Marco Vitale ha lo sguardo di Perseo: è leggero, in senso calviniano. Nelle pagine de La strada di Morandi (Passigli, 2024) c’è un’alternanza tra una certa equilibrata medietà – per la scelta delle parole, del tono e del ritmo –, e alcuni picchi verso l’alto generati dalla sintassi, perturbata dall’autore soprattutto con anastrofi e iperbati. Tale alternanza pervade tutto il libro e può essere isolata come una caratteristica generale della sua scrittura, sin dal maturo e cristallino esordio con Monte Cavo (Edizione del Giano, 1993). Ma quello tra la Gorgone e Perseo, come ci ricorda proprio Calvino, è un rapporto «complesso: non finisce con la decapitazione del mostro» (Lezioni americane, Milano, Mondadori 2017, p. 9). Così, anche nel libro di Vitale, la leggerezza non è solo un espediente per impedire alla realtà di pietrificarci, ma anche un modo per farcela osservare da un’altra prospettiva, in sorvolo, scoprendo che può generare ancora qualcosa.

Il libro è composto di 71 poesie divise in nove sezioni: Il taglio del bosco, Precisazioni per una tesi, Poeti, Quaderno francese, Ritrovate, Cosmografie farnesiane, Di acque limpide e scogli, La figura che stempera al mattino, Le belle lettere. Da un punto di vista strutturale si può parlare più di una “raccolta” che di un “libro”, nel senso che i testi non sembrano sottomessi a una rigida logica compositiva; questo però non significa che manchi un respiro unitario e, in tal senso, l’insistenza sullo sguardo posta in apertura non è fine a se stessa. In tutte le sezioni, infatti, pur nella loro rispettiva autonomia e tendenziale unità cronologica, sembrano esserci molti testi che hanno in comune proprio l’atto di osservazione e un certo modo discreto di guardare, da una posizione defilata.

A venire raffigurati, però, non sono soltanto i luoghi: è un libro soprattutto di incontri. Un catalogo di “tu” e di “noi”, talvolta fittizi ed eterei («Ci sarai stato pure tu | scendendo alla stazione in questo | vecchio, chiaroscuro caffè», p. 88, vv. 1-3), mentre altre volte concretamente individuabili, magari grazie alle dediche (moltissime nella sezione Poeti). Il più delle volte, quello dell’osservatore è un atto di registrazione dei movimenti minimi di chi gli sta accanto, come quando, in una poesia dedicata a due amici di lunga data, il poeta ce li tratteggia come in un bozzetto: «Ammaliato dal gatto | taceva Dario, Enrico | travagava al pensiero degli ulivi» (p. 32, vv. 8-10; i protagonisti sono Dario Bellezza ed Enrico Panunzio). Questa poesia è inoltre utile anche ad accennare a un’altra costante tematica del libro: la riflessione metapoetica. Così, ripensando ai dialoghi con i due amici appena citati, l’autore conclude: «Quanta, ripenso, verità […]  in quel dirsi || come la vita almeno andasse scritta» (vv. 13-15); ma in altri testi si possono leggere, ancora, riflessioni aperte sulla scrittura («Sarà vera la storia che il poeta | si conservi bambino lungo il tempo?», p. 43, vv. 1-2) o parziali dichiarazioni di poetica («È bella quando mente la poesia», p. 42, v. 3).

Non mi voglio dilungare sugli aspetti metrico-prosodici, ma devo almeno dire che i versi (caparbiamente anisosillabici) hanno un sapore secondo-novecentesco, con alcuni amori poetici più evidenti di altri; sicuramente quello per Bertolucci e per Sereni (come scrive bene Gabriella Palli Baroni nella prefazione), ma non si può non fare il nome di Montale.

Vorrei isolare tre aspetti che, leggendo, mi hanno colpito.
Il primo aspetto è, ancora, di tipo architettonico. Diverse poesie hanno una configurazione monostrofica a cui segue una coda: quasi sempre quest’ultima è composta da un verso isolato o un distico, più raramente da tre versi. Si deve precisare, inoltre, che questa coda è in continuità sintattico-semantica con la strofa che precede e non gode di una vera e propria autonomia. Anche quando segue una pausa sintattica, infatti, si tratta di una pausa debole, a cui generalmente fa gioco l’assenza di punteggiatura forte.

Ne fornisco un esempio:
Sì, forse soltanto nei romanzi
se durarono e giunsero
per le luci prospettiche
un prima e un dopo
stabilirono un tempo
che non fu mio ma sale
come la vecchia strada di Morandi

il tratto lieve opaco della polvere

L’impressione è che, nella quasi totalità dei casi, Vitale sfrutti questi spazi bianchi per ricercare ciò che Elisa Barbisan definisce un effetto di «potenziamento semantico».[1] Il vuoto tipografico interrompe una precedente spinta cataforica, con cui il lettore scivolava indisturbato di verso in verso, e prepara il palcoscenico per un finale che, così isolato, acquisisce un surplus di significato. Il fenomeno, che qui è già consistente, diventa ancora più importante nei casi in cui tale vuoto si inserisce tra due versi più o meno fortemente inarcati («[…] s’accendevano || le luci del vagone, il cielo si oscurava», p. 34, vv. 11-12), così come quando la coda è raddoppiata e si susseguono dunque due versi isolati, ma magari sintatticamente contigui («[…] e pare una ghirlanda || e brillano anche i nomi e si ricordano || anche i nomi e la luce», p. 25, vv. 7-9). In generale, si tratta di uno stilema ricorsivo che contribuisce a perturbare minimamente la linearità del dettato, portando il lettore a interrompere la lettura ed enfatizzare le chiuse (anche in senso teatrale).

Un secondo aspetto che mi ha colpito ne La strada di Morandi è la sua parola quasi sempre incerta, mai assertiva. Sono moltissimi i dubitativi, le interrogative, le ipotetiche, così come le formule linguistiche con cui il poeta attua un gesto di ripensamento. Basti pensare che il primo verso della raccolta apre proprio con un “forse” («Forse tra i libri, tra i romanzi | che s’aprono a un incerto | dopoguerra rimani |ancora un poco […]», p. 19 vv. 1-4), e che l’ultima poesia chiude con un’interrogativa che rimane sospesa («il profilo dei larici | non ha mutato colore?», p. 112 vv. 10-11).[2] Non si tratta di formule dubitative da intendere come una dissimulata strategia retorica, non siamo nel campo dell’arte della maieutica socratica e di una verità che deve emergere ristrutturando le convinzioni di chi legge. L’impressione, al contrario, è che a questo dubbio corrisponda uno sguardo che va a tentoni per via di un rapporto con la realtà che per l’io lirico è sinceramente non pacificato. Se c’è una verità, è incerta innanzitutto per chi scrive. La realtà cambia nel momento stesso in cui il poeta tenta di inchiodarla a una descrizione, o molto più spesso sembra detenere un segreto che lo sguardo non può permeare (si veda ad esempio p. 99 «La biblioteca si fermava | Dove portavano quei passi?», vv. 8-9; o p. 47 «Dove sarà finita quella barca?», v. 1).

L’ultimo aspetto che mi ha colpito sin dalla prima lettura è uno dei nodi centrali della raccolta: La strada di Morandi parla del trascorrere del tempo e soprattutto del tema del ricordo. Non è un caso che in quasi tutte le poesie i verbi siano coniugati al passato: lo sguardo del poeta, ancora una volta come la figura di Perseo, è uno sguardo all’indietro. Il libro di Vitale parla soprattutto del ricordo (a volte indelebile e altre volte sfumato e sfilacciato) di persone e di luoghi cari, amati, a cui spesso la memoria arriva per mezzo di un dettaglio-madeleine. In questo senso, La strada di Morandi è un libro proustiano, e perché il ricordo si inneschi basta un «melograno» (p. 31), il pensiero della «neve» (p. 37) o di un «gatto» (p. 32), e qualche volta anche un diffuso «profumo» che si spande in un vagone ferroviario (p. 34). Come in Proust, però, il tempo perduto verso cui si indirizza la ricerca di chi scrive non rimanda solo al malinconico indugiare nel passato ma è soprattutto un tempo che, riattivato dalla memoria, si annoda al presente. Questa caratteristica permette di arrivare anche al titolo del libro.

La «vecchia strada di Morandi», che oltre a dare il nome alla raccolta è anche al centro della poesia precedentemente citata (v. 7), è situata nel piccolo comune bolognese di Grizzana. Si tratta di una strada che portava alla casa di Giorgio Morandi e che il pittore ha più volte dipinto: una strada una volta polverosa e ormai asfaltata, irriconoscibile, e di cui può rimanere soltanto il ricordo. Certo, lei è sempre lì ed è sempre la stessa, ma è ricoperta e alterata, ha un’esistenza sotterranea, ed è quindi più palpabile nel ricordo che nella realtà. Questo sentimento di impermanenza è un tratto comune della raccolta, e non è un caso se, come sottolinea la prefatrice (p. 13), le ultime poesie si rivolgono a «un’interlocutrice ormai lontana». Effettivamente le ultime pagine hanno il sapore di un congedo da qualcosa o da qualcuno, di un malinconico saluto definitivo, ma allo stesso tempo sono un segno di reazione.

Le poesie de La strada di Morandi parlano di una realtà che viene rappresentata un’ultima volta, prima di mettersela alle spalle e asfaltare il selciato.


Marco Vitale, La strada di Morandi, prefazione di Gabriella Palli Baroni, Passigli, Firenze 2024, pp. 120, € 14,50.

[1] Faccio riferimento a E. Barbisan, Spazi stilistici. Stacco grafico e mise en page nella poesia italiana del secondo Novecento, in «Stilistica e Metrica Italiana», XX, 2020, pp. 211-246: 228.

[2] Sulle frequenti interrogative di Vitale sono ancora preziose le parole di Gabriella Palli Baroni nella prefazione del libro (p. 9).