Uscito nel gennaio del 2024 per Giulio Perrone Editore, Cose da fare per farsi del male è una raccolta di dodici racconti di Michele Orti Manara, il cui titolo va inteso in senso prevalentemente riflessivo. Si tratta infatti di narrazioni nelle quali quasi tutti i protagonisti, per scelta propria o su sollecitazione altrui, patiscono un qualche dolore necessario a sopportare o superare una situazione imprevista.

Così accade nel racconto che inaugura l’opera, Tuo padre che affoga, dove la giovane protagonista femminile – che si ritrova all’ultimo momento a interpretare una piccola parte in un film il cui regista è il padre – a un certo punto, per esigenze di copione, deve piangere. E il padre, che ha bisogno di girare la scena in tempi brevi, le chiede di rievocare il ricordo di due estati prima, quando la ragazzina si era convinta che il genitore, tuffatosi da una barca in un lago per recuperare il braccialetto dell’altra figlia, stesse affogando.

In Quello che ti avvelena il protagonista scopre per caso che Corinna, la baby-sitter dei suoi figli, si prostituisce. Pavido e moralista, le comunica di essere a conoscenza della sua doppia vita, ma non la licenzia soprattutto per non scontrarsi con la moglie, che lo avrebbe accusato di non averle riferito subito la verità, e si ritrova perciò a struggersi ogni volta che la famiglia ha bisogno di rivolgersi a Corinna.

Il marito del racconto Inseparabili regala alla moglie una coppia di pappagalli prima di partire per un viaggio di lavoro a Hong Kong. La quotidianità della donna prosegue meccanica, così come la novità della gestione dei due uccelli, finché alla televisione viene data la notizia di un’esplosione proprio nel luogo in cui si trova il marito. E l’immediatamente successivo squillo del telefono riscuote la donna dalla «attonita membrana che mi sta ricoprendo come una seconda pelle» (p. 126) per catapultarla non tanto nel dramma quanto nella cupa consapevolezza di una relazione in crisi, da tempo minacciata (almeno nella fantasia di lei) dalla presenza di un’altra persona.

Ogni racconto della raccolta è sorretto da una vivida immaginazione, oltre che da una scintilla narrativa insolita e attraente. Tuttavia, la sensazione generale è che governino l’opera una scrittura eccessivamente tesa a compiacere il lettore, e una presenza dell’autore altrettanto solerte nello spiegare quanto sta accadendo, sia da un punto di vista descrittivo che, potremmo dire, morale.

Per quanto riguarda il primo dei due limiti indicati, si potrebbero prendere diversi esempi di dialoghi un po’ troppo ampollosi, che per il desiderio di illustrare la situazione, e di farla progredire, difettano di verosimiglianza. Come quando ne La penultima notte alcuni giovani, alla fine dei festeggiamenti di Capodanno avvenuti in casa del protagonista, vogliono fare una partita a poker e individuare la stanza meno fredda dell’appartamento:

«Quel calorifero lì sono anni che dà problemi» rispondo. «Va a singhiozzo e nessuno riesce a capire perché. Un idraulico dice che sono i tubi intasati, un altro che è un problema di pressione, un altro ancora dà la colpa ai topi che rosicchiano le giunture, fatto sta che non se ne viene mai a capo e questa è da sempre la stanza più fredda della casa».
«E se andassimo a giocare di là?» chiede Taddeo.
«Di là dove? Non c’è una sola superficie che non sia coperta di bicchieri, cenere, patatine e schifezze che non voglio neanche sapere da dove vengono» dico io (pp. 132-3).

Qui è evidente come le due battute del dialogo occorrono al protagonista (e dunque all’autore) per fornirci una serie di informazioni sull’ambiente. Ma chi parlerebbe così?

Altrove, gli interventi del narratore – con l’intento di dare una cornice gnomica al racconto – appaiono a forte rischio di retorica: e il giudizio morale (questo il secondo limite individuato) rischia di risolversi in una formula che non brilla per originalità. Si prendano ad esempio queste due chiuse: «Quello che tieni nascosto prima o poi ti avvelena» (p. 76); «Il problema, con noi roditori, è che in caso di bisogno non ci facciamo scrupoli a divorare i nostri simili» (p. 113). Se il primo finale, come prevedibile, è del già citato Quello che ti avvelena, il secondo appartiene a Roditori, il cui protagonista è un addetto agli sgomberi incerto se lucrare su una collezione di preziosi fumetti trovati nella cantina di Francesca, giovane donna separata e madre di un bambino.

Insomma, l’impressione è che in Cose da fare per farsi del male la sicurezza di scrittura di Michele Orti Manara si avviti su sé stessa, si declini in storie magari attraenti (per ripetere un aggettivo usato poco più sopra, e sul quale torneremo) ma esangui, dominate da un eccesso di attenzione all’effetto che potrebbero suscitare in chi legge. Mentre nei racconti, lo scrivevamo di recente recensendo la mirabile raccolta Proprio quella notte di Tobias Wolff, deve essere la vita (che innerva personaggi e azioni), e non la prospettiva autoriale, a fare la morale.

Questi scrupoli – e così giustifichiamo il doppio utilizzo dell’aggettivo attraente – generano storie che possono forse avere presa sui lettori meno smaliziati, ma che in fondo poggiano su accadimenti poco plausibili, come costruiti ad arte.

In Che ci faccio qui, Orti Manara immagina un operaio che assiste dal vivo a un concerto del figlio, cantante di successo, e che si stupisce di come il ragazzo abbia accettato di darsi in pasto ai social, rinunciando così alla propria privatezza, quando lui e i colleghi della fabbrica hanno protestato al solo sentore che la dirigenza avrebbe nascosto diverse telecamere per spiarli. Certo, la scintilla narrativa può funzionare, anche perché nelle battute iniziali il padre della star, io narrante, omette di dire che si tratti del proprio figlio (ed ecco, peraltro, l’utilizzo di un espediente narrativo facile). Ma quale adulto presente a sé stesso non sarebbe in grado di comprendere la differenza tra il disinteresse nei confronti della propria privacy da parte di un’icona pop e l’indignazione di un operaio di fronte all’ipotesi di un reato che si fa beffe dello Statuto dei lavoratori?


Michele Orti Manara, Cose da fare per farsi male, Giulio Perrone Editore, Roma 2024, 215 pp. 16,00€