In un saggio del 2023, Alberto Russo Previtali ha ripreso un pensiero di Andrea Zanzotto su Antonin Artaud – considerato dal poeta di Pieve di Soligo come «“Forse il più sanguinosamente vero” di tutti coloro che nel Novecento “si sono ritrovati a scrivere versi”».

Riflettendo sulla questione, lo studioso afferma: «L’ideale di un’espressione artistica capace di sfuggire alla presa della forma articolata, di nutrirsi di ciò che precede la parola e il linguaggio, ha permesso ad Artaud di essere il teorico del teatro più sovversivo del Novecento».

La prospettiva centra un punto ampiamente condiviso dalla critica a proposito del drammaturgo francese – ma non solo. Solleva una questione interpretativa che riguarda gran parte delle forme poetiche del contemporaneo, nei confronti delle quali l’esperienza artaudiana si pone come apriporta

Il tracciato artistico di Artaud si innesta infatti in una fase di compromissioni (inaugurata, più di tutti, da Cézanne) che porta alla distorsione degli ordini valoriali socialmente determinati come interni all’opera d’arte. In altre parole: allo scarto dalla prospettiva lineare centrica.

Questo, a livello di lingua, spalanca all’artista la possibilità del sangue. Non nel senso della selezione del registro, del lessico o dell’estetica verbale, ma di afferenza ontologica. Il gesto creativo inizia a ritorcersi verso un dentro: l’artista non parla di sé ma nel sé – nel corpo

Intendendo l’atto poetico ancora in chiave post-leopardiana (e cioè come una traduzione, entro i confini dell’opera, della materia soggettiva), Artaud apre con la sua assurdità un varco. La disarticolazione dal collettivo può significare per il poeta l’identificazione di una traiettoria di scavo nuova, rinnovata. Il termine verso cui si muove è il proprio stesso aspetto: la propria voce – come parte di un discorso o, in senso solipsistico e allucinatorio, come voce di uno che grida nel deserto.

La raccolta del poeta pugliese Stefano Modeo, Partire da qui (Interno Poesia, 2024), si pone nel solco della questione, allineandosi a un passato recente che il poeta non ha voluto – o potuto – rifiutare

Nella sua versificazione si incontrano due tensioni distinte: la prima in direzione di una sfasatura associativa delle immagini, a tratti grottesca; la seconda rivolta a una risonanza collettiva – in cui la lingua è considerata nella sua qualità (in divenire) politico-sociale.

Non si tratta di un codice dialettale o, artaudianamente, di una disarticolazione, ma dell’assunzione di una prospettiva generazionale restando dentro la lingua. C’è, in questo, un intento di rifiuto delle voci di un canone e di un’editoria percepiti come colonialisti: un desiderio di ritorno allo spazio verbale in cui si è realmente espressa la propria storia politica, familiare – il proprio dolore

Il punto, per Modeo, è così il recupero di un’aderenza a una specifica linea – non la linea stessa. Un atto di rapporto a ciò che accade dentro, non necessariamente la tematizzazione e l’elezione di questo. Si vedano, in quest’ottica, le curatele recenti di Pasquale Pinto e Raffaele Carrieri, suoi conterranei. Il recupero dei loro corpora traduce una tensione endogena: ricollocarsi nelle strade annodate di Taranto vecchia – corrispettivo artritico di quanto accade nel corpo. Scrive in Allo specchio

Per averti con l’inganno
ho lasciato crescere i capelli
e una barba ispida e pungente.
Allo specchio ho l’aria di un Ulisse
con gli occhi pieni di memorie,
il mio corpo ha ossa deformate
gambe lunghe e curve; sono io
ti dico venendoti a svegliare.
Mi riconosci dall’altezza, il naso
l’incavo degli occhi. Mi chiedi dove
sono stato, perché ho abbandonato.

La precisione quasi maniacale del poeta nell’utilizzare un italiano standard, culturalmente riconoscibile come letterario, secolare, maschera un’afferenza di campo. Tale registro non è infatti per Modeo quello di un ‘invasore’: non è una parola repressiva, antidialettale. Al contrario, essa è per lui la parola della democratizzazione scolastica: è il registro della coagulazione sociale – che impiega nella contestazione aperta della storia letteraria della stessa lingua che usa.

La parola che compone, quindi, vale come atto (di rapporto) intestino a un contesto socialmente e politicamente ben definito – contesto che, nella sua storia personale, il poeta ha abbandonato. Una direttiva tematica della composizione di Modeo è infatti quella dell’allontanamento biografico. La traiettoria è quella del migrante interno – dopo gli anni di contestazione politica (già oggetto dei suoi versi nella prima raccolta, La terra del rimorso).

Qui emerge una seconda responsabilità di lingua: trovare una loggia (un senso verbale) al distaccoMutatis mutandis, al dolore. Richiamando il più noto degli Aforismi di Zürau di Franz Kafka, Modeo intitola il proprio stesso libro al posizionamento del corpo oltre il limite del rimpatrio («Da un certo punto in poi non esiste ritorno. È questo il punto da raggiungere»):

Quando è andato via
ha portato con sé un coltello
con cui squarciava la pancia dei pesci.
Lo tiene in tasca, ogni tanto
lo apre e lo chiude di scatto.
Vorrebbe infilzarlo in un tronco,
abbandonarlo nel legno ma
sulla lama c’è ancora il sangue,
il biancore del sale, del mare
e una vena cruda di nostalgia
che gli apre nel palmo una ferita.

Le punte immaginative sono sgrossate dalle oscurità di senso. La comprensione piana dell’atto di voce, che parla (parte) dal sé, cerca la risonanza con l’altro – come un discorso ubriaco, sugli ultimi sedili di un autobus notturno, quando l’intera prospettiva dell’occhio non supera la persona che ci si è seduta accanto e farsi capire da quest’ultima è la sola cosa di cui ci importa.

Le costole si contraggono nello sforzo di superare il rumore del resto: quando la lingua tradisce l’intero corpo è teso nel cercare un punto di contatto. E questo accade dal momento che una corrente, una diversa nascita in uno spazio altro, migratorio, ha portato alla dislocazione: «sulla lama c’è ancora il sangue».

La memoria è allora un rifugio attivo, privo di nostalgia: chiama a raccolta l’economia linguistica e l’evitamento del contrasto formale come strumenti per ‘essere riuscito a dire quanto avevamo da dire’. L’altro non risponde. Invece, «gli apre nel palmo una ferita»:

Appiccano fuochi a cataste di legno,
arrampicandosi come scimmie sui monti.
Dalle fiamme appare un diavolo nero
e scende una pioggia di faville dorate.
I maschi si picchiano i magri deltoidi
e la nuca per scherzo mentre alle ragazze
fanno il gesto del sesso. Non hanno nulla
da imparare, ridono di chi teme il maligno.
Sul loro petto Cristo ciondola in croce
se arriva l’amore lo baciano e giurano
davanti la fiamma col corpo che brucia
che non tradiranno mai quella fiducia.

Il poeta percorre un’arteria di straniamento. L’assurdo che dilaga, saturnale, nella lingua come nello spazio sociale ovunque. L’abitazione del contesto come spettatore non visto, non partecipe del rito collettivo, ribadisce la lontananza.

È questa a fondare nel poeta la necessità della comunicazione: di testimoniare il contesto stesso. Il rovescio emotivo del tradimento dei luoghi, la dimensione minima di una sofferenza quotidiana (riscattata senza accudimento) sono connessi da Modeo a un senso di alterità generalizzata: di un luogo che penetra nella voce – nel corpo. La sua quarta parete si sfonda. Il fenomeno non è più mediato dalla descrizione, ma im-mediato nella lingua. 

Preme, come basso continuo, un vuoto di senso: l’atto poetico resta senza direzione. Il poeta ritorna all’aver voluto dire – osserva il tradimento delle aspettative e confida, ancora, nell’essere stato all’altezza di un imperativo morale: rifiutare il mostro della colonizzazione culturale, verticale. Scansare la lombardizzazione di una voce del sud, cercando i punti in cui la sovrapposizione è tanto sottile da non distinguersi. 

Non arrivare alla fine del verso.
Frena la fuga che ti tiene desto
perdona tutti, tranne te stesso.

Tutto questo, Modeo lo scrive da Treviso – dove lavora e vive. Partire da qui è edito da una casa editrice pugliese


S. Modeo, Partire da qui, Interno Poesia 2024, 88 pp., €13.


In copertina: foto di Karina Halley su Unsplash.