanzi tutto un modo di coscienza, un atteggiamento mentale, un porsi di fronte alla vita. […]   
La donna succitata, che con me vive volontariamente […] piangeva, badi bene, mentre ci congiungevamo carnalmente. […] Piangeva perché ha capito che bisogna fare anche noi la rivoluzione. Chi non fa la rivoluzione non è un uomo (una donna, anche) libero. Per essere libero occorre fare la ribellione, contro l’autorità, e la rivoluzione, contro l’ordine sociale intero; bisogna in un primo tempo sottrarsi e sfuggire alla potenza, in un secondo tempo rovesciarla e distruggerla, scuotere il giogo prima, poi spezzarlo. È così. […] Prima ancora che le armi, prima ancora – guardate bene – che le idee, son le trovate fantastiche quelle che vincono. Personalmente io conosco abbastanza bene una rivoluzione, quella dei milanesi del ’48 (ottocento, badiamo bene, non novecento). […] Ebbene, i milanesi, che una volta ogni secolo fanno la rivoluzione, in quelle cinque giornate del quarantotto buttarono fuori da Milano quindicimila armati fino ai denti. Grazie alla immaginazione, alla fantasia. […]
La fantasia prese il potere, quella volta a Milano. […] Pare che vi fossero pubblici accoppiamenti nei giardini e nei parchi, verso mezzogiorno, ma questo non è del tutto sicuro, può anche essere che il Bianciardi abbia raccontato qualche balla. […]. Ma la rivoluzione, ripeto, più e oltre che dalle notizie della cronaca, la si intuisce da uno spostamento interiore, spostamento che sarebbe impossibile in una temperie normale. Lo spostamento è improvviso: una mattina tu ti alzi e tutto è differente. È differente la tua donna, differenti i tuoi figli, differente il prossimo. No, non sono cambiati loro, sei cambiato tu. Il mondo è capovolto. Tu ti metti a piangere per il dissesto, giuri che non bisogna più lavorare, hai capito che per decenni ti han fatto mangiare la cacca, dandoti pacche sulle spalle e dicendoti, come a un bambino: bravo, bravo. Decidi che non ne mangerai più, che non è degno, né di te né di loro. Decidi di fare qualcosa che danneggi, inceppi, logori il sistema. Hai anche cominciato a capire quali sono gli atti che non servono. Per esempio, sai che non serve a nulla scrivere libri. Puoi metterci dentro tutto quello che vuoi, anche la dinamite (verbale), nei libri, ma non appena li hai scritti essi vengono stampati e venduti, e quanto più credi di essere stato cattivo, tanto più gli altri ti dicono bravo. E ti vendono. No, gli atti rivoluzionari son sempre di segno negativo. […]
Chi può, tiri le bombe. Chi non può, pianga e neghi, oppure rida e neghi. La rivoluzione si fa in mille modi, purché sia contro il sistema. Purché, una volta distrutto il potere, non lo sostituisca con un potere nuovo. No, l’unica salvezza, per la rivoluzione, sta nel non cessare mai. L’unica rivoluzione possibile, insomma, è la rivoluzione permanente. […] Sì, la rivoluzione è già scoppiata. Facciamo in modo che duri eterna.


[1] Per comprendere il “mito” di Grosseto come periferia “americana”, dunque meticcia e culturalmente vivace, si legga la serie di articoli La periferia permanente di Simone Giusti.

[2] Bianciardi tradusse, in meno di vent’anni, oltre centoventi libri. Un approfondimento di Flavio Santi su Treccani: Traduco, traduco, traduco”: Luciano Bianciardi traduttore tra ispirazione e ossessione.

[3] Nel n. 6 della rivista «Il Maradagàl» (Marco Saya, 2021), ho scritto un pezzo che approfondisce il non-rapporto tra Bianciardi e Ottieri: «Traversai di corsa / il tropico di Milano». Sulla non-corrispondenza tra Ottieri e Bianciardi (con una minuta inedita).

[4] Nella Lettera da Milano, pubblicata su Il Contemporaneo nel 1955, Bianciardi canzona la città e soprattutto lamenta l’assenza della classe operaia, dunque l’impossibilità di una lotta di classe. Un problema che diventerà centrale anche in La vita agra.

[5] Sì, Bianciardi lesse Eros e Civiltà di Herbert Marcuse, uscito in Italia nel 1955 (e ripubblicato da Einaudi nel 1964). Teniamolo pure a mente.

[6] Le stesse cose le ha dette Franco Fortini, ma meglio, in Eros e Letteratura, dentro Verifica dei poteri: «Per aversi una “ragionevolezza” dell’eros che non fosse cinismo sarebbe necessario che la morale erotica apparisse alla luce del giorno e si integrasse, o cominciasse ad integrarsi, al mondo del nonerotismo, cioè della produzione e del lavoro. Invece avviene soltanto il contrario: che la «ragionevolezza» produttiva determina (e sempre più deforma) l’erotica».

[7] In alcune sue parti, il brano viene trasposto parola per parola nel film, in una scena ambientata al pub tra una canzone di Jannacci e l’altra (guardala qui). Del 1964 – regia di Carlo Lizzani, protagonisti Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli – la pellicola dà un’ulteriore conferma del successo del romanzo; successo significa, naturalmente, assimilazione culturale. Per approfondire: Note su Luciano Bianciardi e il Cinema – La sequenza di Kerenskij, su Birdmen Magazine.

[8] Dai Tropici alla Vita agra: Miller e Bianciardi, in «Esperienze Letterarie», n. 2 – XLII, 2017, pp. 53-76. Il saggio di Michele Maiolani si inserisce in una serie numerosa di interventi, su tutti: l’importante La fatica di un uomo solo. Sondaggi nell’opera di Luciano Bianciardi traduttore di A. De Nicola; Sulle tracce di Enrico Molinari (da New York) di N. Turi; e La vita agra: rimorso e rinuncia di un traduttore dis-onesto di B. Marras.

[9] Firmati anonimamente, per un litigio con Fernanda Pivano, e prefati dallo stesso Miller.

[10] Potete leggere il racconto sul sito Strade Bianche, che raccoglie le versioni digitali di molti libri di Stampa Alternativa.

[11] Per dare una misura della complessità del tema, cito en passant: Il complesso di Loth (1968) , racconto nel quale il sesso si erotizza attraverso la fotografia (Vi ricorda qualcosa? A me Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, del 1970. Comunque, fu trasposto da Pasquale Festa Campanile: Il merlo maschio, del 1971, nel quale Bianciardi recitò pure); Il prete lungo (1971), nel quale si rafforza la linea tra cristianesimo ed eros (è, sostanzialmente, la storia di un prete che riceve blowjob), Il ritiro (1971), nel quale è un calciatore dongiovanni.

[12] A entrambi i temi dedicò numerosi articoli, alcuni celebri come Una lettera di Luciano Bianciardi, su Kent nel 1968; e Abbiamo il divorzio aboliamo il matrimonio, su AZ del 1971.

[13] ExCogita, casa editrice diretta da Luciana Bianciardi, ha appena pubblicato Imputati tutti. “La solita zuppa”: Luciano Bianciardi a processo.

[14] «La storiografia ufficiale (quella che per successivi filtri si è travasata nei libri delle scuole, e cioè l’unica che per l’italiano medio conti qualcosa) ci rappresenta il Risorgimento come una specie di miracolo, non soltanto politico e militare, ma anche psicologico […]».

[15] Giuseppe Bandi, I Mille. Da Genova a Capua, prefazione di Arnaldo Frateili, note di Luciano Bianciardi, (Parenti, 1955). Ripubblicato da Stampa Alternativa nel 2009 con la prefazione di Ettore Bianciardi.

[16] Ne parlo qui su Treccani, Generi, lingua e stile in Luciano Bianciardi. La lingua come dis-integrazione.

[17] Un mio approfondimento per Treccani, Una ucronia linguistica e morale: Aprire il fuoco di Luciano Bianciardi.

[18] La natura sessantottina delle rivolte si basa sulla particolarissima idea, tutta bianciardiana, che la liberazione sessuale, in Italia, sia cominciata proprio a Milano durante le Cinque Giornate. Come? Beh, per il quadro di Carlo Stragliati conservato nel Museo del Risorgimento, nel quartiere di Brera, che ritrae due donne in corpetto (per l’epoca praticamente nude) che sventolano il tricolore.

[19] Il gioco ulteriore, il cortocircuito, è che, come per tanti altri suoi libri, Bianciardi usa come sottotesto i Ricordi di Gioventù. Cose vedute o sapute (1904) di Giovanni Visconti Venosta; l’alunno di mezzo in Aprire il fuoco.


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