di Mia Lecomte
L’ultima raccolta poetica di Fabrizio Bajec – che richiama gli Haiku for a season di Andrea Zanzotto sia nel titolo, Tanka per le quattro stagioni (Vydia 2025), sia per il processo di auto-traduzione che guida la libertà d’utilizzo della forma chiusa – è suddivisa in tre parti. I tanka della sezione iniziale; le nove poesie brevi di “Vasto cielo”, la seconda; gli haiku della terza, “La fine del linguaggio”.
È proprio quest’ultima, nell’estrema “concentrazione formale” del suo incalzante interrogare/si, a suggellare quel pellegrinaggio al congedo su cui è incamminata tutta la raccolta, definita dal poeta stesso nella sua breve nota finale come un “testamento poetico”.
La fine del linguaggio, che non è solo la fine della lingua, e nel caso di Bajec, appunto, due sono le lingue che transitano nella vita-scrittura, l’italiano e il francese; ma fine della stessa necessità di uno strumento linguistico, di qualunque logica di comunicazione – «addio inoltre | ai concetti | questa farsa» – non per ultima quella letteraria: «È dunque finita | anche per te lirica? | troia dell’intelletto».
Che può rimanere, allora, del tempo fragile delle “quattro stagioni”, e come dirlo? Non può, non deve rimanere niente. È proprio il congedo, infatti, a liberare lo spazio dell’essere: «tutto cancellato | eppure ancora presente | a disposizione»; quel “tutto” che ci precede, ci accompagna e ci completa, dove «esistenza e non – | esistenza volteggiano | ancora abbracciate».
Ed è perché il congedo è già avvenuto, è stato “completato”, che la poesia può accomodarsi nel vuoto silenzioso che la individua come tale. Perché di poesia si sta parlando, e non della pretesa tale, adusa a moltiplicarsi esponenzialmente, per contagio infetto. Può forse esistere poesia che non sia risultato di quel congedo? Che non sia costituita dalla materia di quel silenzio?
Ecco, dunque, che i pochi versi dei tanka, degli haiku, dei nove componimenti brevi si incamminano oltre, disperdendosi nel bianco della pagina; e lo fanno in modo così dolente e insieme pacificato che si rimane inchiodati alle parole che non ci sono più, abbagliati dal candore del vuoto, luce da una stella estinta. Come se, fuori dalle misure della forma chiusa, si arrestassero le tracce verbali e cominciasse ciò che realmente ci appartiene.
I testi di questa raccolta, ci viene ancora detto nella nota, sono stati scritti fra il 2018 e il 2022 in francese, per poi essere auto-tradotti da Bajec in italiano, secondo una modalità di scrittura iniziata nel 2008; come, sempre dal 2008, ha avuto inizio per il poeta la pratica della meditazione, culminata nell’ordinazione a monaco zen del 2022 e nella trasmissione del dharma del 2023.
È evidente che questa opera “testamentaria” non può prescindere dal percorso biografico, dal cammino spirituale quasi ventennale del suo autore. Ma è altrettanto vero che essa è muto profeta dell’apocalisse che nel corso dell’ultimo ventennio ha progressivamente travolto tutto quello che si riconosceva come vita, impadronendosi delle parole per dirlo, dirci.
Sono sempre più numerosi i poeti, in Italia ma anche in Francia – per limitarmi ai paesi che più conosco e frequento – che sentono l’esigenza di abbandonare la scrittura, in questo contesto avvertita come inutile, inadeguata, ipocrita: «mentre fai le uova | (i tuoi versi giapponesi) | altri ingoiano l’orrore | molti chinano il capo | tu bari anche seduto».
Da un lato la proliferazione dei cosiddetti “poeti” e della loro inesauribile produzione, il ruolo sempre maggiore che occupano in pubblicazioni compulsive, social, festival, premi: ottemperante merce fra le merci; dall’altro lo spegnersi della voce di chi non può, più. Si potrebbe aprire una riflessione più ampia su questo, interrogando proprio coloro che si stanno “congedando”.
Quelli che avvertono la necessità della fine, perché la poesia possa ritornare a se stessa. A cose fatte, esaurita ogni stagione. Scomparso tutto, tutto a destinazione: «sentite condoglianze | e ben arrivato».

F. Bakec, Tanka per le quattro stagioni (e altre poesie brevi), prefazione di F. Pusterla, Vydia 2025, 102 pp., €13.
in copertina: immagine di Chris Lawton su Unsplash.