Muovendo dalla celebre e azzeccata definizione di “tradizionalista impazzito” affibbiata da Montale a Carlo Emilio Gadda, Tommaso Landolfi auspicava, con beffarda convinzione, «tra tanti savi ed accorti antitradizionalisti, addirittura una scuola letteraria dei Tradizionalisti Impazziti» (l’elzeviro si legge ora in Del meno). Di contro ai “savi ed accorti antitradizionalisti”, i “tradizionalisti impazziti” si spartiscono province del reame letterario in apparenza più tranquille e frequentate per sovvertirne codici e linguaggi, armati di profonda consapevolezza iper e metaletteraria. Un’altra caratteristica comune a più “tradizionalisti impazziti” è poi una predilezione per i filtri stilistici dell’ironia (anche tragica), della parodia o dello straniamento, che ciascuno di loro adopera in maniera peculiare. Così, il raro riso dell’Ingegnere è quello burbero e insofferente di chi, per domare un caos mai sazio di mostruosità, si ritrova costretto a manipolare la lingua, a farne artiglieria pesante, mentre la risata spettrale del conte di Pico (dove era ubicata la dimora avita della famiglia Landolfi) è quella di un «appassionato di nulla» (da una lirica del Tradimento) che ha letto tutti i libri e considera la “realtà” come affastellamento di banali mostruosità, oppure alla stregua di un disgustoso fantasma con futili pretese di esistenza.

Di un genere ancora diverso, è invece l’elegiaca e insieme liberatoria risata di un altro “tradizionalista impazzito”. Grazie al sempre eccellente lavoro dell’editore Terrarossa, è infatti ricomparso da qualche anno sul proscenio della narrativa Ezio Sinigaglia (Milano, 1948). Per più di un verso, Sinigaglia somiglia ad un pittore che si acquatta nella muffita pinacoteca degli affreschi realistici per riaccendere antichi e nuovi fasti, oppure ad un «grande prestigiatore» della lingua che «accarezza la divinità dei dettagli» (cito dalle Lezioni di letteratura di Vladimir Nabokov). Proprio l’anno scorso, Sinigaglia ha pubblicato il primo volume del dittico Fifty-fifty, Warum e le avventure Conerotiche (per cui rimando all’ottima recensione di Alice de Gregoriis), ora completato con questo secondo e non meno pregevole capitolo, Sant’Aram nel Regno di Marte.

Il protagonista è sempre Aram/Warum che «succhia gioia anche dai muri» e trasforma la realtà secondo il principio del nomen-omen o del ribaltamento. Lo sforzo di “risemantizzazione” si configura così come atto di «guerra contro i cliché» (la definizione è di Martin Amis, che così interpreta l’essenza dello sforzo letterario) e come espressione di profondo interesse, di un amore vivido e partecipe per i destini individuali, per quelle storie che camminano sotto l’ingombrante epiteto di “persone”. Non a caso, in Sinigaglia l’ironia anche mordace (come quella rivolta, all’inizio del romanzo, contro il macabro sensazionalismo dell’informazione) fa spesso coppia con piene di lirismo incanalate in un periodare immaginifico e cristallino: la gioia di una danza sotto la pioggia, le proustiane intermittenze del cuore (che concentrano la memoria a tal punto da dilatare i confini temporali ed emozionali del ricordo) o il trasporto struggente di una composizione per piano e flauto traverso:

Sul pianoforte, a flauto muto, prendono a correre a un tratto scale cromatiche irrascibili, e insieme dubitanti, discendenti, che retrocedono quattro passi avanti e sei indietro. Sopra questo tessuto di Penelope, ad un tratto, il flauto (…) comincia dal nulla a ricamare, con virtù sbalorditiva, il tema dell’andantino della grande Sonata in la maggiore del divino Schubert. (…) È un tema di ninna-nanna, do barcarola, dolce e malinconico, un tema che mi culla a un ritmo che, per una culla, è troppo. Foriero di tempeste. Ed eccola la tempesta. Dalla tastiera erompono dei cluster così enormi da troncare ogni rapporto tra il neonato e la su’mamma. Il flauto ne è zittito. Azzarda ancora, timido, esitante, quelle malinconiche dolcezze di berceuse. Niente.

Aram (come indica il soprannome, Warum, che gli affibia l’amato Stefano, a propria volta soprannominato Fifì, da fifty-fifty, a simboleggiare la natura ambigua e indecisa del personaggio, che ama Aram ma non vuole abbandonarsi a lui) sembra poi costantemente alla ricerca dell’intimo “perché” che fa di un uomo quello che è, del dettaglio che lo rivela oltre le facili e sempre errate congetture e lo inscrive nelle infinite orbite, sublimi e ridicole, del desiderio, vero motore propulsivo dell’opera di Sinigaglia.

E così, se nel primo volume Aram era divorato dai warum? che riguardavano (e tuttora riguardano) la natura bipartita di Fifì e ricordava ogni dettaglio con precisione millimetrica, questa volta si ritrova costretto a ripercorrere a ritroso la propria turbinante esistenza di giovane “collezionista di amanti” («collezionare amanti è un’attività per sua natura inverosimile e inattuabile (…) a causa dell’irreperibilità dei pezzi già acquisiti. Si tratta, in ultima analisi, di un procedimento di sottrazione anziché di addizione. Di un’infinita e infinibile raccolta di mancanze») per mettervi ordine.

È infatti proprio l’inatteso incontro con l’ex brigadiere Cioffi/Sciofì (prima chauffeur del sottotenente Aram durante la naia e ora idraulico chiamato d’urgenza per aggiustare un lavandino) a riportare Aram ai tempi del Regno di Marte, vale a dire del servizio militare svolto tra Palmanova e la polveriera del monte Tarvisio. Là si è consumata la breve ma indelebile passione per Aram dell’ingenuo e ardente Sciofì, doppio speculare di Fifì, così come il Tarvisio diviene doppio del promontorio pugliese, “conerotico”, ma casto, del primo volume etc. Sinigaglia allestisce fin dall’inizio un continuo gioco di specchi e scambi e lo gestisce con suadente leggerezza, senza mai ammiccare ad intricati ed infondo triti schematismi traboccanti di esplicite ed implicite note a piè pagina.

Le avventure Conerotiche, infatti, è il romanzo del perpetuo vagheggiamento, dello “spirito” inteso sia come spettro romantico, sia come attributo dell’intelligenza che parla per sottintesi, dell’arsura inconsumata, il romanzo della privazione-procrastinazione e delle «follie leggere, diffuse, brumose, (…) in un corpo troppo caldo e ardente» (per dirla con il Foucault di Follia e discorso), cioè quello di Fifì che in pubblico dissimula ma rimane irraggiungibile quando gli amanti restano soli. Al contrario, Il regno di Marte si caratterizza come «il libero sfogo del parossismo sessuale» (per completare la citazione foucaultiana), come la celebrazione (pirotecnica ma insieme elegiaca, perché irrecuperabile) della sovrabbondanza vitale, di un tempo sospeso e assoluto che occorre rimembrare prima che sia troppo tardi, del culmine gioioso e già declinante della giovinezza verso l’età adulta, del travolgente e mai prima esperito amore del candido Sciofì, che nulla sa nascondere e arrossisce della sua fin troppo nominabile passione.

È sotto questo segno che si può leggere anche la straordinaria trasformazione che Sinigaglia opera trasformando l’idiozia bellicista della naia in un tripudio di dolcezze, premure (il caffè al mattino, la sveglia con le carezze prima della diana, orari dei turni particolarmente flessibili), attenzioni individualizzate (in virtù delle quali viene ribattezzato “santo” dal suo piccolo plotone), beffarda insubordinazione ai superiori e fiumi di erotismo omoerotico. Aram ribalta così quella che dovrebbe essere un’insensata preparazione all’eventuale morte in guerra in una gioiosa iniziazione alla vita per un nutrito gruppo di giovani provenienti da tutt’Italia. Aram/Sinigaglia li chiama a raccolta e li ritrae in veri e propri cammei psicologici e linguistici, riproducendo in perfetta trascrizione fonetica e con ampio sfoggio di accezioni idiomatiche i dialetti di mezza penisola. Sono adolescenti e giovani in bilico tra spavalderia e ingenuità, degni comprimari degli Agostino, Ernesto, Arturo che popolano la nostra grande letteratura del secolo scorso. Sinigaglia li inchiostra sulla carta alternando sapientemente il luogo comune alla rivelazione inaspettata. É così, ad esempio, per il torvo e selvaggio siciliano Fair Play, che tuttavia si rivela un ragazzo di una squisita correttezza, o per il romano Pisolo, trombettista sfaticato che diventa insonne per amore. Sembra quasi, complice il già menzionato tono sentimentale-reminescente del narratore, che Sinigaglia voglia erigere un contro monumento, accorato ed anti-epico, a tutti i giovani e giovanissimi che la follia della guerra ha disfatto, offrendo uno dei doni in dote alla letteratura: un se immaginato, un’alternativa (im)possibile che ricordi cosa sarebbe potuto essere e non è stato.

L’uggia e la tragedia fanno comunque irruzione nel mondo dorato costruito da Aram, nelle amare riflessioni sull’umana insipienza, nell’ottusità di certi militari di carriera e soprattutto con la notizia inaspettata di una morte prematura che sarà la causa prima dell’incontro tra Aram e Sciofì. Una volta conclusa la parentesi del servizio militare, il girotondo dei piccoli fanti è servito al narratore per confondere le acque in maniera poco nobile, per sotterrare il proprio amour fou e provare a dimenticarlo insieme ad altri incontri meno significativi. Ma dal fondo della memoria, Sciofì è riapparso e Fifì sente minacciato il proprio primato nel cuore di Aram. Sinigaglia orchestra un finale “enigmistico” sotto forma di un criptico indovinello dettato da una cieca gelosia e celebra il potere affabulatorio della letteratura con uno scioglimento all’altezza di questo tour de force di cinquecento pagine (sommando i due volumi del dittico). In conclusione, sulla scorta della bipartizione interna di Aram (non solo bisessuale, ma scisso tra il perpetuo warum? ironico-razionale e un’insaziabile fame di vita che si fa poche domande) e di quella (ma ne siamo sicuri?) che divide il suo cuore tra gli speculari ma non troppo Fifì e Sciofì, l’intero Fifty-fifty si potrebbe definire come una polifonia del Sé desiderante, parafrasando la celebre definizione di Bachtin e applicandola alla pluralità di voci e fantasmi che abitano uno stesso individuo quando ama.


Ezio Sinigaglia, Fifty-fifty. Sant’Arama nel Regno di Marte, Terrarossa Edizioni, 2022, 256pp. 15,50€