Non c’è bisogno di scomodare Wilde o Borges per ricordare che la critica letteraria può essere una meravigliosa e necessaria forma d’arte, tanto più se riguarda quegli autori talora “oscuri” le cui opere hanno diversi gradi di lettura e interpretazioni possibili. Matteo Moca, critico formatosi su scrittori quali Tommaso Landolfi e Samuel Beckett, dedica all’opera di Fleur Jaeggy un saggio dal titolo accattivante e ossimorico, Una consunzione infinita. Lo porta nelle librerie l’editore italosvevo.
Fin dalle prime pagine del saggio Moca osserva che per il lettore attento lo stile di Jaeggy – affatto peculiare – è come la lettera introvabile ma sempre posta in bella vista del racconto La lettera rubata di Edgar Allan Poe, ossia un indizio a un tempo evidente e celato dal quale possono scaturire tutti i segreti della sua opera. Jaeggy difatti è una delle nostre poche scrittrici (qui il femminile è sovraesteso) che si sia forgiata un proprio stile e che vi sia rimasta fedele nel corso degli anni, in una serie di pubblicazioni puntuali ma distanziate nel tempo. Per quanto siano due autori diversissimi, per lei si può forse ripetere ciò che Flaiano disse una volta a proposito di Gadda: “Rispetto moltissimo le solitudini come la sua e sento che ogni intrusione potrebbe ferirlo o infastidirlo. Il suo è uno di quei casi di felicità letteraria pagati con la vita, pagati con il sangue”. La solitudine di Jaeggy è il suo stile, e da esso derivano non soltanto le sue peculiarità ma anche la sua felicità letteraria. E in letteratura uno stile personale che non sia artefatto o banalmente malriuscito si paga caro, come sottolineava Flaiano.
Gran parte dei lettori conoscono Fleur Jaeggy per I beati anni del castigo (1989), il suo romanzo di maggior successo. Tuttavia, Moca comincia il saggio esaminando L’angelo custode, opera pubblicata nel 1971 e ormai introvabile nelle librerie. È il secondo romanzo di Jaeggy, posto che possa definirsi tale, dal momento che la trama è praticamente inesistente e il lettore non ha quasi appigli narrativi che non derivino dai dialoghi fra le due protagoniste.
A tal proposito Moca scrive: “Si tratta infatti di un libro orgogliosamente inattuale che ancor di più oggi, in tempi di plot facilmente riconoscibili e spesso appiattiti nella loro ripetitività, mostra la sua forma eccezionale“. A questo torneremo in seguito.
Nel capitolo iniziale del saggio, ancor prima di analizzare L’angelo custode, Moca si sofferma però su due aspetti non trascurabili della scrittura di Jaeggy. Il primo nasce da una frase del Talmud, “tutti i canti si scrivono nero su bianco e bianco su nero”, come a dire che gli spazi “neri”, cioè la scrittura, in Jaeggy sono importanti quanto gli spazi “bianchi”, cioè quelle trasparenze che vengono sottaciute o che appaiono indecifrabili. Di più: per Moca è proprio in questo “bianco” – ossia nel non detto – che risiede il senso segreto dell’opera di Jaeggy.
L’altro aspetto che mette subito in chiaro Moca è, come già ricordato, la particolarità dello stile di Jaeggy, prendendo come esempio Gatto, un racconto di Sono il fratello di XX (2014) nel quale viene descritto il comportamento di un gatto dinanzi alla sua preda. Jaeggy scava dentro l’attimo, osservando il gatto nel momento in cui è sul punto di uccidere la preda, indugiando su quello che gli etologi chiamano Übersprung, vale a dire un momento di sospensione, di pausa, quasi di distrazione del predatore rispetto alla sua vittima.
Jaeggy scrive: “Vediamo il gatto muovere e spostare la preda come se fosse una piuma. Le ultime mosse. La farfalla danza la sua agonia. Vibra impercettibilmente, tanto da destare ancora interesse nel gatto. E lui si distrae. Si allontana. Con calma muta la rotta. Muta la rotta mentale. È come un momento morto. La stasi. Sembra che nulla lo interessi”. E qui Moca indossa trasversalmente le vesti di Auguste Dupin, l’investigatore di Edgar Allan Poe che risolve risolve il mistero de La lettera rubata, andando a pescare una vecchia intervista in cui Jaeggy dice che “spesso si mette davanti alla macchina da scrivere e la osserva, ferma, in attesa che la storia sgorghi dalle sue dita, avvalorando ancora di più la somiglianza tra il gesto del gatto e il suo, quel ‘malinconico disfarsi del legame con la vittima’, in questo caso la storia di cui è in cerca”.
Jaeggy dunque è il gatto. La sua preda è la storia, forse persino il suo stile di scrittura, fra gli spazi neri e gli spazi bianchi del racconto. Più avanti Moca ci offre una delle possibili interpretazioni del titolo che ha scelto di dare al suo saggio: “Jaeggy coglie le cose un istante prima del loro deperimento, nel momento assoluto in cui è più difficile raggiungerne il senso profondo: un’interrogazione che va naturalmente a toccare le questioni più radicali dello stare al mondo”. Un momento assoluto e sospeso, dunque, che si prolunga e si definisce nella scrittura e che in certi casi può davvero sembrare interminabile, infinito.
Una consunzione infinita ha il suo centro nevralgico nell’analisi dell’opera più riuscita di Jaeggy, I beati anni del castigo. Lo studio di Moca è originale e approfondito e si concentra particolarmente – per diverse pagine – su uno degli autori più amati dall’autrice, Robert Walser, svizzero come lei, il cui romanzo Jakob von Gunten (1909) ha non a caso molti punti di contatto con l’opera in analisi.
In effetti, la storia di Jaeggy si apre evocando la morte di Walser, che trascorse gran parte della sua vita in manicomio e che morì durante una passeggiata nella neve, il giorno di Natale. Di follia e di morte, afferma Moca, e forse di bianco, di neve: di questo tratta I beati anni del castigo, che si svolge in un collegio non dissimile dall’istituto Benjamenta di Jakob von Gunten.
L’ossimoro del titolo, come i tanti ossimori che ricorrono nelle opere di Jaeggy, indica peraltro che la sua unicità stilistica (ma anche narrativa!) si manifesta innanzitutto nei contrasti, nelle opposizioni, come nel rapporto a un tempo simbiotico e contrario che lega la narratrice alla donna di cui si innamora, l’inarrivabile Frédérique, che in qualche modo – è Moca a dirlo – diventa il suo doppio, la sua esistenza alternativa nel collegio e di conseguenza nella vita.
Il saggio di Moca, che come le opere di Jaeggy merita una lettura attenta, mette in dialogo l’opera di Jaeggy con i libri degli autori che le sono più affini, fra i quali Anna Maria Ortese, Ingeborg Bachmann, Thomas Bernhard, Thomas De Quincey, Marcel Schwob o per l’appunto Robert Walser, componendo una sorta di orchestra interpretativa o di prisma critico che si suggella nelle citazioni delle diverse opere.
Vite immaginarie, il libro di Schwob, che Jaeggy ha tradotto per Adelphi nel 1972, la porta per esempio a stare sempre “dalla parte dell’immaginazione”, in un sodalizio ideale fra letteratura e vita. “In Jaeggy”, spiega Moca,
si assiste proprio a questo processo di costruzione di una seconda identità, all’idea che la vita vera sia quella che abita le pagine dei libri: così come Frédérique e le altre allieve del collegio scrivono la loro storia, lo stesso fa Jaeggy, trasformando i frammenti della sua esistenza in punti di partenza per un’altra possibile.
Strana autrice, Fleur Jaeggy. Cesare Cases una volta ha scritto che dopo la morte di Elsa Morante probabilmente lei rimane la nostra scrittrice più grande. L’affermazione è forse troppo perentoria, per quanto sia mitigata da quel “probabilmente”, giacché l’unicità stilistica impedisce a Jaeggy di essere veramente una grande scrittrice. No, per essere “grande” a Jaeggy manca una certa universalità e anche, bisogna dirlo, il talento della fabulazione che troviamo in Morante o, per arrischiare il nome di una scrittrice della generazione successiva a quella di Jaeggy, in Melania G. Mazzucco. Le sue prime opere sono stilisticamente affascinanti e originali e tuttavia non stanno in piedi senza paracadute critici; la forma “eccezionale” de L’angelo custode – come la definisce Moca – non basta a farne un romanzo riuscito o anche soltanto un romanzo.
Il punto è che Jaeggy si muove spesso nel non detto, fra il bianco e il nero insiti nel suo narrare perturbante, e questo fa di lei una scrittrice semplicemente inclassificabile: un caso a parte, un’aliena. Forse non ce la meritiamo. Jaeggy è una scrittrice “per scrittori”, come suol dirsi, che infatti affascina molti autori contemporanei, non soltanto italiani, perché indaga su quel mistero insoluto che è l’atto di scrivere e quindi (attraverso la parola scritta) di vivere e di morire. È una scrittrice oscura. È una scrittrice di silenzi.
Ciononostante I beati anni del castigo, la sua opera più compiuta e perfetta, un libro nel quale lo stile di Jaeggy si affratella finalmente alla trama e non le combatte contro, rimane uno dei romanzi più misteriosi e belli del nostro secondo Novecento. Non è poco.

M. Moca, Una consunzione infinita, italosvevo 2024, 176 pp., €16.
In copertina: di Filip Kominik su Unsplash