È uno ed uno solo, per giunta per distacco, il più celebre portiere della letteratura italiana: caduto alla difesa ultima vana, contro terra celava la faccia a non veder l’amara luce. Da allora, al passo con l’evoluzione del gioco e del ruolo, l’estremo difensore è passato dall’essere l’esubero di campetti e oratori di provincia (perché in genere sovrappeso, scarso di piede o entrambe le cose) al “solitario” e “folle” per vocazione. Non poco, di una simile mitologia recente e molto italiana, si deve al contributo di figure universali quali Buffon – notoriamente ex attaccante per parte delle giovanili –, che ha attraversato diverse fasi del contemporaneo fino a trattare, da paladino, il tema della salute mentale degli atleti (accompagnato, di norma, dai consueti spin off sulla figura del guardiano della rete, osservatore alienato del gioco e chiamato repentinamente a essere pronto, senza sgarrare), o alle pubbliche esternazioni di neo-opinionisti come Emiliano Viviano, portierone oggi quarantenne e a suo modo emblema della risma dei pazzi, umorali e imprevedibili gattoni che tra un balzo e l’altro sono di fatto veri portenti, ben più delle divise di Campos o del funambolico “scorpione” di Higuita. Ora, il libro di Dario Voltolini (Dagli undici metri, Baldini+Castoldi) è il racconto di un rigore dal punto di vista del portiere, entrato in scena di colpo per via di un’espulsione sanguinosa: il buon Cebola, che già a suo tempo esordì passando a sorpresa dai “Piupiccoli” ai “Piugrandi” (sic), è stato catapultato in campo come un Marco Roccati qualunque e sta fronteggiando l’arrogante Gyilkos, pronto dal dischetto a trafiggere il nostro per decidere una stagione intera. Se non che, al di là di un esito che parrebbe prevedibile ma contiene al suo interno un doppio colpo di scena, questo è solo il Cebola adulto, o perlomeno cresciuto. Quello che anima le pagine di Voltolini trainandone il plot è invece un ragazzo, o meglio un preadolescente, di cui l’autore descrive con maestria la caratteristica essenziale, ovvero l’età che sta attraversando.

La condizione, del resto, è delicatissima: è in corso il momento di vita di un giovanissimo che pare destinato, o in qualche modo già proiettato, all’agonismo sportivo fin dal liceo, tenendo presente il fatto – condizione secondaria, ma non accessoria ai fini della trama – che si tratti di un istituto privato ad indirizzo sportivo. Lì opera un Mister senza nome e con la maiuscola, che per conto della scuola si propone di instradare – senza successo ma con passione (è un buono, c’è poco da fare) – i propri alunni allo sport che più si addica loro: in termini di didattichese e di meta-competenza, più della prestazione è importante la scelta. Che avviene, come detto, assecondando il sentire dei ragazzi, in forza della convinzione secondo la quale il pugno di ferro serva a ben poco, se non a incattivire. Contestualmente fanno la propria comparsa – in un presente contemporaneo ma non datato, e ampiamente tecnologizzato – teen-ager che sono sì nativi digitali e piuttosto smart, ma provvisti di un eloquio e un acume degni di Hal Incandenza della Enfield Academy, che all’occorrenza snocciolava a memoria lemmi dell’Oxford English Dictionary: si comincia con il giovane cestista ribattezzato Curry Mason, che per meccanica di esecuzione nel tiro da 3 è paragonato dal Mister a Reggie Miller, Ray Allen e Steph Curry ma farà l’avvocato (nell’infilare triple – sostiene Mason – non c’è alcun merito o garanzia di futuro, specie se ciò avviene con troppa facilità) e si conclude con Erbia, ragazzina che batte i maschi nel giro di pista e potrebbe indifferentemente correre tutte le distanze dal mezzofondo alla maratona, in quanto da sempre abituata – per via di una famiglia giramondo – alla tolleranza di stanchezze indicibili. E mentre il segreto del Mister – che pure continua a saggiare, in una sorta di open day, attitudini e debolezze dei singoli attraverso gare sui 100, 200 o 400 metri piani per decifrare dati psicologici o caratteriali altrimenti non incasellabili – risiede tutto in una scelta già compiuta ma da comunicare ai suoi prodi (allenerà una prima squadra di calcio: è questione di mesi), il segreto di Cebola – che pare disvelato attraverso la menzione di una figurina-santino di Lev Ivanovič Jašin che anacronisticamente porta sempre con sé – è in un concetto filosofico: l’intuizione noetica. Sa, sente e prevede, senza alcuno studio del rivale o della fisica delle traiettorie. D’altra parte – segreto nel segreto – il mister lo ha mandato da Leo, preparatore dei portieri con sigaretta in bocca che Cebola aveva visto in sogno, prima ancora che questi si materializzasse tra gli astanti al suo primo match con i Piugrandi. E sotto l’egida di Leo, uno Jašin fuori dal tempo che viaggia in dimensioni oniriche, si comincia ad affinare l’intuito: macchina “buona” e al servizio dei due è addirittura uno sparapalloni, che ha una connotazione assai più dolce rispetto all’omologo marchingegno agassiano con cui un padre-padrone martoriava il figlioletto per farne il numero uno del mondo. Se in un primo tempo pareva che Cebola – benché veloce sul breve – fosse portiere per una sorta di inguaribile pigrizia, la consapevolezza acquisita porta a una definizione più chiara del motivo di tale predisposizione, comprese eventuali carenze: il ragazzo ama stare tra i pali, sia per via dei riflessi, sia per via del pieno controllo che una posizione del genere può garantirgli sull’incontro.

Nel frattempo il Mister si prepara al proprio addio, che si configurerà come un’assemblea plenaria o una sorta di commencement speech all’americana in cui all’allenatore viene data piena libertà di gestire il proprio commiato. Come regalo per tutti, in grande stile, l’uomo porta palline da tennis che autografa e regala agli ex-alunni; ma la parte saliente è una lectio magistralis che consiste nella proiezione – commentata – del video di una partita. Si tratta, anzi, della partita più violenta – in senso quasi guerresco – della storia del calcio, tanto essa rappresenta la commistione di tifo frustrato, rabbia e istinti animali, che si concretizza in tafferugli che finiranno nel sangue e coinvolgeranno alla pari il pubblico, i giocatori e le forze dell’ordine. Il Mister ha preparato l’ultima lezione sullo sport, sul suo valore simbolico e pedagogico, che insegni a riconoscere la violenza per evitarla, a convertire il male in bene affinché il campo non sia reso trincea e la pulsione di guerra che spesso implica venga bloccata sul nascere, pena la morte di uno “spazio sacro” (e si avverte su questo una continuità – ancorché non voluta – con gli studi antropologici di Marc Augé e alla geografia di Franco Farinelli, filtrata dalla semiotica di Roland Barthes: stadio e campo sono luoghi di ritualità e significati evocativi).

A tal proposito sia consentita una divagazione: nonostante gli accenni di Voltolini siano fugaci e invitino il lettore a scavare più a fondo, la partita in questione si identifica con chiarezza (c’è un accenno al fatto che si tratti della finale di Coppa Intercontinentale del 1969). Le due squadre coinvolte, Milan ed Estudiantes, giocavano a Buenos Aires il ritorno: l’andata, a San Siro, finì 3-0 per gli uomini di Rocco. E il ritorno, conclusosi per 2-1 a favore degli argentini, sfociò nella slavina di brutalità cui si è accennato, in cui le espulsioni di due argentini non furono che un pretesto per dare avvio agli scontri. Se nell’Estudiantes spiccano i nomi di Bilardo, poi allenatore campione del mondo con la Selección, e Veron, padre di Juan Sebastian, nel Milan di Rivera, Prati, Lodetti, Schnellinger e Sormani il posto d’onore spetta a Nestor Combin. L’autore puntualmente ci racconta di come, al termine dell’incontro, il giocatore (franco-argentino) fosse stato temporaneamente arrestato in quanto disertore, ma c’è di più. Combin non è solo l’emblema di quella partita, perché ne uscì – letteralmente – in un bagno di sangue: è anche per tutti “l’amico di Gigi Meroni”, che qualche anno prima, dopo la terribile morte dell’estroso numero 7, aveva segnato una tripletta alla Juventus nel derby immediatamente successivo alla tragedia, dedicandola al compagno scomparso. Ancora, su Combin: giocatore sia del Toro che della Juve, ha rappresentato il più illustre esempio di argentino naturalizzato francese fino all’epoca di David Trezeguet, che ha chiuso sì in India, ma non prima di essere passato per River e Newell’s.

La circolarità degli eventi ci riporta infine al rigore di Gyilkos, di cui in questa sede è opportuno tacere. Certo è che, sul dischetto, una serie di finte e la scelta di un “cucchiaio” potrebbero costituire un peccato di hybris. Sia detto, per inciso, che il Cebola del rigore è tesserato – altro cerchio – per la squadra del Mister. Così, coniugando registro alto e basso, tra sprazzi di luce nobilmente descritti e gergo adolescenziale e volutamente sboccato (giova alla lettura l’espediente del “blocco note” di appunti del Mister, tutto infinitive), Voltolini realizza una personale doppietta: serra in un solo racconto il tributo a un’età complessa per antonomasia (pochi altri suoi colleghi, in Italia, ci sono riusciti in tempi recenti con altrettanto garbo: si potrebbe pensare al Fabio Geda de L’esatta sequenza dei gesti o all’Alessio Torino di Tetano) e rende lo sport un veicolo di purezza e valori “sani”. Un’alternativa o una soluzione, addirittura, alla guerra.


Dario Voltolini, Dagli undici metri, Baldini+Castoldi, Milano 2024, 96 pp. 12,00€