«Fino a poco tempo fa i reading di poesia erano l’evento per eccellenza del venerdì sera […] A un reading di poesia sentivi nascere il nuovo. Era la sirena libera-tutti». Siamo in Italia? Macché. Non sarei qui a scrivere di venerdì sera a proposito dei reading del venerdì sera altrimenti. C’è un luogo nel mondo in cui però parlare la poesia accade. E quando parla, la poesia usa formule magiche: incanta, strega. E voi? Ascoltate: immaginate: vedete. «È il caso di evidenziare che negli Stati Uniti i reading poetici sono stati il falò intorno al quale si sono sviluppati nuovi movimenti» (John Freeman). Dalle conferenze itineranti di Emerson, al Rinascimento di Harlem, alla lettura di Howl alla Six Gallery di San Francisco (sentite il tempo? C’è Kerouac tra il pubblico, la voce di Ginsberg suda sulla fronte delle migliori menti di una generazione) fino al Black Arts Movement degli anni Settanta. Voci, una volta. Voci oggi.

La casa editrice Black Coffee ha mantenuto una promessa fatta ai lettori qualche anno fa e grazie alla curatela di John Freeman e Damiano Abeni (traduttore) continua il progetto dedicato alla divulgazione di alcune delle voci più interessanti della scena poetica americana finora in parte inedite in Italia, con Nuova Poesia Americana, vol. 3 (2021). Dentro: Jericho Brown, Patricia Smith, Sandra Cisneros, Marilyn Hacker, Nikki Finney e Ishion Hutchinson. A tenerli assieme, la specificità dell’oralità nella poesia americana. Sono tutte poesie che noi leggiamo (in traduzione), ma che sarebbe bello potere ascoltare, e che si interrogano sul rapporto conflittuale tra oralità e scrittura. Per questa ragione, si è deciso di integrare l’articolo proponendo per ciascuno un reading. Come già accaduto per il primo volume e poi per il secondo, ho preferito che questo lavoro stazionasse a lungo tra il comodino e il mio stomaco, il mio stomaco e il comodino. Bisognerebbe abituarci all’idea che la poesia non abbia una data di scadenza. Che un libro non vada a male in soli due o tre mesi. Che si possa raccontare di una voce sentita, o letta, anche a distanza di tempo. Dentro ciascuno di noi esiste una casa fatta per le voci degli altri. Si fa sempre chiasso, in quella casa. Ma nessuno – nessuno – parla sopra gli altri. Semmai con gli altri. È il modo che le voci hanno per scatenare un terremoto degli organi, per puntare alle orecchie del corpo. Per prendersi la nostra immaginazione.

C’è una domanda da porci, prima di tutto: è nella genetica della poesia (nella sua memetica, secondo l’originaria accezione dawkinsiana del termine) cominciare dalla voce, per poi finire sulla carta? Oppure, quella dell’oralità in poesia è qualcosa che ha a che fare con una particolare lingua, un particolare luogo, una particolare storia? In altre parole: una poesia ad alta voce è una poesia bambina, che ancora non ha imparato a scrivere? Tutto potrebbe essere cominciato così, dai primi ominidi che comunicano coi versi. Omero non vedeva con gli occhi, ma con la voce. Ai re non è mai piaciuto leggere, né mangiare in silenzio. Così una tradizione millenaria ci porta su questa strada: la poesia nasce prima della scrittura. Di più, la poesia esiste prima ancora che la scrittura sia stata inventata. Gli aedi erano dei custodi della memoria: dèi bambini della memoria. Poi la poesia, faccia a faccia con il verde dei papiri e il bianco della carta, è diventata grande: macchiare il foglio è una esperienza che macchia, incancellabile. Se pensiamo agli Stati Uniti, però, sembra che abbia deciso di fare come Peter Pan: imporsi di non diventare adulta mai.

Jericho Brown apre la danza. Vincitore del Premio Pulitzer (2020) con The Tradition, di cui lo stesso anno alcuni estratti erano apparsi su «Yawp» e che oggi può essere letta integrale a cura di Antonella Francini (Donzelli 2022), per Freeman nella poesia di Brown «la sintassi detta il ritmo del respiro». E in Cardiopatia subito è pronunciato il suono della propria poetica: «Le parole | sono un senso del suono […] Io non voglio il mondo. Voglio solo | il senso africano del suono americano». Così come ciò che si è osa essere pronunciato: «L’abbraccio di mio padre è più forte | ora che sa | di non essere l’unico uomo della mia vita». Anzi, la voce della poesia è così alta da tacitare il padre a uomo che «Sussurra». Fino poi a prendere il sopravvento sul ritmo dei cuori: «Ma non riesco a sentire il suo cuore | e lui non riesce a sentire il mio – | c’è troppa carne tra di noi, | due uomini innamorati» (in Talis Pater). Altrove invece la carnalità dei corpi coincide con la carne della voce: «Parlami nella lingua di un amante – | dimmi che sono la tua troia, e io canterò tutta la notte» (in Solco 1: Lush Life).

Ogni poesia detta da sé il proprio ritmo. Così Emerson, che voleva emanciparsi dalla letteratura europea e formare una letteratura nazionale, una letteratura americana. Walt Whitman seguì il consiglio di Emerson: la prosodia di Leaves of Grass è oceanica, la metrica è respiro. La voce di Emily Dickinson è capace di volare tra gli spazi dei suoi – – –. Quella americana è una poesia tradita fin dagli albori: una poesia che nasce come tradizione e che già la rompe (come abbiamo raccontato nella puntata precedente). È strano il giro compiuto: in fondo, la metrica nacque come sostegno alla poesia orale, la rima, le assonanze, persino il numero delle sillabe, tutto doveva aiutare la memoria dell’aedo. Quando poi la metrica si trasferì sulla carta, per sfuggire alla sua gabbia, la poesia orale cercò la libertà con il verso libero. Tutto si capovolse.

Eppure, gli stratagemmi non mancano – stratagemmi che cercano di stregare. Con Duplex, Brown per esempio gioca sulle ripetizioni dell’immagine precedente, aggiungendo però ogni volta un accostamento diverso, che si ripeterà la volta successiva. «Comincio con l’amore, sperando di finire là. | Non voglio lasciare un cadavere straziato. || Non voglio lasciare un cadavere straziato | pieno di farmaci che muta colore al sole. || Alcuni dei miei farmaci mutano colore al sole»: ogni volta che una stessa immagine ne incontra una nuova, la prima muta forma. Il trucco di Patricia Smith è un altro: «Mi sono allenata sulle parole che so» (in Libera e linda). Quattro volte finalista al National Poetry Slam, le sue poesie proposte in antologia sono tutte inedite, quasi che anche la fucina della poeta fosse oceanica. C’è però un’altra caratteristica importante della poesia detta ad alta voce: gridare alla contemporaneità. Per Freeman «L’America di Smith è una nazione armata fino ai denti». «Il vostro sogno? Fare l’America grande. Di nuovo […] fraintendete del tutto l’America» scrive Smith in un testo il cui titolo parla da solo: Parlate ora, o tacete per sempre. È la poesia che chiama al passaggio di parola, invitando anche il lettore a dire. Per altri versi, la poesia orale americana ha flirtato con la musica dell’improvvisazione jazz e del blues: «mi sono svegliata stamattina | mi sono svegliata stamattina || la prima bugia che così tanti di noi dicono» (in il letto era le parole di un blues).

La prossima poeta è presentata da Freeman così: «Sandra Cisneros non abita altri soggetti se non se stessa. E Cisneros contiene moltitudini». Capacità della poesia americana è quella di focalizzare dei temi. La poesia di Cisneros ha la voce dell’emancipazione femminile – ma anche dell’emancipazione della poeta:  

Ho scassinato la porta con la poesia e sono fuggita.

Una volta per tutte […]

Volevo fare la scrittrice. Volevo essere felice.

Che roba è? A vent’anni. O ventinove.

Amore. Bebè. Marito.

Fatiche. Le immense imbecillità della vita.

Volere e non volere.

Levami le mani di dosso.

(in Prefazione)

E non è un caso che Freeman citi Whitman, perché Cisneros è abilissima nell’uso della didascalia, come se il soggetto prendesse forma propria per aggregazione: «Tu tiri fuori la messicana in me […] Tu tiri fuori la Dolores del Rio in me. | La bisbetica messicana in me. | Le selvagge navajos, bagliore e passione in me. | Il fare un finimondo, la danza con il diavolo-zampa-di-gallo in me. | Il sequin stellato in me» (in Tu tiri fuori la messicana in me). La poesia va avanti per altre quattro pagine: ma potrebbe continuare ancora, non esaurirsi mai.

Marilyn Hacker ha vinto il National Book Award (1974) con la sua raccolta di esordio, Presentation Piece. Ha costruito i suoi testi «attingendo a forme antiche quanto la poesia stessa» come villanelle e sonetti, ghazal e pantoum, cioè un tipo di poema popolare malese dai versi intrecciati. Ciascuna di queste forme ha a che fare, ab origine, anche con la memoria. Dove la memoria però cerca di fissare le coordinate di una poesia ad alta voce, questa è trascinata via dalla corrente dell’oralità, una ispirazione attuata: «Si è ciò che si è sapendo | che non si è più così» (in Calligrafie II). Ancora, più avanti Hacker tira i lacci tra le istruzioni della memoria e lo smarginamento dell’ispirazione: «Almeno due verbi per | la partenza, cinque per il desiderio, | le vengono in mente veloci». La gabbia metrica diventa così un calderone. La ripetizione rimica della forma araba del ghazal assume altrove il corrispettivo prosodico della trasmissione orale di una storia o di una leggenda: «Recitaci di nuovo quel verso, quello sui tempi bui | «Quando verrano i tempi bui, canteremo i tempi bui» (in Ghazal: i tempi bui). Si sa però che l’oralità l’ha sempre vinta sulla memoria, qua trasmette, là aggiunge: invece di ricordare, si crea. Creando, si ricorda.

«Intessendo le proprie poesie a mo’ di formule magiche, Hacker persegue un intento unico nel suo genere nel contesto della poesia americana: tramite l’incanto induce nel lettore un desiderio di impegno civico» (John Freeman). Potrebbe sembrare che una certa poesia orale abbia a che fare col pulpito, con il poeta come predicatore. Una sensazione che nasce da una particolarità della tradizione puritana americana: il rapporto diretto tra Dio e il fedele, senza mediazioni, che portò con i primi coloni anche la produzione massiccia di autobiografie spirituali e diari di conversione. Ciascuno poteva essere il mistico di sé stesso. Emerson è stato il ponte tra questa tradizione e una poesia fondata sulla self-reliance, cioè sulla verità autoevidente. Un altro modo per tagliare con la tradizione europea. Così a una poesia bambina che voleva fare a meno dei grandi rimanevano pochi appigli: doveva guardarsi intorno, saltellando tra le ombre della retorica e dell’oratoria puritane. Bisognava prendere, senza farsi accerchiare. Per non diventare la copia dei suoi genitori adottivi, questa poesia che non voleva crescere ha occupato nella società la posizione del mago.

Quella di Nikky Finney è una poesia che guadagna ritmicità man mano che si muta in racconto – che il racconto avanza, incalza. Per esempio, leggere Tife potrebbe sembrare leggere una poesia che vada a capo a caso, ma gli enjambement qui non sono fatti per il foglio, ma per la voce, una voce in percorrenza: «Una donna attraversa in auto cinque Stati solo per vederla. | La donna verso cui è diretta non ha idea che qualcuno stia | andando da lei. | La donna al volante attraversa tre ponti & sette | laghi solo per arrivare alla sua porta. Si ferma lungo la strada, | guarda la torba intrisa d’acqua, taglia tife dagli occhi di corallo, | le porta in macchina come potessero essere sorbetto arancio». Ancora in un’altra poesia, Finney gioca tra oralità e scrittura in una lotta per la sopravvivenza dell’una o dell’altra: la scena è quella di un maremoto che ha devastato una cittadina e le persone si sono rifugiate sui tetti, in attesa di essere pescate dagli elicotteri di salvataggio. Chi sarà recuperato e chi no? A deciderlo, una conta che echeggia per tutto il testo: Eenee Menee Mainee Mo! Con la filastrocca, siamo in pieno territorio dell’oralità. Eppure… per lei sembra non esserci molta speranza, la scrittura non vuole stare ad ascoltare:  

La donna con le gambe pom-pom sventola

il cartello sbilenco, scritto a mano

                                  Pleas Help            Pleas

e anche se la e è stata lasciata fuori dal Pleas   e

non lo capisci solo

con il guardare lei

che è stata lasciata fuori

perché lei non sa scrivere

(e quindi non vale la pena di salvarla)

[…] Le regole esigono una e alla fine

di qualsiasi Pleas  e prima che una qualsiasi risposta nazionale

possa essere intrapresa.

Che canali di senso usa una poesia ad alta voce per entrarci dentro? Nella poesia di Ishion Hutchinson la voce e il corpo si incontrano: «Uno ammassa silenzio, | un altro fustiga il silenzio con ortiche, | felci velenose. Io oscillo nelle loro fauci. || Le intere interiora ascoltano. L’orecchio fa trasalire | notti bianche nei suoi artigli: palude che affonda» (in Sibelius e Marley). Hutchinson sa però che dopo avere attraversato gli organi di senso, una voce può sopravvivere nei corpi anche se non più detta, come una eco: «Entrambe le grida si sono rapprese | in una ghirlanda di corallo nei miei occhi. Le sento ovunque vado» (in Il viandante). Se un reading dovrebbe essere una pausa magica di aggregazione, così non è invece per la creazione. Una poesia detta ad alta voce deve prima essere composta, avere a che fare con il silenzio, esistere come voce della solitudine: «Il genio della lampada dice fatti uno studio. Fatti | uno studio dalla cenere. | Lo faccio di pericolo e di cose | dei bassifondi […] Faccio un armadio per le cascate. Uno per i fiumi. | Un altro per gli oceani. Il prossimo per i segreti» (in L’arca di «Scratch»). E come un mago, il poeta sente questi segreti che il silenzio confessa.

C’è da ricordare ancora una cosa: la condizione del poeta negli Stati Uniti è nettamente diversa da quella italiana. Come per gli altri volumi, anche qui le biografie dei poeti selezionati parlano chiaro: Jericho Brown insegna alla Emory University, Patricia Smith è membro della fondazione Cave Canem e insegna alla City University of New York, Sandra Cisneros ha ricevuto da Obama una National Medal of Arts (2006), Marilyn Hacker è Chancellor of the Academy of American Poets, Nikky Finney è tra i fondatori di Affrilachian Poets e insegna alla University of South Carolina oltre a essere anche membro di Cave Canem come Smith, Ishion Hutchinson è docente alla Cornell University. È così che immagino il poeta americano: come una voce incantatoria capace di agire sulla società. Prima di concludere, vorrei riprendere le parole con cui Freeman accolse questa avventura e sperare che diventeranno anche vostre: «ogni nuovo volume di questa collana sarà una specie di piccolo evento».

John Freeman e Damiano Abeni (a cura di), Nuova poesia americana (Vol. 3), Firenze, Black Coffee, 2021, pp. 180, € 13.