Non so in quanti abbiano sentito parlare di Alcide Pierantozzi prima di questa estate 2025 in cui il suo ultimo romanzo, Lo sbilico, edito Einaudi, sembra essere tra i più letti e recensiti.
Eppure l’autore quarantenne ha esordito giovanissimo, quasi vent’anni fa, con Uno in diviso, pubblicato da Hacca, cui hanno fatto seguito altri tre romanzi e un reportage, tutti dati alle stampe da case editrici di rispetto (Rizzoli, Bompiani, Laterza).
Viene dunque da chiedersi quale sia il potere dello Sbilico, perché abbia raggiunto tanti lettori, peraltro in modo piuttosto trasversale.
Nella mia esperienza da editor, là dove devo selezionare manoscritti di narrativa da proporre agli editori, tendo a dividerli in due macrocategorie: i romanzi “di trama” e i romanzi “di stile”. Qui, senza dubbio, rientriamo nella seconda.
Lavorando come libraia ho poi compreso che questa categoria è la più difficile da vendere, da proporre a lettori che troppo spesso chiedono solo una trama che li trasporti in mondi lontani e tematiche non troppo pesanti. E, di nuovo, la tematica attorno cui ruota Lo sbilico è ben lungi dall’essere leggera. Questo è un libro che ti inchioda a terra.
Perciò la domanda si pone ancora più insistente.
Ho provato a rifletterci.
Il romanzo di Pierantozzi non è certo “di trama”; tuttavia, come lo stesso autore ha sottolineato in diverse interviste, assenza di trama non significa assenza di una storia. E questa altro non è che la sua biografia o, forse meglio, la sua vita. È la potenza stessa dell’esistenza, della verità dell’esistenza, a dare carburante alle pagine sin dall’incipit di grande impatto: «A quarant’anni dormo ancora con mia madre» [p. 3].
Pierantozzi è (anche) un paziente psichiatrico. E il romanzo è il racconto del suo disturbo mentale. Non catalogabile di preciso ma comunque oscillante tra depressione, disturbo ossessivo compulsivo, psicosi, bipolarismo, il tutto retto su un sistema neurodivergente, Asperger.
«Non è un libro di autofiction», spiega l’autore nella Nota finale [p. 227]. Piuttosto una narrazione «in presa diretta», un «diario di bordo della malattia» che «racconta una verità molto spesso alterata dai farmaci e dai miei scompensi emotivi». Credo che “verità” sia una parola chiave per rispondere alla mia domanda, anche là dove si ammette che si tratta di una verità spesso alterata. Ma d’altronde chi di noi vive in una verità priva di alterazioni?
Lo sbilico è un libro sincero, di una sincerità così cristallina da essere a tratti disarmante. Una postura che, personalmente, tra gli autori italiani contemporanei ho incontrato soltanto in Vitaliano Trevisan. Ci troviamo al cospetto di scrittori puri, che ci hanno consegnato libri in cui l’esigenza della scrittura si avverte in modo viscerale. E per Trevisan sappiamo che prezzo ha avuto.
Questo donarsi senza indugio, il concedersi tutto intero a un pubblico pronto a cannibalizzarlo, credo sia un grande merito da riconoscere a Pierantozzi, cui auguro un destino molto diverso da quello di Trevisan, dato che si può intuire l’impatto che il baccano mediatico che si sta creando attorno al suo libro potrebbe avere sulla sua salute.
Gli auguro che, quando la prossima estate riceverà i rendiconti da parte dell’Einaudi, non debba «stemperare l’ansia» dell’attesa di sapere quante copie avrà venduto con «il tentativo di neutralizzare una fobia più piccola con un’altra di maggior formato», come quando, in attesa dell’ultimo rendiconto, pur consapevole di essere ipocondriaco decide di sottoporsi al test dell’HIV [p. 82]. Gli auguro insomma che il suo lavoro sia accolto da un numero sempre maggiore di lettori senza che questo sia fonte di ulteriori carichi di angoscia.
Penso tuttavia che ciò che importa davvero a Pierantozzi non sia tanto vendere. Credo che forse ciò che gli importa sia essere compreso. E ce la mette tutta per far sì che ciò accada, utilizzando due strumenti che aggiungono altrettanti tasselli alla risposta che sto provando a fornire alla mia domanda iniziale.
In primis, come gli ho sentito dire nel corso di un’intervista all’Indolente, Pierantozzi ha volutamente escluso dalla narrazione alcuni aspetti della sua vita, per esempio la sua vicenda di scrittore. E questo gli è servito per mettere sulla pagina un’esperienza “declinabile al plurale” in cui più persone si potessero riconoscere.
Interlocutori privilegiati sono gli altri pazienti psichiatrici che lo leggeranno, come esplicita in un’intervista a Rivistastudio: è soprattutto per loro che si sforza di descrivere come meglio può i meccanismi della psicosi. Ma la sensazione è che si stia rivolgendo a tutti noi, rappresentando una realtà che ci riguarda.
Che sia l’inadeguatezza del nostro sistema scolastico: non inclusivo, incapace di comprendere e accogliere, spesso aggressivo (tema quantomai attuale, che andrebbe costantemente discusso). Oppure il tedio del vivere in una provincia tanto lontana dal centro in cui tutto accade (qui Milano) quanto asfittica e caratterizzata dall’incomunicabilità (nel senso che non può esserci comunicazione, in alcuna direzione, tra il soggetto che si discosta dalla norma accettata e la cittadina abruzzese in cui è costretto ad abitare – ma potrebbe essere qualsiasi altra provincia). Oppure il sovraccarico sensoriale provocato dai decibel troppo alti di uno stabilimento balneare prepotente e fuorilegge (e qui, per chi si sia sentito intimamente toccato, rimando a quel pamphlet che è Il sopruso di Valerio Magrelli, autore più volte citato nel libro). Oppure ancora l’infanzia trascorsa in campagna, raccontata nella sezione “Apocalisse degli animali”, in cui ritroviamo elementi narrativi che riconducono a una forma di romanzo più tradizionale e dove gli animali da cortile – gatti, conigli, galline, maiali, topi… – muoiono senza tanti fronzoli davanti agli occhi di un passivo spettatore-bambino, così come ne avranno fatto esperienza i taluni cresciuti nell’Italia rurale.
E poi, indiretta, c’è l’esistenza di una famiglia che porta in seno un malato psichiatrico. Perché Lo sbilico è anche la storia della famiglia di Alcide: di sua madre, insieme malattia e argine della stessa; di suo padre, il Negazionista, soprannome che si guadagna per negare in toto la malattia del figlio; e dei suoi fratelli minori, il primo nato con gravi malformazioni e morto in fasce, e il secondo, Francesco, cui il libro è dedicato come un riconoscente omaggio. Quante famiglie Pierantozzi esistono? Quante potranno rispecchiarsi?
Per questo mi piacerebbe che Lo sbilico incontrasse più lettori possibile, a prescindere dalla mera critica letteraria e dalle storture del mercato editoriale. Ed è in quest’ottica che l’autore stesso lo definisce «un libro utilitaristico».
Nella narrativa contemporanea si annoverano diversi libri (non molti, devo dire, o almeno mi pare) che parlano dell’esperienza della malattia mentale in prima persona: dal Male oscuro di Giuseppe Berto (Rizzoli, 1964 – oggi edito da Neri Pozza), nel cui solco spesso Lo sbilico viene collocato, all’Altra verità di Alda Merini (Rizzoli, 1997), fino a certi titoli che trovano spazio nella collana 180 di Meltemi, per citarne alcuni; oppure che la ritraggono dal punto di vista dello spettatore diretto – si pensi alla produzione di Mario Tobino o al più recente Cartella clinica di Serena Vitale (uscito per Sellerio proprio nel maggio di quest’anno, in concomitanza con Lo sbilico) – o indiretto, magari relegandola a espediente narrativo come accade, per esempio, in Quello che so di te di Nadia Terranova (Guanda, 2025).
Lo Sbilico li travalica per la capacità di implicare il lettore. Alcide Pierantozzi ci consente di entrare nella sua testa e di assistere all’orrore allucinatorio, alle dispercezioni sensoriali, alle ossessioni. Ci dà modo di farci carne nella sua carne e di avvertire i devastanti effetti collaterali dei numerosi farmaci che quotidianamente deve assumere, quegli stessi effetti che riesce a tenere a bada soltanto attraverso un allenamento fisico intensivo, ossessivo, e che gli impediscono di vivere la sessualità come vorrebbe. Ci permette di vivere attraverso la parola, protetti dalla parola, la malattia incarnata nel suo corpo.
E qui viene il nodo più importante di questo libro: il linguaggio – il secondo di quegli strumenti di cui dicevo sopra e che Pierantozzi utilizzerebbe per raggiungere lo scopo ultimo di essere compreso.
La lingua di Pierantozzi è quantomai precisa. Nonostante possiamo pensare al linguaggio come a una menzogna – troppo soggettivo per essere davvero universale –, più la parola è precisa più ci consente di avvicinarci all’altro. Se siamo confusi, se parliamo in modo impreciso, è difficile che l’altro possa comprendere quanto vorremmo dire. Ma se ci soffermiamo, se facciamo ordine, se scegliamo con cura le parole, allora la distanza siderale che c’è tra un essere umano e l’altro si accorcia.
La poesia lo insegna. E Pierantozzi fa propria la lezione restituendo una lingua poetica: nel senso che, con la poesia, condivide l’affannosa ricerca del termine più esatto. Nel libro racconta per esempio come negli anni abbia compilato diversi lessicari che consulta in continuazione come indispensabili strumenti di lavoro, frutto di innumerevoli appunti di lettura e non solo. E il peso specifico di questo costante lavorio si avverte pagina dopo pagina.
Ma quanto può essere faticoso per un malato psichiatrico, colui che dal linguaggio è abitato (cito il Lacan del Seminario III) e per questo non può abitarlo come un nevrotico qualunque, fare ordine attraverso la parola, ingabbiare la realtà nel linguaggio, racchiudere la propria esperienza psichica nella gabbia tipografica? Quale lavoro immane ha compiuto lo scrittore per consegnare sé stesso in modo così chirurgico alle proprie pagine?
Non per niente, una riserva che mi ha colpito durante una chiacchierata tra lettori, si sofferma proprio su questo punto: questa scrittura è così bella, così elegante, così ben apparecchiata che non può essere la scrittura di un pazzo. Deve essere un’impostura.
Ma che ne sappiamo noi di come debba scrivere un pazzo? C’è una supponenza, in questa riserva, che va a sovvertire la citazione in esergo al libro, tratta dal film Joker di Todd Phillips: «La parte peggiore di avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che ti comporti come se non l’avessi». Aggiungerei, dunque, che la parte peggiore, forse, è che le persone si aspettano che ti comporti come credono debba comportarsi un malato mentale.
Polemizzare sulla scrittura di Pierantozzi significa non aver compreso Lo sbilico. Perché è proprio qui che l’autore racconta dell’impossibilità di scrivere in qualsiasi altra maniera, spiegando nel dettaglio il processo che sottende la sua scrittura, raccontando di come perlopiù la pagina si componga partendo da una singola parola, e di come la parola, il linguaggio, la scrittura siano l’ossessione, la malattia stessa (la vita stessa, aggiungerei).
In una delle scene madri del libro, le parole piovono letteralmente dal cielo sotto forma di piccoli dizionari. Da qui in poi la realtà cambia: la parola si rivela capace di irregimentare la massa magmatica della realtà. Il protagonista bambino inizia a incasellare all’interno di diversi significanti gli oggetti del mondo e allora una grondaia, se incasellata nel significante «gronda», distoglie «dalla risonanza lirica della grondaia in sé, della sua consistenza di lamiere, della sua forma sinusoidale altrimenti ingestibile per i miei sensi» (p. 133).
Eppure erano già arrivate le parole. In un tardo pomeriggio estivo del 1998, dopo un piovasco, un piccolo furgone bianco stava attraversando la soprelevata dell’A14 all’altezza di casa mia, quando qualcosa andò storto. […] Allora alzai il mento e vidi il retro del furgono finito col vano di carico aperto oltre il cordolo, dopo essersi schiantato. […] Dal vano posteriore proveniva un suono di oggetti sballottati, sfregati sul pianale […]
Erano libri.
Libri arancioni che cadevano nel vuoto, a una trentina di metri dalla mia testa, planavano sfogliandosi: fruscio di carta, una o due rotazioni nel primo tratto di volo, poi si aprivano a carciofo, facevano un tonfo acquoso nella brecciaia.
[…] Pulii la copertina infangata del libretto sulla maglietta e lessi la scritta davanti: “Dizionario dei sinonimi e dei contrari, De Agostini, a cura di Decio Cinti”.
[…] Mi misi in tasca quello che avevo raccolto, senza sapere che con quel gesto stavo arricchendo il mio destino.
[…] Mi attirava che le parole non fossero organizzate in un ragionamento. Potevo pescarne una a caso e leggerla senza dover seguire per forza l’ordine alfabetico. Quando leggevo così, il ticche e tacche dei pensieri si fermava, i mille canali aperti della mia mente si chiudevano, e un senso di ristoro mi penetrava.
[…] riconoscevo che ciascuna parola del dizionarietto voleva indicarmi qualcosa di preciso. Quando le ripetevo al posto del “didin”, sentivo che mi facevano da filtro, mi tenevano alla giusta distanza emotiva dalle cose (pp. 130-133).
E se grazie alle parole Pierantozzi riesce a non farsi travolgere dalle cose del mondo, è attraverso il libro stesso, oggetto tangibile, che cerca di ricostituire un ordine ideale.
Nel commovente capitolo che chiude il romanzo, “L’ospedale dei libri”, l’autore rivela il fine ultimo del suo lavoro. L’ambizione a tornare a quell’unità primigenia che tutti abbiamo perduto per sempre nel momento in cui, venendo al mondo, abbiamo dovuto abbandonare il grembo materno.
Nel lessico famigliare dei Pierantozzi la comparsa delle «farfalline di casa, marroncine, gialline», le farfalline «del cibo o della carta» [p. 224], rappresenta una visita del fratellino morto. Lo scrittore si rivolge allora all’Istituto centrale per la patologia degli archivi e del libro di Roma con la richiesta di poter lasciare le proprie pagine nel laboratorio in cui si studiano gli effetti delle larve e degli insetti sulla carta.
Tutto quello che voglio è che questa storia venga annusata, leccata, triturata, ingoiata, digerita, trasformata in uovo e poi in bozzolo. E che infine diventi una farfallina della carta.
Da quando so che tra i parassiti dei libri ci sono soprattutto le termiti, ho calcolato che nel breve intermezzo tra il verme e l’insetto, in quell’effimero passaggio di tempo, mio fratello sarebbe tornato in vita sotto forma di farfalla.
[…] Aspetterò che tutti i miei fogli siano stati consumati, e che nella sciara fra gli insetti si formi una farfalla. Una farfallina della carta che estrarrò delicatamente dalla teca e riporrò in una scatola di sicurezza.
Dei miei due fratelli, quello vivo prenderà la scatola con dentro l’anima di quello morto, rinato attraverso queste parole.
Allora quella che gli psichiatri definiscono una “fratria” di tre figli tornerà perfettamente intatta a casa da mamma, così come doveva essere […]. (pp. 223-225)
Kafka ha scritto che «un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio dentro di noi». Simile a nessuno, difficilmente inscrivibile in una categoria, Lo sbilico è un’ascia e questa è la sua forza.

Alcide Pierantozzi, Lo sbilico, Einaudi, Torino 2025, 240 pp. 19,50€







