Les femmes au balcon è almeno due cose: l’ultimo film di Noemie Merlant presentato a Cannes 77, la regista e attrice francese conosciuta soprattutto per aver recitato in Ritratto di una giovane in fiamme, e un quadro molto noto di Pablo Picasso del 1937. Sempre queste due, condividono una miscela bulimica ed eterogenea di prospettive cromatiche, geometriche e tematiche. La pellicola di Merlant, proprio come lo sperimentalismo che animava il cubismo, rincorre e in parte alimenta il movimento cinematografico forse più vivace e innovativo del momento, quel body-horror cronenberghiano oggi rivisitato da autrici come per esempio Julia Docournau con Titane (Palma d’oro a Cannes 74), o da Coraline Fargeat, che con Revenge nel 2017 e con The Substance ora sta stregando la critica, compreso il nostro Niccolò Petruzzelli.
La storia è quella di tre sorelle: Ruby (Souheila Yacoub) fa la camgirl, Élise l’attrice (Noémie Merlant) e Nicole la scrittrice (Sanda Codreanu); una sera, vengono invitate a casa dal dirimpettaio, che, una volta solo con Ruby, ne abusa. È l’innesco di un incubo emotivo e visivo, di un rape-and-revenge in cui Merlant dosa di tutto: horror-comedy, thriller, ghost story. Il risultato è ça va sans dire confuso, ma ribolle di intuizioni azzeccatissime, cinematografiche e politiche.
Til It Happens to You
All’inizio de Les femmes au balcon una donna, che abita al piano sopra quello delle tre ragazze, esasperata e impaurita dal marito violento, lo ammazza; commesso l’omicidio, poi, si lascia andare a un sorriso liberatorio. È un prologo programmatico, che replica proletticamente quello che avverrà poco dopo con Ruby, quando quest’ultima, in un momento imprecisato della violenza subita, riuscirà a difendersi dal suo carnefice: lo impala su un’asta di alluminio e lo evira. La mattina seguente, assieme alle amiche, decideranno di nascondere il corpo per evitare di essere accusate e, soprattutto, di non essere credute.
Non è un caso che delle tre sia Ruby a essere violentata. L’idea di Merlant è di esacerbare lo stereotipo legato al sex working: lo stupratore sceglie la camgirl perché, dato il suo lavoro, la ritiene automaticamente disponibile dal punto di vista sessuale. Parallelamente, la regista, con i personaggi di Élise e Nicole, riproduce la stereotipia opposta. Entrambe sono delle attrici/scrittrici approssimate, aspiranti come si dice, che cercano di farsi spazio in un mondo per uomini e controllato da uomini, sia a livello lavorativo appunto – le zoom call in cui l’insegnate di scrittura dice alla ragazza che il suo sguardo (femminile) non è così efficace -, sia a livello coniugale, sentimentale – le chiamate ossessive del marito a Élise, per sapere dov’è, con chi è, cosa fa.
Proprio a Élise accade ciò che non vediamo accadere a Ruby. Il marito l’ha raggiunta a Marsiglia: in Hotel, i due copulano, nonostante al marito sia evidente che Élise non abbia voglia. È una scena diegeticamente frammentata: Élise in prima battuta riesce a dire esplicitamente di no, ma una volta che il marito dimostra di essersi offeso, lei lo richiama a sé; a quel punto, lui da sfogò alla sua rabbia sessuale, mima le posizioni animalesche del toro, con il bacino alzato all’indietro, sopra la sua preda supina e immobilizzata. In questo secondo tentativo, la volontà di Élise è negata “solo” implicitamente, tanto basta al marito per fare finta di nulla e disporre della sua donna.
Si tratta del tentativo di Merlant di offrire un controcampo e-vidente (etimologicamente, apparire interamente) a ciò che possiamo immaginare abbia subito Ruby. C’è di più: la tematizzazione di ciò che vuol dire consenso implicito e consenso esplicito. L’obiettivo è paradossalmente quello di de-criminalizzare lo stupro, privarlo del suo stato extra-ordinario e metterlo in scena in un contesto familiare, che rivela la sua natura aleatoria e predatoria: può succedere ovunque, a chiunque, persino in un cosiddetto contesto safe – quel Til It Happens to You che canta Lady Gaga (nella colonna sonora di The Hunting Ground, un docufilm sulle violenze sessuali nei campus americani).
Pertanto, la regista non ci mostra la violenza carnale nella sua brutalità estrema (il caso di Ruby), ma una versione subdola, che non arriva solo esogenamente dallo sconosciuto che stupra, ma che prolifica anche in una dimensione sentimentale tossica, il no muto di una donna – che ha delle ragioni personali e insindacabili – è trasformato a piacimento in un sì dal maschio. C’è un passaggio de La cronologia dell’acqua (Nottetempo, 2022), il caso editoriale di Lidia Yuknavitch, che lo riassume bene, quando la protagonista dice al lettore che Philip voleva una sega e io […] non riuscivo non riuscivo non riuscivo.
È tutta colpa di lui
Ho già citato un dettaglio che non è di poco conto: allo stupratore è stato tranciato il membro. Nicole, dapprima lo conserva in una scatola apposita, poi, più avanti nel film, proverà a ricucirlo al corpo esanime: l’uomo non può stare senza il suo pene. Non è, cioè, un oggetto meramente prostetico, è tutto lì il problema, è tutta colpa di lui dirà sempre Nicole. In altre parole, le dinamiche patriarcali sono talmente recettive e capillari che il maschio si definisce anzitutto per la sua operatività sessuale – un’idea molto vecchia che viene da molto lontano, all’origine di molte teorie pedagogiche e psicanalitiche, lo racconta Preciado in un suo saggio dal titolo abbastanza evocativo, Terrore anale (Fandango, 2018). Il film, al contrario, denuncia la necessità di una riconfigurazione di queste sovrastrutture (se proprio dobbiamo avere una gabbia), in particolare nell’epilogo corale in cui le tre ragazze si sbarazzano finalmente del corpo dell’uomo e, parallelamente, si accorgono che molte altre donne stanno facendo lo stesso. A seguire, la caralleta all’indietro che riprende la camminata di Ruby, Élise e Nicole con i seni scoperti: non sono incuranti dell’opinione altrui, bensì non hanno più paura di essere stuprate, cioè quella revenge di cui si diceva, non carnale ma politica. Finalmente la tempesta era scoppiata, dice il voice over di Nicole poco dopo.
In un gioco speculare, il tema della paura è altresì centrale in un’altra sequenza del film, in cui Ruby racconta della violenza in una live sul suo profilo di camgirl. Salta all’occhio che non ci sono utenti collegati, a differenza di quando la ragazza balla sensualmente. Ruby parla in lacrime di ciò che le è successo, trema: il suo è un racconto sincrono, live appunto, che però è al contempo asincrono, nessuno è connesso, a nessuno interessa, la società è una testimone disinteressata. È senza dubbio uno degli spunti più interessanti della pellicola di Merlant: se nessuno ha visto, se (come spesso accade) è la parola di una donna contro la parola di un uomo, in questo caso persino ucciso per legittima difesa, ci fidiamo di Ruby, le crediamo davvero?
Sulla vagina
La sequenza in cui Élise non dice no ad alta voce ricorda quella in cui anche Tara, la protagonista di How to Have Sex, rimane in silenzio. Non solo, credo che entrambe le pellicole, come scrissi tempo fa sul film di Molly Manning Walker, provino ad andare oltre la contingenza della violenza – in Les femmes au balcon è evidente proprio per la pluricitata evirazione dello stupratore: senza più organo genitale, non c’è più erezione – e inseguire la riposta alla domanda: perché il marito di Élise non si ferma, cosa lo eccita della violenza sul corpo di lei?
Com’è noto – da studi sulla psicopatologia dello stupratore e sulla sociologia della violenza sessuale, riassunti per esempio in A Natural History of Rape: Biological Bases of Sexual Coercition (MIT press, 2020) –, lo stupro (riassumendo) non a che vedere col sesso, ma con le dinamiche di potere e controllo. L’eccitazione, se così vogliamo chiamarla, viene dalla sopraffazione dell’altro, dalla possibilità di disporne a piacimento, dall’incapacità della vittima di reagire attivamente: ciò che accade per esempio quando il marito di Élise, ben conscio di cosa sta facendo, le eiacula anche dentro senza il suo consenso.
Meta-narrativamente, Merlant opera delle scelte che riflettono propria questa sete di potere: la camera che scandaglia e perlustra gli spazi chiusi, le riprese aeree e sospese che mappano il circondario attorno al balcone delle tre ragazze, i primissimi piani a mano. È un approccio onnisciente, che rimesta cose già viste e le porta in superficie – ovvero le ragazze che immergono le mani nella terra fresca di un vaso e ci giocano – e tira dritto verso la catarsi dell’epilogo.
Se The Substance mostra lo sguardo maschile sul corpo femminile, Les femmes au balcon si riappropria di uno sguardo necessariamente solo al e del femminile, in cui tutto è concesso, ogni strumento è utile alla causa. La sete di libertà del film porta Merlant a essere a volte ripetitiva, non incisiva, ma nel magma eterogeneo della narrazione, le intuizioni sono goduriose. Alla fine, resta un po’ d’aria nella pancia come a Élise, perché sì, succede anche alle donne. D’altronde la rivoluzione deve partire necessariamente dal corpo scriveva Eve Ensler nei famosi Monologhi sulla vagina (Il saggiatore, 2018).