Tra fine settembre e inizio ottobre 2022 si sono susseguiti almeno tre eventi rilevanti nell’ambito della letteratura working class[1]: il 15 settembre è uscito per Atlantide Melanconia di classe, traduzione di Paola De Angelis del testo di Cynthia Cruz; il 24 dello stesso mese Alberto Prunetti ha pubblicato per la collana Filigrana di Minimum Fax un’analisi della letteratura working class su cui meditava da tempo (sulla quale ci si soffermerà); infine il 7 ottobre Annie Ernaux ha vinto il premio Nobel per la letteratura. Questi tre avvenimenti si saldano nello stesso orizzonte nel momento in cui si realizza che Ernaux è un’autrice che potrebbe tranquillamente trovarsi nell’analisi di Cruz, e che in effetti si ritrova nell’indagine di Prunetti (e in un capitolo in particolare, come vedremo).

Una premessa: oggi la working class ha connotati in parte diversi rispetto alla vecchia classe operaia (anche se alcuni di questi elementi esistevano già: solo col tempo si sono resi più evidenti e radicalizzati): è sempre meno maschile e binaria che in passato, è migrante e intersezionale, percorsa da linee identitarie distinte che in essa si incontrano e si ricompongono. Vi rientrano le lavoratrici e i lavoratori dei servizi, della cura e del doppio carico (retribuito e non), della logistica, della ristorazione, del lavoro sessuale, ma anche i lavoratori culturali a basso reddito, le persone precarie e sfruttate dell’università e dell’editoria. Per letteratura working class si intende, al netto della difficoltà definitoria, una letteratura «attorno al tema del lavoro (salariato e domestico) e di una accurata (ma non necessariamente realistica) rappresentazione della vita working class, della sua cultura e resistenza al potere» (p. 14).

Alberto Prunetti è scrittore e traduttore che il lavoro lo conosce e lo narra molto bene. Autore della trilogia operaia costituita da Amianto, 108 metri e Nel girone dei bestemmiatori, dirige la collana Working class per Alegre. Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class è il suo ultimo libro ed è un libro esplosivo. La forma ibrida (che mescola scrittura pamphlettistica, saggio, analisi testuale), il linguaggio schietto, la disamina lucida delle dinamiche del mondo editoriale e letterario, i salti alla prima persona (che non hanno niente di narcisistico), l’energia collettivizzante che anima le pagine di Prunetti, lo rendono esplosivo. Nel senso che ha davvero il potenziale per far detonare alcune delle componenti disfunzionali della filiera culturale. E non è poco.

Prunetti comincia la sua indagine problematizzando la rimozione della classe dal discorso letterario, editoriale e culturale. Decenni di retorica neoliberista hanno, del resto, provato a inculcarci che le classi non esistono, ripetendo il mantra secondo cui siamo tutti middle class e invisibilizzando così differenze che non sono solo di carattere economico. Ritroviamo lo stesso assunto di partenza nel libro di Cruz, che, come Prunetti, si sofferma sulle conseguenze di questa rimozione, ossia la scarsa presenza della working class nella letteratura e nell’arte in generale. Cruz procede però su un terreno psicanalitico, rievocando biografie di artisti di estrazione popolare (Kurt Cobain, Mark Linkous, Amy Winehouse, Cat Power, Clarice Lispector). Nello stesso solco si inserisce un testo di bell hooks (uscito per Tamu a fine novembre nella traduzione di Marie Moïse): Da che parte stiamo. La classe conta. Spiegando la scelta di dedicare uno scritto interamente alla prospettiva di classe, bell hooks argomenta che se ormai la discussione su genere e razza è, al netto delle difficoltà, un processo avviato, non vale lo stesso per la classe. Si tende a evitarla per la sua scomodità, dal momento che il discutere di essa implica un posizionamento che le persone dotate di privilegio (economico, sociale e culturale) non trovano conveniente fare. Eppure, è un elefante nella stanza. Non si può pensare di parlare di disuguaglianze, di oppressioni, senza considerare che la linea in cui ogni violenza si colloca è mossa anche dai privilegi di classe. E invece guai a parlare del capitalismo, che non è storico ma naturale. Esiste, e così deve essere. L’egemonia culturale?[2] Dei borghesi, che non hanno neppure bisogno di legittimarla, come ci insegna Fisher in Realismo capitalista.

Parlare di classe, quindi, è come evocare un fantasma. Prunetti usa l’immagine dello spettro per descrivere il moto della letteratura working class («…Quello spettro è il rimosso della deprivazione culturale imposta alla classe lavoratrice, è la risposta della classe lavoratrice al classismo strutturale del mondo delle lettere, della cultura, dell’editoria, dell’accademia, dell’arte», pp. 10-11)[3]. Rischiano di essere fantasmi le persone con retroterra working class che lavorano nel settore culturale o che scrivono. Perennemente fuori posto, non riconosciute da chi detta le regole per stare in questo mondo (cioè le classi medio-alte), prive dei privilegi che renderebbero le cose più semplici, sono soprattutto prive di un immaginario. Un immaginario che tenga insieme i sentimenti, le contraddizioni, le esperienze e anche le nevrosi di chi non appartiene alla classe media e che manca sia a chi fa lavoro culturale, sia a chi ne fruisce. Si sente spesso ripetere che c’è un ampio numero di persone che non leggono, ma quante volte si riflette sul fatto che forse non è questione di ignoranza, bensì di potenziale rappresentativo? Che la maggioranza delle trame si sviluppa per congegni narrativi che procedono per trasformazioni, agentività e individualismo, dai quali soggettività con storie operaie non si sentono rappresentate? O ancora: una stanza tutta per sé sarà pure necessaria per scrivere, ma se poi mancano carta e penna? Oppure se manca il tempo? Finisce che chi materialmente non riesce neppure a leggere corre il rischio di farsi raccontare da chi invece di tempo ne ha in abbondanza:

Detto questo, facciamo due conti: lavorate dieci ore al giorno. E vi ho appena detto che per scrivere un libro dovete leggere tanto, e pure fare attivismo, e ancora a scrivere non avete cominciato. È un macello. È questa una delle ragioni per cui siamo fuori dai giochi della narrativa. Però se riuscite a rubare ore al sonno, si può fare. Tutta questa fatica, questa rabbia, questa dedizione vi torneranno indietro (p. 224).

In un continuo andirivieni tra il panorama working class britannico (che va da Alan Sillitoe a Frank McCourt, passando per Trainspotting e arrivando a Douglas Stuart, Graeme Armstrong e Cash Carraway), e quello italiano, Prunetti traccia la traiettoria in ritardo del secondo. L’Italia ha indubbiamente una tradizione di letteratura industriale e operaia le cui radici si trovano nei primi anni Sessanta. In questo periodo, infatti, si registrano la pubblicazione del numero del “Menabò” dedicato a letteratura e industria (1961) e l’uscita di alcuni titoli di Ottiero Ottieri e Paolo Volponi, ma si tratta di narrazioni dall’alto, che descrivono l’alienazione degli operai senza scendere nella dimensione del loro vissuto; a partire dal 1969, invece, con la progressiva democratizzazione del sapere, emerge un protagonismo operaio che conduce a opere come Tuta blu di Tommaso Di Ciaula (recentemente ripubblicato proprio da Prunetti per Alegre) e alle poesie di Luigi Di Ruscio, oppure alla comparsa di riviste che guardano con interesse al mondo operaio: Salvo imprevisti (diretta da Mariella Bettarini) e Abiti lavoro (fondata dagli scrittori operai quando hanno notato che l’interesse delle istituzioni letterarie veniva scemando). A partire dagli anni Ottanta la narrativa risente infine della crescente invisibilizzazione della classe dal discorso culturale e dovrà aspettare i primi anni Duemila per tornare a parlare di lavoro e di fabbrica. Solo per citare alcuni titoli: Meccanoscritto di Metalmente, Wu Ming 2 e Ivan Brentani; Ferriera di Pia Valentinis; La prima cosa fu l’odore del ferro di Sonia Maria Luce Possentini; Figlia di una vestaglia blu di Simona Baldanzi.

Queste scritture non sono (solo) narrativa del lavoro. Non sono la narrativa del precariato o la nuova letteratura industriale. Chi parla in questi libri? Di chi sono queste voci? Con che legittimità parlano di classe? Siamo le «seconde generazioni». I figli e le figlie della vecchia classe operaia […] Abbiamo avuto la possibilità di studiare, di imparare «la sublime lingua borghese», non possiamo tradire il compito che ci è stato assegnato, quando ci dicevano: studia. […] Siamo anche la nuova classe lavoratrice e abbiamo una voce che è diversa da quella dei nostri vecchi. Siamo la nuova working class […] tutt’altro che morta (p. 29).

E oggi? Anche se qualcosa si sta muovendo, oggi il mondo del libro continua a essere dominato da chi possiede quello che Pierre Bourdieu ha definito capitale culturale (e sociale, relazionale). Che permette di pubblicare, togliendo spazio a chi viene da un contesto working class; che consente di intendere la scrittura come un ailleurs, un’attività amatoriale fatta più per privilegio culturale che per proventi economici e che quindi legittima alcuni editori a pagare male o a non pagare affatto (mentre i precari del lavoro cognitivo affiancano alle traduzioni/correzioni/scritture varie almeno un altro paio di impieghi per vivere decentemente); che fa sì che ai festival e agli eventi ci vadano quasi sempre le stesse persone, protagoniste di un circuito autoreferenziale. Ciò determina infine una situazione in cui chi non ha il privilegio di poter lavorare gratuitamente deve sottrarsi al lavoro culturale, nella consapevolezza che, dopo la sua rinuncia, lo sfruttamento sarà diretto verso un’altra persona. 

Quando accade che il libro di una persona working class viene accettato da una casa editrice e viene quindi dato alle stampe, subentra il rischio di essere incompresi: il rischio cioè che da questo tipo di libri il lettore borghese si senta confortato nel suo stato di superiorità etica, oppure si senta libero di guardare la povertà, leggendo voyeuristicamente dei traumi delle persone working class. Altro pericolo: quello di essere incasellati. Come a dire che se sei una persona cresciuta in un certo ambiente, che ha fatto certe esperienze, che ha subito certe violenze e discriminazioni, devi parlare di questo: dei traumi, delle difficoltà. Senza slanci in avanti, in una sedentarietà conservativa. Per questo si deve evitare che altri raccontino storie che non gli appartengono, che non sono le loro. Realismo vuol dire anche lasciare che, almeno in prima battuta, a trasporre in termini letterari certe istanze sociali siano le persone a cui queste condizionano la vita stessa.

«Si può raccontare il lavoro senza fare narrativa working class» (p. 29). Vuol dire che si può assumere il punto di vista del padrone o del traditore di classe, cioè di chi si è assimilato al ceto dominante, silenziando il conflitto. Proprio come si può provare a raccontare il dominio maschile senza aver mai provato paura a tornare a casa, oppure il razzismo senza aver mai rischiato di essere aggredito. Cosa significa? Che non si può eludere il legame che c’è tra corpo e oppressione. I corpi e il loro modo di attraversare gli spazi ci ricordano continuamente chi siamo, da dove veniamo e come ci collochiamo nell’asterisco delle vulnerabilità. Poter non avere coscienza di ciò è un privilegio, scegliere di non farlo è rifiutarsi di prendere posizione. Mettendo in guardia da un’intersezionalità che perde la classe per strada (e quindi dal femminismo liberale) e citando Annette Kuhn, Prunetti sottolinea come, al pari del genere e della razza, anche la classe è fisica, embodied. È incarnata nei corpi delle donne operaie che, oltre al lavoro di fabbrica, svolgono anche lavoro di cura e riproduttivo, e per questo sono destinati a logorarsi più in fretta; in quelli delle lavoratrici migranti, incastrate in catene di sfruttamento della cura; è nei calli dell’operaio che nel documentario Retour à Reims (Fragments)[4] confessa di non riuscire a slacciare i bottoni alla figlia; è nelle mani della madre di Annie Ernaux che, operaia in una fabbrica di margarina dove pativa freddo e umidità, le aveva «mouillées attrapant des engelures qu’on gardait tout l’hiver»[5]. Per questo chi subisce un’oppressione deve essere protagonista della relativa lotta e avere le parole per raccontarsi dall’interno, per non correre il rischio di essere compatito, rappresentato come vittima, o peggio ancora demonizzato, come accade in Acciaio di Silvia Avallone (2010). All’analisi di questo romanzo Prunetti dedica l’intero quarto capitolo, sollevando diversi aspetti problematici: sessualizzazione degradante della working class, espedienti tesi a solleticare e confortare il lettore borghese, descrizione della violenza patriarcale come se fosse prerogativa solo delle classi basse. Ma soprattutto Prunetti denuncia la messa a testo di un malfunzionante sistema di attribuzione delle colpe della morte operaia.

Arriviamo a uno dei nodi concettuali che emergono dall’analisi di Prunetti: il problema degli strumenti e dei codici espressivi. Come parlare di storie altre dalla classe dominante? Come farlo senza cadere nella trappola dell’immaginario egemone? Paulo Freire diceva che il nucleo di ogni rivoluzione si trova nello sforzo di liberarsi della piccola parte di oppressore presente in noi, che conosce le strategie dell’oppressione e deve abbandonarle. Se è vero che «gli strumenti del padrone non distruggeranno mai la casa del padrone», bisognerà creare nuovi arnesi. Nel frattempo, si possono far saltare dall’interno quelli già in uso, modificare le strutture testuali mentre si introducono nuovi modelli narrativi. Prunetti riprende bell hooks e il suo suggerimento a fare un uso nuovo del linguaggio dell’oppressore, reinventarlo, scardinarne i codici per renderlo qualcosa di più. La lingua, la letteratura, il romanzo, l’editoria: ambiti in cui si parla il codice dell’oppressione, sia essa di genere, di razza, di classe, la lingua del padrone. Ma qui bisogna introdursi, trovando un interstizio, anzi un margine da cui parlare. E poi provare a riscrivere il margine in cui l’industria culturale relega le persone di classe popolare come un «luogo radicale di possibilità e di creatività», un bordo dal quale «immaginare alternative e nuovi mondi»[6].

Le forme che la creatività assume sono spesso anche una questione di classe. Di conseguenza un lavoro va fatto anche sulle strutture della narrazione, dato che la maniera di raccontare cambia a seconda del vissuto (partire da sé per raccontarsi rimane una delle pratiche più radicali di messa in discussione dell’esistente). Disinnescando la tendenza a considerare universali storie narrate da punti di vista maschili, muscolari e privilegiati, si deve riflettere sul fatto che le storie working class, e in generale le storie oppresse, seguono movimenti diversi: i protagonisti sono raramente ripiegati su conflitti interiori o attori/attrici di avvenimenti eccezionali, più spesso sono eroi di vita ordinaria, in cui la dimensione corale è fondamentale. Anzi, in queste vicende il potere trasformativo non è risultato di un processo individuale bensì dell’azione collettiva, anche in piccole tessere narrative. Penso a Figlia di una vestaglia blu, in cui Simona Baldanzi descrive l’orgoglio operaio della madre e delle compagne che, lavoratrici in una fabbrica di jeans, per attuare minime forme di resistenza quotidiana, a volte si accordavano perché qualcuna non cucisse un passante, non mettesse un bottone, oppure non rifinisse gli orli: il risultato finale sarebbe stato un jeans incompleto e quindi non vendibile.

L’uso della prima persona, frequente nelle scritture di soggettività operaie e poste al margine, non è un tic narcisista, ma una presa di responsabilità rispetto a quanto si mette in forma scritta: dire io è come dire noi. Viene in mente Annie Ernaux, nei cui libri la presa di parola equivale spesso a una presa di coscienza personale e politica, e in cui il soggetto narrante è calato tanto nel proprio vissuto quanto nel racconto storico più ampio. È questo uno dei consigli inseriti da Prunetti in un’interessante pars construens che è il Piccolo manifesto di scrittura working class: se il romanzo è un’arte borghese, bisogna tentare di distorcerne le componenti per restituirle in una veste inedita, trasgredendo le aspettative sulle storie working class. Prediligere l’umorismo, ibridare i generi letterari, rinunciare alla postura della vittima, raccontare il corpo ed esprimerne la lingua, servirsi del simbolico e usare la propria voce per fare narrazioni dal basso: sono alcuni dei suggerimenti con cui Prunetti crede si possa contribuire alla creazione di un nuovo immaginario collettivo.

Soprattutto non vogliamo uscire dalla miseria individualmente, lasciando gli altri indietro, a salvarsi il culo da soli: vogliamo combattere la miseria e lo sfruttamento e «sortirne tutti insieme, che è la politica», contro il privilegio, che è «sortirne da soli» (p. 199).

Un orizzonte comune è salvifico anche per le persone che lavorano nell’industria culturale dopo essersi allontanate dalla propria classe di origine e che si ritrovano a vivere in un limbo perché sì, hanno studiato e hanno imparato a dare ordine al mondo con le parole, ma per farlo hanno dovuto indebolire o abbandonare la casa e le strutture sociali di partenza. Si delinea così la figura del transfuga di classe, che Prunetti analizza nel quinto capitolo e che è incarnata da autori e autrici come, ancora, Annie Ernaux e Didier Eribon. Superare le barriere di classe spesso vuol dire ancora restare ingabbiate da un lato nel senso di colpa per aver perso i legami con le proprie radici, e dall’altro nel disagio dovuto alla difficoltà ad assimilarsi alla classe dominante; difficoltà dovute anche al fatto che poche persone di estrazione popolare lavorano nel mondo del libro. Lo stesso concetto è espresso in termini sociologici da Cruz, che parla di intermedio-tra-due-morti (la classe di partenza e quella di arrivo), e in termini letterari da Annie Ernaux, che chiude il libro dedicato alla figura della madre (Une femme) eleggendola a ultimo nodo con il luogo – geografico, simbolico, sociale – in cui è nata:

C’est elle, et ses paroles, ses mains, ses gestes, sa manière de rire et de marcher, qui unissaient la femme que je suis à l’enfant que j’ai été. J’ai perdu la dernier lien avec le monde dont je suis issue[7].

Prunetti richiama la necessità di liberarsi dal pensiero che la borghesia sia un luogo sicuro e di emancipazione, esortando a tornare indietro, a riprendersi le dannate città operaie per raccontarle ancora, raccontarle meglio, a tenersi stretta la propria eredità di classe. In ottica intersezionale e inter-relazionale, dobbiamo provare a mescolare le lotte, connettere le politiche identitarie anche nella narrativa e nella critica letteraria, senza trascurare le contraddizioni e anzi riconoscendole. Fare in modo che i soggetti silenziati si riprendano la voce (ché «la trasformazione del silenzio in linguaggio e azione è un atto di auto-rivelazione e questo appare sempre carico di pericolo»[8]) e decidano come e quali storie narrare, per scalfire la normatività della macchina editoriale e mostrare, partendo da sé, dal proprio corpo, come le oppressioni tutte – patriarcato, razzismo, sessismo, classismo, abilismo – siano una zavorra comune.   Ancora da hooks, questa volta intrecciata con le teorie di David Graeber, viene un altro suggerimento: quello di mettere al centro la cura reciproca per realizzare concrete azioni di solidarietà. Guardare a sé stessi come primo atto di indulgenza e non di ripiegamento individualista (Audre Lorde diceva: «Curarmi di me stessa è preservarmi, è un atto di resistenza politica») per guardare agli altri, passando per le scuole e per una pedagogia libertaria, per i circoli, le assemblee, le piazze. Può essere un punto di partenza per una politicizzazione collettiva delle esperienze e del conflitto e per una loro resa letteraria. Senza l’aspirazione a diventare dominio, a metterci al centro, ma piuttosto con quella di trasferirci tutte sul margine.


[1] Definire i confini della letteratura working class è un’operazione difficile, essendo necessario prendere in considerazione diversi elementi: oggetto della narrazione, estrazione sociale dell’autore/trice, impegno politico. Come vedremo nel testo, Alberto Prunetti cerca di tracciare le linee di questo concetto sfuggente in particolare in relazione al contesto italiano.

[2] «La struttura capitalista è un mostro con cento teste», ci ricorda Audre Lorde, Sessismo: il volto nero di una malattia americana, Sister Outsider, trad. di Margherita Giacobino, Marta Gianello Guida, Milano, Meltemi, 2022, p. 50.

[3] Anche Cruz attinge allo stesso immaginario, di chiara ascendenza marxista («Uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro del comunismo», Manifesto del partito comunista): «… Né viva né morta, la working class esiste fra i mondi»; «Una forza negata, invisibile alla classe media, bandita dal discorso, che però esiste come un fantasma ai margini della società: così lo spettro della working class aspetta di riemergere», Melanconia di classe, Atlantide, 2022, pp. 14, 97.

[4] Tratto dall’omonimo memoir di Didier Eribon e diretto da Jean-Gabriel Périot.

[5] «le mani bagnate si coprivano di geloni che duravano tutto l’inverno», Una donna, trad. di Lorenzo Flabbi, Roma, L’Orma, 2018, p. 34.

[6] bell hooks, Elogio del margine. Scrivere al buio, trad. di Maria Nadotti, Napoli, Tamu, 2020, pp. 132-134.

[7] «Era lei, le sue parole, le sue mani, i suoi gesti, la sua maniera di ridere e camminare, a unire la donna che sono alla bambina che sono stata. Ho perso l’ultimo legame con il mondo da cui provengo», Una donna, p. 121.

[8] Audre Lorde, La trasformazione del silenzio in linguaggio e azione, Sister Outsider, p. 24.


Alberto Prunetti, Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class, minimum fax, Roma 2022, 240 pp., 14,25 €.