La Mostra del cinema di Venezia, quest’anno all’81° edizione, tra caldo insopportabile, alert per i ragni violino e star hollowidiane di nuovo sul red carpet come scriveva Massimo alcuni giorni fa, conta una folta rappresentanza di storie al femminile. In questo senso, forse, la pellicola più attesa (assieme a Maria di Pablo Larrain) era Babygirl, che prometteva di alzare ancora di più la temperatura già alle stelle al lido, e che ha consegnato la Coppa volpi per la miglior interpretazione femminile a Nicole Kidman. L’altra attesissima storia tutta al femminile di Venezia 81 è stata poi quella che ha vinto il Leono d’oro, ossia The Room Next Door. Mettere in relazione questi due film potrebbe sembrare improprio, le tematiche non potrebbero essere apparentemente più diverse: il primo esplora la ricerca del piacere di Romy (Nicole Kidman), CEO di un’azienda di robotica, che inizia una relazione extraconiugale con Samuel (Harris Dickinson); il secondo racconta la storia di Martha (Tilda Swinton), ex reporter di guerra malata terminale che sceglie di ricorrere (illegalmente) all’eutanasia con l’aiuto e la compagnia Ingrid (Julienne Moore). Eppure, mi sembra che entrambi (con toni diversi ça va sans dire) ritraggano un’esperienza fisica, corporea quanto psicologica simile, nel senso in cui il corpo è sempre oggetto e soggetto dell’indagine – erotica da un lato, della morte dall’altro. Eros e thanatos, o quasi.
Babygirl (di Halina Reijn)
Quando ho letto i titoli della stampa che preludevano alla proiezione di Babygirl a Venezia – “il film che incendierà la mostra” (Vogue), “il film più hot dell’anno” (Vulture), – mi è venuto in mente il romanzo-scandalo per eccellenza, un vero e proprio cult della letteratura contemporanea, Il lamento di Portnoy di Roth. In particolare, da Babygirl e dalla sua (supposta) diegesi scandalosa appunto, tra sadomasochismo e sottomissione, studio dell’orgasmo e delle dinamiche di potere, non mi aspettavo altro che del materiale narrativo al limite del perverso (tra molte virgolette), sulla falsariga dell’incipit del capitoletto più noto di Portnoy, cioè Figomania, quando lo scrittore racconta della mattina in cui il protagonista si tirò fuori il membro dai pantaloni e iniziò a masturbarsi sull’autobus. Ma Baygirl, al massimo, è un incrocio improbabile (e sicuramente di meno successo) tra la trilogia di Cinquanta sfumature, Basic Instinct, Attrazione fatale e Proposta Indecente, in cui il BDSM diventa purtroppo la piattaforma di un disastro al limite del ridicolo (solo le musiche di Cristóbal Tapia de Veer, quello di The White Lotus, ben figurano).
A qualche giorno dalla visione, mi sono chiesto se il mio giudizio soffra di un bias generazionale. La pellicola, infatti, fissa più o meno dichiaratamente un target di persone attorno alla mezza età, nati tra gli anni ’60, ’70. Sotto questo punto di vista, la scena dell’amplesso iniziale, in cui Kidman e il marito interpretato da Antonio Banderas non conoscono i desideri reciproci, rappresenta proprio quell’indotta e/o inconscia repressione e misconoscenza della sessualità che ha investito trasversalmente la generazione di chi oggi ha quaranta, cinquant’anni. Sarà proprio questo il motivo per cui Kidman, come in Eyes Wide Shut, sente crescere il desiderio di realizzare le sue fantasie al di fuori del rapporto coniugale. Tuttavia, la ricerca di un’eccitazione “atipica”, che esca dagli schemi di una sessualità se così vogliamo chiamarla “tradizionale” – cioè il fatto che a Romy piaccia essere sottomessa, umiliata, controllata – è “liberata” in tre sequenze per certi versi parossistiche (in quasi due ore di girato). Nella prima, Samuel le ordina di inginocchiarsi e poi di spogliarsi; nella seconda Kidman “ammetterebbe” di provare piacere dal dolore perché si fa iniettare del botox in faccia senza anestesia; nella terza, Samuel, a una festa aziendale, le ordina di nascosto un bicchiere di latte, e Romy, obbedendo, beve tutto d’un fiato (in un’altra le intima di berlo, a gattoni, da una scodella).
Ecco, in Babygirl non c’è altro; la ricerca sessuale è racchiusa al massimo nell’allusione del latte come surrogato erotico del liquido seminale, quel doppio senso che non scandalizza neanche alle scuole medie (soprattutto oggi). Credo infatti che, a differenza di quanto è stato scritto, dopo Baygirl continuerete a bere il latte nello stesso modo.
Insomma, il film sembra essere la rappresentazione plastica di quel detto popolare che recita che di sesso si parla tanto e se ne fa poco: nella storia di Reijn se ne vede poco, se ne parla poco, e, di conseguenza, la liberazione sessuale della protagonista è affidata a qualche caricatura improvvisata sul BDSM. Non c’è, purtroppo, alcun discorso “sul metodo” riguardo il corpo e il piacere femminile, e il piacere sessuale in generale, ed è un peccato perché avrebbe ampliato l’orizzonte del mosaico di erotismo e sessualità molto presente quest’anno a Venezia, da Queer di Guadagnino, a Love di D. J. Haugerud, allo stesso The Room Next Door, in cui le due protagoniste parlano con dovizia di particolari dell’amante che per un certo periodo hanno condiviso.
The Room Next Door (di Pedro Almodóvar)
Poco dopo le prime battute di The Room Next Door, qualcuno potrebbe porre una domanda, che sembra banale, ma non lo è: perché si muore? A livello scientifico, non c’è una spiegazione condivisa, soprattutto se si tratta di morte “naturale”. In generale però, molti ricercatori concordano sull’idea che il numero di “cellule cattive” oltrepassi quello di “cellule buone”. Il caso del tumore (di Martha) è il caso più comune. La risposta alla domanda, quindi, per quanto non sia chiara, indica un colpevole preciso, il corpo, che da luogo del piacere diventa prigione, o, per dirla in termini induisti, la casa da cui siamo allontanati (vedi la Bhagavadgīta). Il film di Almodóvar sposa proprio il rifiuto della terminologia bellica riguardo il cancro (alla Sontag): se vinci, sei un eroe, ma se perdi? Ecco, Martha lo chiarisce all’inizio: se mi prendo prima io, il corpo non mi può prendere. È un’intuizione anti-capilista l’eutanasia, è il limite alla iper-produzione e per questo, d’altronde, la morte resta il grande non detto della società contemporanea, come suggerisce Byung-Chul Han (in Iperculturalità).
Almodóvar, dunque, adatta una materia complessa (dal libro di Sigrid Nunez What Are You Going Through) e per la prima volta gira un film in inglese. Il risultato è un flusso dialogico irrefrenato, accompagnato dalle classiche composizioni allodiegetiche il cui modello è il cinema-confessione alla Bergman. C’è, però, la sensazione ripetuta che Almodóvar non risolva la discrasia tra il suo cinema precedente e quello di The Room Next Door, in cui la nuova lingua inverte le coordinate note al regista. Le poche che restano – vedi i contrasti cromatici, il profilmico pennellato alla Hopper – sembrano a volte fuori luogo, sintomo di una mise en page specchiata, che inevitabilmente rischia di appiattire e non restituire l’intensità di cui vive il romanzo. Un esempio in questo senso è la citazione forse esasperata dell’epilogo di Eveline, l’ultimo racconto di Gente di Dublino di Joyce, in cui la neve cade.
L’epifania in The Room Next Door non sembra esserci, non è insomma il nuovo Dolor y gloria. La tematica, però, è talmente magmatica, in divenire, che per certi versi sostiene da sola il film (assieme alle due grandi interpretazioni), e non a caso, alla fine, ha valso la conquista del Leone d’oro. C’è una frase, in particolare, che forse racchiude più di altre i lunghi dialoghi tra Martha e Ingrid (che ricordano quelli tra Addie e Loius in Le nostre anime di notte di Kent Haruf, quando si raccontano i pezzi di vita che l’altro ha perso): Nell’agonia non si controlla se stessi. Mi pare un’asserzione che in qualche modo ribalta la grande intuizione delle prime pagine dell’Odissea, la dice Telemaco, e riguarda il fatto che quando nasciamo, per il fatto che non lo ricordiamo, dobbiamo fidarci del racconto di chi c’era, padre e madre per esempio. Martha, davanti alla morte, vuole affidarsi a sé stessa, e “controllare” chi le sta a fianco, Ingrid, e in fondo vivere per qualche giorno di quella malinconia che portano con sé due persone che tornano a parlarsi dopo tanti anni: perché non lo abbiamo fatto prima?