La Balena Bianca sospende le pubblicazioni fino a settembre. Anche stavolta non potevamo mancare di congedarci con gli ormai leggendari consigli di lettura estivi di prosa a cura della redazione.
Asako Yuzuki, Butter, trad. di Bruno Forzan, HarperCollins 2024 (Simona Adinolfi)
Sapete cos’è il burro di Echire? È il miglior burro del mondo, secondo la cuoca gourmet (e presunta serial killer) Manako Kajii. Rika, l’unica giornalista donna in una rivista per uomini a Tokyo, decide di scrivere un reportage sulla storia di Manako, in cella con l’accusa di aver ucciso numerosi uomini d’affari che sono stati suoi amanti e ai quali cucinava. Gli incontri tra Rika e Manako in prigione cambiano Rika sia nel suo rapporto col cibo che in quello con gli uomini, mentre fuori il Giappone esige donne magre e sottomesse. Se, come me, non siete ancora sazi dei piatti della quarta stagione di The Bear, se vi piacciono le killer geniali à la Killing Eve con cui è facile empatizzare, e se desiderate vedere scardinati, almeno su carta, i canoni estetici e sociali che la società impone alle donne, allora questo romanzo, ispirato al vero caso di cronaca della cosiddetta Konkatsu Killer, fa decisamente al caso vostro.
Chimamanda Ngozi Adichie. L’inventario dei sogni, trad. di Giulia Boringhieri, Einaudi 2025 (Camilla Antonioni)
Quattro donne, quattro voci, quattro storie compongono l’atlante dell’esistenza femminile contemporanea descritta nelle pagine del nuovo romanzo dell’autrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, pubblicato da Einaudi a maggio 2025 e tradotto da Giulia Boringhieri. Un tetraedro polifonico in cui le storie delle protagoniste, Chiamaka, Zikora, Omelogor e Kadiatou, si presentano al lettore con profonda grazia letteraria e precisione quasi giornalistica. Attraverso le pagine del romanzo è restituita la complessità emotiva e culturale, quella africana trapiantata in America, di personaggi che inseguono i loro sogni e che assistono al mutamento di quest’ultimi, a volte al loro infrangersi. Le quattro donne, profondamente diverse tra loro ma unite dal senso di appartenenza alla sfera del mutamento femminile, possono essere descritte come dei camaleonti urbani, capaci di mutare, per l’appunto, forma e colore per conquistare quel senso di riscatto e di amore che perseguono per tutta la durata del libro. La lettura de L’inventario dei sogni è consigliata a chiunque voglia intraprendere un viaggio profondo, ma dalla sintassi scorrevole e leggera, all’interno delle fragilità umane che si scontrano con la vita di tutti i giorni.
Alessandra Minervini, Stellario, Revolver 2025 (Claudio Bagnasco)
I diciassette racconti che compongono Stellario di Alessandra Minervini, raccolta uscita per Revolver nel maggio del 2025, sono caratterizzati da una grande varietà di tono e ambientazione. Li accomuna il fatto che tutti i personaggi principali (quasi sempre femminili) si trovano a confrontarsi con l’incalcolabile che informa di sé la vita, e che grazie allo stile dell’autrice, sempre vivido e mai compiaciuto, viene diluito nella quotidianità, perdendo il suo carattere eccezionale: incidenti domestici, drammi familiari, sparizioni, violenze psicologiche ed (efferate) violenze fisiche sembrano appartenere con una certa naturalezza a un universo in cui ci si muove pericolosamente liberi, o forse privi di direzione, come leggiamo nelle prime righe de Si muore una sola volta nella vita: «”Come hai saputo dove abito?” / “Le mamme sanno tutto delle figlie”. / Mia madre si muoveva nel mondo come una mosca, o una cimice. Sembrava un insetto senza traiettoria. Finiva a caso nelle situazioni, priva di direzione, estranea al contesto. Cominciava un discorso e finiva con tutt’altro» (p. 17).
Antonio Francesco Perozzi, Tranquillità assoluta, Pidgin 2025 (Roberto Batisti)
E intanto Perozzi non sbaglia un libro: attivissimo come poeta e critico militante, con questi racconti l’autore lascia ora il segno anche nel campo della narrativa. Parlare di raccolta sarebbe limitante per un libro tanto organico e coeso, i cui temi s’intrecciano e ritornano pur nella sapiente variazione dei punti di vista. Queste pagine, infatti, restituiscono anzitutto una descrizione sfaccettata e corale di un preciso cronotopo, familiare all’autore sublacense quanto iporaccontato finora: quel Lazio interno, provincia cronica di borghi misconosciuti, e insieme periferia lontanissima di Roma, che orbita sull’Urbe come su un pozzo gravitazionale. Le voci che si dànno il cambio nel raccontare questo cuore opaco d’Italia sono rese da Perozzi con consumata etopea: il musicista, l’anarchico, l’insegnante precario, sono tutti persuasivamente, empaticamente incarnati. Vari dettagli mostrano capacità d’adesione al reale: ad esempio, la descrizione finalmente normalizzata di dispositivi elettronici e social networks, onnipresenti (come nelle nostre vite) ma non sensazionalizzati. E tra i grani di realtà che l’impasto narrativo assimila senza sforzo rilucono tanto l’aristofaneo εὐρύπρωκτος (p. 108) quanto un’allusione all’Instagram di culto Vocali volanti (p. 135). Eppure, in ciascun racconto s’insinua una deviazione orrorifico-perturbante (perlopiù di gusto entomologico), trattata però come uno scontato assunto di fondo: mondi in cui le persone sono italiani medi del 2025, anche se portano lucciole sottopelle, smaltiscono esuvie, o suggono sangue con un ‘labbro’ in mezzo al petto. È questo il famoso New Italian Weird? Poco importa! Di sicuro è un felice scoppiettio d’invenzioni narrative, che certo funzionano bene come allegoria di una «staticità anestetizzante che assimila e normalizza anche ciò che appare più surreale» (giusta la quarta di copertina), ma anche come motori delle singole trame: i racconti non restano simboli inerti, ma vivono e funzionano come ben oliati meccanismi. Un altro dato pervasivo dell’oggi è, naturalmente, il Covid: qui spesso presente sullo sfondo, ma protagonista in una sola storia, Acque. Forse non a caso, in quel racconto manca il body horror: che sia lui (non il virus, ma l’iperoggetto della pandemia e di ciò che ha scatenato nelle teste e nella società), il mostro?
Mikael Ross, Il nirvana è qui, Bao Publishing 2025 (Rodolfo Dal Canto)
Molti sono gli aspetti su cui si può giocare (o forzare) l’equilibrio di un fumetto: si può insistere sulla complessità della trama, sulla densità psicologica dei personaggi, su un certo tipo di scrittura; sul lato del disegno si può optare per uno stile realistico, chiaro e ben definito o, al contrario, rarefatto ed evocativo, con tutti i possibili assetti intermedi tra i due. E poi l’impaginazione, il layout, il formato. Pensando a un fumetto per l’estate, mi è venuta spontanea la proposta di un testo che avesse un equilibrio solido, capace di catturare e trattenere lettori e lettrici con una storia ben costruita e avvincente, gestita in maniera attenta. Un fumetto come Il nirvana è qui del tedesco Mikael Ross (Bao Publishing, 2025). Siamo in un quartiere della periferia di Berlino: Tam e Dennis, sorella e fratello adolescenti, incontrano una donna chiusa dentro una macchina che chiede loro di venderle il coltello che hanno appena acquistato. È l’inizio di un thriller che incontra il romanzo di formazione, un fumetto che si legge come un film e che scorre come un giallo. E, sullo sfondo, l’avventura dell’adolescenza, quel modo di guardare il mondo che dà un colore anche alle periferie più grigie e alle storie più nere, con quell’intensità data dal credere in qualcosa come se dovesse durare per sempre, anche se durerà un istante.
Fabrizio Gabrielli, Sforbiciate 2.0. Storie di pallone ma anche no, Piano B 2025 (Alessandro Fabi)
Sforbiciate, libro-gioiello di Fabrizio Gabrielli (Piano B), è passato a miglior vita: s’intende che ne è stata finalmente pubblicata una seconda edizione, per la verità una versione auctior arricchita da un’introduzione ad opera di Enrico Brizzi e ben cinque nuovi racconti (non tutti inediti in senso assoluto). Rispetto ai tempi non sospetti in cui l’opera vedeva la luce (2012), l’autore si è ritrovato – non per caso – a firmare biografie di grandissimi (Messi e Ronaldo), caterve di scritti per «L’Ultimo Uomo» e non ultima una collaborazione con Buffa. Portando tutti, suo malgrado, a lezione di narrativa a tema calcistico, Gabrielli tiene qui seminari intensivi destinati a chi sia disposto alla più completa immersione, in cui si ribadisce quanto lo sport, prima di farsi epopea, sia quotidianità: sono le storie, più dei loro ispiratori, ad essere centrali. Tramite ritagli di memoria culturale e scampoli di passato (questo, più che una prodezza balistica, sono le sforbiciate), si è trasportati con delicatezza dal mondiale di Tshabalala alle vicende di Freddy Eusébio Rincón, colombiano passato per Napoli e finito, in maniera ben poco originale, nei guai con la cocaina; si è rapiti dal garbo con cui si apprende del dualismo tra i fratelli Boateng o dei tre rigori sbagliati da Martín Palermo, proprio mentre una maglietta di Michele Zanutta – apparizione che contiene in sé l’essenza del gioco – svolazza su un campetto qualunque. Senza indulgere in anticipazioni, si può dire che le aggiunte non sono da meno del nucleo originario, ampliato da pagine riservate a figure secondarie (così è per Andrada, in porta in occasione del rigore del millesimo gol di Pelè), parabole di squadre improbabili e percorsi di redenzione di giocatori sovietici nel campionato cileno. Tutto ciò, ideologicamente agli antipodi della ribalta, rappresenta un perfetto diversivo, anche se non proprio “da ombrellone”: offre senz’altro una prospettiva alternativa – e nemmeno distopica – al fútbol contemporaneo, incluso il discutibile mondiale per club che si è appena concluso.
Raffaele Cataldo, Malesangue. Storia di un operaio dell’Ilva di Taranto, Alegre 2025 (Simone Giorgio)
D’estate, come una clessidra, l’Italia si rovescia. Il Nord, che nei mesi invernali ospita la maggior parte della popolazione del Paese, ributta fuori i meridionali che si sono trasferiti nelle città industriali, assieme ai settentrionali stessi, in cerca di svago e refrigerio sulle spiagge del Sud. È inutile ricordare che fra le mete in assoluto più scelte ci sia il Salento, il lembo estremo della Penisola che fa da tacco allo Stivale: forse più utile rinfrescare la memoria di chi decide di villeggiare a San Pietro in Bevagna, Porto Cesareo, Gallipoli; più utile ricordare a queste persone che, a non troppi km dal loro ombrellone, c’è qualcosa che potrebbe tranquillamente definirsi l’inferno in Terra. È l’Ilva di Taranto. Solo negli ultimi anni, grazie soprattutto alle opere di Alessandro Leogrande e al recente film Palazzina LAF (2023) di Michele Riondino, le narrazioni legate all’acciaieria più grande d’Europa stanno abbandonando il terreno della cronaca per acquisire la loro cittadinanza in letteratura. Come molti libri di questi anni, anche Malesangue di Raffaele Cataldo è un memoir: con una prosa asciutta, che concede poco al bello stile, l’autore racconta la propria giovinezza all’ombra dell’Ilva, l’ingresso in fabbrica, la dura trasformazione da ragazzo a operaio. Al tempo stesso, è ripercorsa anche l’accidentata storia della «città nella città», ed è qui che sta il maggior pregio del libro di Cataldo. Certo, sono ricostruite le tappe dell’ascesa e della caduta della famiglia Riva, ma di Malesangue colpisce la capacità del racconto di farsi esempio tratto dalla vita di una comunità: Taranto, ovviamente, e il gruppo di operai che fonda il Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti. Per una volta, nella messe di memorialistica che caratterizza la letteratura italiana di questi anni, chi dice «io» non parla solo per sé, e nella caldissima estate sulle affollate spiagge salentine, questo può essere una boccata d’aria fresca.
Jenny Erpenbeck, Kairos, trad. di Ada Vigliani, Sellerio 2024 (Morena Marsilio)
Sullo sfondo della storia d’amore tra Katharina e Hans – ossia tra una diciannovenne che si apre alla vita e un maturo scrittore, già sposato e padre di un ragazzino – c’è la Germania dell’Est, colta non solo negli anni immediatamente precedenti e successivi al crollo del muro, ma anche nella complessità della sua vicenda novecentesca, grazie ai flashback che costellano il romanzo. Il breve Prologo che apre la narrazione ci consegna i due amanti a relazione ormai finita: nel giorno del funerale di Hans, Katharina è a Pittsburgh ma celebra a suo modo il congedo dall’ex amante, scegliendo una precisa colonna sonora a un rito tutto privato e intimo: «All’alba delle cinque, le dieci ora di Berlino, si alza in tempo per l’inizio della cerimonia, sistema una candela sul tavolo della sua stanza d’albergo, l’accende e cerca della musica per lui su internet. Il secondo movimento del Concerto in Re minore di Mozart. L’aria dalle Variazioni Goldberg di Bach. La Mazurca in La bemolle di Chopin». La medesima musica, nonostante la distanza, incornicia la cerimonia funebre: tale è stata l’intensità della loro intesa. Alcuni mesi dopo, al suo rientro in Germania, a Katharina vengono recapitati due scatoloni: ciascuno di essi dà il nome alle parti in cui si suddivide questa storia d’amore narrata à rebours. E, del resto, a ritroso è pensata anche la parabola del socialismo reale: Hans, in particolare, è il simbolo di quegli intellettuali che, di fronte alla irrecuperabile crisi della realtà politico-culturale in cui hanno creduto, non trova un nuovo alfabeto o nuovi pilastri su cui riedificare se stesso e la propria visione del mondo. Al contempo Kairos, libro narrato con finezza e rara capacità introspettiva da una delle scrittrici tedesche oggi più importanti, da molti additata come l’erede di Christa Wolf, racconta una storia d’amore totalizzante sia nella sua fase ascendente sia in quella distruttiva e perversa, quando Hans, percependo il bisogno di autonomia e di nuove esperienze di Katharina, la sottopone a vessazioni fisiche e morali: il suo bisogno ossessivo di controllo trasferisce nel privato quanto risulta irrisolto sul piano politico. Kairos, dal titolo ispirato al «dio dell’attimo fortunato», narra, nonostante tutto, di un amore fondativo sia per Katharina sia per Hans: ricco di richiami musicali, letterari, politici, è un romanzo destinato a durare.
Igor Ebuli Poletti, Kafka non l’avrebbe mai fatto. Sogni con uomini e donne straordinari, NFC 2025 (Jacopo Narros)
Se immaginate un registro dell’ufficio anagrafe compilato a turno da François Rabelais e dai Monty Python (magari con Sigmund Freud che sussurra all’orecchio cose sconce ma imprevedibili), non andate molto lontano dall’effetto che fa questa raccolta di microracconti di Igor Ebuli Poletti, uno schedario che passa in rassegna 88 pesi massimi e infimi delle arti (prosa, poesia, free jazz, celluloide), colti nell’effimero e imprevedibile momento in cui, loro malgrado, vengono sognati dal narratore. In questo libro, che è anche un parente onirico del Libro dei mostri di Juan Rodolfo Wilcock, il sogno è l’espediente desacralizzante che permette di avvicinarsi agli “uomini straordinari” di sguincio, di raccontare tutto quello che non è mai successo ma che avrebbe potuto accadere e che noi avremmo assolutamente voluto vedere: da William Shakespeare che passeggia in un prato pieno di fiori finti indossando una maglietta con sopra scritto “William Shakespeare” a Platone che sta «seduto su una bicicletta, non in modo elegante», da Luciano Canfora immortalato con «un gustoso, imperiale cappuccino di soia, accompagnato da uno stinchetto di maiale farcito di merluzzo» a Dio, in veste di special guest. Un delirio lucido verbale che scompiglia il canone culturale con una prosa scoppiettante da jam session.
Iida Turpeinen, L’ultima sirena, trad. di Nicola Rainò, Neri Pozza 2024 (Stella Poli)
«Immagina il Mare di Bering. La massa d’acqua tra Siberia e Alaska, Oceano Pacifico e Oceano Artico. Immagina il Mare di Bering nel 1741». Inizia dalla spedizione russa, questo libro bellissimo, candidato al Premio Strega Europeo per il 2025, inizia con ottomila chilometri in terra siberiana, verso il mare. O, forse, inizia con la pochezza dei resti, delle ossa non bianche, numerate, storte, nelle teche di un museo in penombra. Parla di fallimenti, di solitudini, di apparizioni. Fonde il resoconto scientifico, le parole dei naturalisti, le coordinate cartografiche quasi in exergo, alla letteratura, alle vicende familiari quotidiane, alle ossessioni e ai non detti di ogni storia. Ha il profumo dell’epica, a tratti, e dei dettagli minuti, concretissimi. L’estinzione della ritina di Steller, la sirena del titolo, è il filo che unisce più tempi e più vicende, ma è anche la chiave, quasi presagio, dello scacco: bastarono 27 anni dalla sua scoperta a sterminare la vacchetta di mare, il cui grasso denso profumava di agnello.
Ferdinando Cotugno, Tempo di ritorno. Una storia di clima e di fantasmi, Guanda 2025 (Giacomo Raccis)
Almeno dal 2015, anno dell’Expo di Milano dedicata al cibo, il concetto di carbon footprint è entrato nel nostro glossario: l’impatto in termini di emissioni di carbonio nell’atmosfera da parte di un determinato processo produttivo, come quelli della filiera alimentare, appunto. Ma qual è l’impronta di carbonio di una persona, o di una famiglia intera? Mosso da una domanda simile, Ferdinando Cotugno – giornalista che da anni si occupa di ambiente e crisi climatica (consiglio vivamente di iscriversi alla sua newsletter Areale) – ha deciso di ricostruire la storia della propria famiglia, per capire quanto ci fosse di personale in un discorso, quello sul climate change, che solitamente affrontiamo in termini di grandi azioni collettive e prese di posizione universali. «La mia famiglia è stata una piccola nazione fondata sui combustibili fossili, un minuscolo emirato napoletano del carbone e del gasolio». Il clima, in poche parole, come un affare di famiglia. Nasce così un racconto che è, al tempo stesso, romanzo famigliare, autobiografia e personal essay, in cui Cotugno mette a frutto la sua esperienza di giornalista e reporter per collegare con audacia la storia napoletana dei propri genitori (la dismissione dell’Italsider, l’economia della logistica su gomma) con i punti più remoti del pianeta, in cui il cambiamento climatico assume altre, a volte più evidenti, configurazioni. Cotugno possiede il dono della scrittura, padroneggia il linguaggio figurale, fa capire le cose rendendole visibili e concrete; e il suo libro è pieno di osservazioni illuminanti, che spesso diventano moniti rispetto alla pigrizia con cui ci limitiamo, di fronte alla crisi climatica, ad assumere la posizione più “giusta”, senza interrogarci su cosa essa comporti realmente: «Non possiamo pensare di cambiare le fondamenta del mondo senza avere una buona storia e delle risposte per chi vive aggrappato a quelle fondamenta».
Vanni Santoni, Il detective sonnambulo, Mondadori 2025 (Emiliano Zappalà)
Il detective sonnambulo, ultimo romanzo di Vanni Santoni, fa subito pensare a Roberto Bolaño, sia per il titolo-omaggio che per lo stile che mischia timbri romantici, venature comiche e tematiche politiche dannatamente serie. Il racconto si muove lungo il perimetro di un doppio quadrilatero: quattro personaggi e quattro città principali (Parigi, Berlino, Davos e Venezia). Malgrado il titolo, non si tratta di un poliziesco e non c’è nessun detective: la storia si apre a Parigi, dove lo scapestrato studente Martino incontra Johanna, donna dalle molte vite, innamorandosene senza scampo. Presto, però, quest’ultima sparisce, costringendo il ragazzo a lanciarsi in una folle ricerca in giro per il mondo che lo porta a conoscere Tanya, attivista animalista ed ecologista, e il criptomilionario Manfredi Contini della Torre. Amori e conflitti si intrecciano sullo sfondo di uno scenario politico-culturale tumultuoso, che mette in mostra le disfunzionalità e le contraddizioni del nostro tempo; fatto di sperequazione e disuguaglianze, infestato da un turbocapitalismo fuori controllo, eppure ancora capace di generare brucianti passioni sentimentali e politiche, nonché l’illusione di poter cambiare il mondo. Il detective sonnambulo ha il pregio di prestarsi a una lettura famelica e leggera mentre induce a riflettere su questioni politiche molto attuali, stimolando una presa di coscienza dal basso fondamentale tanto per i personaggi del romanzo quanto per i suoi lettori.
Antonio Lobo Antunes, In culo al mondo, Einaudi 1996 (Davide Spinelli)
In culo al mondo è un libro del 1983. In Italia è stato pubblicato quasi tredici anni dopo. La storia è quella di un ex-soldato portoghese che racconta della guerra in Angola in un bar di Lisbona, la notte. C’è una frase che si ripete: «no, non mi fa male niente, magari un po’ la testa, non è nulla, è un’impressione, un capogiro». Ecco, In culo al mondo è un capogiro, anzitutto geografico, tra la guerra colonialista nel sud ovest dell’Africa e il regime autoritario di Salazar in patria. È un impressione estiva (direbbe Dostoevskij), perché un po’ come Il Maestro e Margherita (per restare in Russia) non è chiaro fin da subito chi rappresenti cosa, se gli spazi che vediamo sono quelli della terra o della mente. Le incomprensioni, poi, arrivano al presente, con una prospettiva sulla guerra che è tutta tolstojana (di Guerra e Pace): perchè due ragazzi che non si conoscono dovrebbero combattersi a vicenda per ordine di qualcuno? La traduzione del titolo portoghese – Os Cus de Judas –, volessimo essere precisi sarebbe I culi di Giuda. Ma ciò che è riveltatorio di questo titolo, più che il significato lessicale, che in portoghese diventa ancora più attraente, è in ciò che non si vede, in un discorso teorico. Perché In culo al mondo è un proverbio, e i proverbi, un po’ come le metafore, producono un effetto particolare in chi li ascolta: se ne afferra il significato senza considerare ciò che dicono composizionalmente, cioè unendo i significati delle singole parole, ma facendo riferimento a un’idea, a un concetto avulso dalla singole parole e che per qualche ragione tutti conosciamo. Il romanzo di Antunes funziona allo stesso modo: instantanee di una vita fatta a pezzi, che alla fine della notte hanno significato solo se messe assieme, mentre una donna di cui non conosciamo il nome ascolta silente. La sensazione è quella di quando ti strofini gli occhi al mattino e ci metti un po’ per mettere a fuoco (come racconta Saramago).
L’illustrazione di copertina è stata realizzata dal nostro Massimo Cotugno





















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