«Non devo recitare una preghiera, ho pensato, ma prendere posizione, e quella posizione può essere solo la mia, se sono io a parlare».  Così, nel libro I miei premi, Thomas Bernhard ricorda i suoi intenti nel pronunciare il suo discorso in occasione del premio Büchner, vinto nel 1970 col suo romanzo La fornace, pubblicato nello stesso anno, tradotto in Italia da Einaudi nel 1984 e finalmente ritradotto e reso disponibile da Adelphi quest’anno. Nel corso degli anni successivi Bernhard sarebbe diventato celebre, oltre che per la sua prosa capace di rappresentare le voci della nevrosi e del turbamento psichico grazie a un uso sapiente di ripetizioni, dicotomie e giochi simmetrici, anche per le controversie suscitate dai discorsi di accettazione dei suoi (numerosi) premi letterari. Al premio Büchner, invece, avrebbe proferito soltanto «un paio di frasi», «una breve dichiarazione su me stesso», non riportata nel libro forse proprio per il fatto che nella produzione di Bernhard il romanzo La fornace rappresenta già da sé questa presa di posizione, e la decisione di assumere una prospettiva e una voce che fossero intimamente proprie.

Nel 1970 Bernhard aveva già ricevuto riconoscimenti letterari grazie a Gelo (1963) e Amras (1964), e aveva sperimentato appieno con lo stile che lo renderà famoso tramite i monologhi del principe Saurau in Perturbamento (1967), da molti considerato il suo capolavoro. Sarà però La fornace a garantirgli in quell’anno il primo successo letterario di pubblico, ed è ne La fornace che per la prima volta il lettore incontra un libro scritto quasi interamente nella prosa monologica che caratterizzerà quasi tutti i lavori successivi di Bernhard. Se, infatti, i monologhi di Saurau in Perturbamento erano preceduti da una sezione narrativa “convenzionale”, in cui il narratore si avvicinava lentamente al castello del principe, ne La fornace il lettore si ritrova sprofondato in giochi prospettici, vicoli ciechi argomentativi e fraseggi maniacali già dopo pochi, brevi paragrafi che ricordano lo stile più contenuto di Amras, coi suoi paragrafi in emersione tra punti di sospensione, ritrovati nelle primissime pagine de La fornace. In questo passaggio iniziale dalla prosa di Amras a una nuova forma espressiva, Bernhard ci introduce quindi a un romanzo sulla natura del lavoro intellettuale che funge da punto di svolta dichiarato e cosciente nella sua poetica.

Per quanto riguarda la trama del libro, si sa poco del narratore e del suo rapporto coi protagonisti del racconto, se non che da Laska, una taverna salisburghese, è riuscito a «far sottoscrivere tre nuove assicurazioni sulla vita» (p. 11). È verosimilmente lì, e in altre locande e taverne, che gli viene raccontata la storia del protagonista, Konrad, trasferitosi a vivere con la moglie invalida in una fornace della calce, un edificio isolato la cui architettura è il risultato di «millenni di calcoli» (p. 30) e la cui costruzione «è stata studiata mirando all’inganno» (p. 31). In questa fornace dagli spazi enormi e vuoti, avanzando tra gli specchi degli aneddoti che il narratore riporta alternandosi principalmente tra i due interlocutori Wieser e Fro, scopriamo che Konrad ha sparato alla moglie, uccidendola. Le sue ragioni non sono mai rivelate esplicitamente, e il romanzo lascia credere che un chiarimento di qualche tipo sia sempre sul punto di emergere dal resoconto del narratore, non fosse che, procedendo nella lettura, si scopre che Konrad si stava dedicando da anni alla preparazione di un saggio intitolato L’udito, opera monumentale sull’arte e la scienza dell’udire, che sperava di riuscire finalmente a scrivere all’interno della fornace. La frustrazione nel non trovare una modalità d’espressione appropriata, le continue interruzioni di cui Konrad si dichiara vittima – riportate da Wieser e Fro –, i suoi esperimenti sull’udito della moglie e, in generale, tutto ciò che riguarda la stesura e i possibili contenuti del saggio diventano presto il centro della narrazione, spostando lentamente la prospettiva del lettore verso possibili interpretazioni meta-letterarie.

Sembra infatti inevitabile riconoscere alcune cadenze bernhardiane tra le frasi che Konrad ripete alla moglie seguendo il metodo Urbantschich – un metodo sperimentale di studio degli effetti di certi suoni sull’udito. Prendiamo ad esempio la frase seguente, ripetuta da Konrad alla moglie come parte dei suoi esperimenti: «I rapporti che, come tu sai, non hanno nulla a che vedere con il rapporto, ma che stanno nel più delicato dei rapporti con i rapporti del rapporto che non ha nulla a che vedere con il rapporto» (p. 100). Confrontiamola con una delle frasi del romanzo: «Mentre un tempo non mi addentravo indifeso nei pensieri, ora nei pensieri mi addentro completamente indifeso, non protetto, benché armato fino ai denti, completamente disarmato, mentre un tempo nei pensieri mi addentravo completamente disarmato, non indifeso» (p. 126). Si notano immediatamente i giochi di simmetrie, gli incastri, la struttura dicotomica divisa tra poli opposti e inconciliabili tipica di Bernhard («mentre prima…ora…»; «mentre io… lui/lei…»), tanto che la frase del metodo Urbantischch esaspera questa dicotomia al punto di suonare apertamente in contraddizione con sé stessa. Più curiosa ancora è una possibile apparizione dello stesso Bernhard, che sembra quasi sul punto di farsi nominare da Konrad, in un passaggio che riguarda la facilità con cui rischia di fallire chiunque si dedichi alla scrittura, e nel quale uno scrittore di cui Konrad ha dimenticato il nome viene descritto nei seguenti termini: «non poteva che sembrare un pazzo che scrive, mentre era proprio tutto il contrario di un pazzo, richiamava la mia attenzione su alcuni titoli, su alcuni brani in cui vengono descritte certe vicende strettamente legate alla sua propria vicenda, ma, diversamente dalle vicende descritte nei suddetti libri, di natura piuttosto metafisica, quella che Konrad chiamava la sua propria peculiare vicenda era tutto fuorché metafisica, lui, Konrad, non esitava a definirla in tutto e per tutto organica, tutta la sua vicenda che era sempre stata in rapporto speculativo con la metafisica, pur non avendo mai nulla di metafisico in sé stessa, dice Wieser» (pp. 187-88). Pur non elaborando oltre, qui Bernhard sembra voler dare al lettore una possibile direzione da seguire: in che senso la natura dei libri scritti fin qui da questo «pazzo che scrive» può essere definita metafisica? E in che senso la vicenda di Konrad (e il romanzo su Konrad che è La fornace) può invece essere definita organica, pur mantenendo un rapporto speculativo con la metafisica?

Per comprendere meglio questa distinzione fra opera metafisica e opera organica, può essere utile cominciare dal discorso che Bernhard lesse in occasione dell’accettazione del premio Libera Città Anseatica di Brema, altro importante riconoscimento ricevuto in occasione della pubblicazione di Gelo. In questa occasione, dopo aver proclamato la morte delle “favole” che hanno sostenuto l’Europa, l’autore avrebbe detto: «Vivere senza favole è più difficile, perciò è così difficile vivere nel ventesimo secolo; ormai ci limitiamo a esistere; noi non viviamo, nessuno vive più; ma è bello, nel ventesimo secolo, esistere; tirare avanti; avanti dove? Io non vengo da una favola, lo so, né vado verso una favola». Da questa frase, come da molti passaggi della sua opera, si avverte da subito una tensione distruttiva rivolta all’unità di certe modalità narrative, che sembra caratterizzare lo stacco fra i primissimi lavori di Bernhard e le opere prodotte dopo La fornace. Là dove, in Gelo e in Perturbamento, si avverte ancora un progressivo avvicinarsi della narrazione convenzionale alla voragine folle del monologo, quasi che si dovesse preparare il lettore, tramite la distribuzione sapiente di dettagli simbolici, ai discorsi del pittore Strauch e del principe Saurau, La fornace elimina per la prima volta questa fase preparativa e abbandona da subito il lettore al flusso monologico del protagonista, riportato, direttamente e indirettamente, attraverso i resoconti del narratore, di Wieser e di Fro. In questo senso, le vicende tendono a perdere la loro carica di senso metaforica e cessano di simboleggiare altro, sfuggendo alla logica stringente dei rimandi di significato: la scrittura è infatti più concentrata che mai nello stabilire il tono della voce narrante, e lo è a tal punto che la struttura e il contenuto degli eventi, la loro successione cronologica e carica descrittiva, cedono sotto la pressione della voce di Konrad, da cui si ritrovano decostruite e fagocitate.

La differenza fra opera metafisica e opera organica, dunque, può essere interpretata proprio alla luce del contrasto fra opere narrative bisognose di simboleggiare qualcosa e opere narrative che, invece, si concentrano più che altro nello sviluppare una voce propria, indipendente da eventuali rimandi a significati esterni. Metafisica è quell’opera che tende a rivolgersi a una sfera di significati esterni a sé, che oltrepassino l’opera e in cui essa possa realizzarsi pienamente, mentre organica è quell’opera il cui possibile significato emerge dal lavorio interno dell’opera stessa. Se nell’opera metafisica la frase vuole essere letta come immagine di altro (pensiamo ad alcune descrizioni nelle prime pagine di Gelo: «Ho preso il primo treno, quello delle quattro e mezzo. Viaggiavo tra pareti di roccia. A sinistra e a destra tutto era nero. Quando salii sul treno battevo i denti. Poi lentamente mi scaldai»), nell’opera organica la frase esiste principalmente in funzione del tono e della voce: la sua carica simbolica potenziale è ridotta o annullata, e l’attenzione dell’interprete viene ora indirizzata verso le ragioni per cui la voce narrante assume certe caratteristiche estetiche, piuttosto che verso la carica metaforica delle immagini. Ne La fornace, infatti, il gioco interno fra i diversi resoconti non produce contrasti fra narrative discordanti, tendendo invece all’integrazione reciproca, tanto che le differenze fra le due principali voci interne che raccontano al narratore la storia di Konrad viene presentata come segue: «Il racconto che Wieser fa di questo sogno coincide in tutto e per tutto con il racconto di Fro. Tuttavia, mentre Fro, com’è naturale, aveva raccontato il sogno con una emozione che si riallacciava nel modo più convincente allo stile narrativo di Konrad, Wieser racconta il sogno con una calma assoluta. Per questo il sogno, come lo racconta Wieser, è molto più impressionante del sogno narrato da Fro» (p. 163). Le loro versioni del sogno e dei pensieri di Konrad coincidono: se ci sono differenze tra i due, sembra volerci dire il narratore, sono da rintracciarsi più che altro nelle modalità espressive. Considerato, però, che queste modalità non si incrociano mai nel presentarci lo stesso evento da due prospettive diverse, le voci di Fro e Wieser, come anche dei vari interlocutori interni al libro, sembrano tendere piuttosto all’integrazione reciproca, contribuendo organicamente all’emergere di un’unica voce: quella di Konrad.

Favorire la costruzione di questa voce e di questo tono unico all’interno del romanzo, decostruendo completamente la successione cronologica e il contenuto descrittivo degli eventi, è il modo in cui Bernhard compie appunto il passaggio da opera metafisica a opera organica. Ne La fornace, Bernhard rinuncia definitivamente a «entrare in una favola», ovvero rinuncia alla struttura portante, simbolica e potenzialmente metafisica della trama, nonché all’impalcatura di senso che essa conferisce agli eventi, concentrando tutte le sue forze nel costruire la voce eccentrica di uno squilibrato, e collocando la domanda fondamentale del romanzo non più intorno al significato potenziale delle immagini, ma intorno alle ragioni per cui la voce narrante assume certe caratteristiche: in questo caso, le ragioni della follia. Questa prospettiva è mantenuta anche nelle opere successive di Bernhard: ne Il nipote di Wittgenstein (1982), nella trilogia sulle arti di cui fanno parte Il soccombente (1983), Antichi Maestri (1984) e A colpi d’ascia (1985), e infine in Estinzione (1986), la narrazione assume un carattere psicologico più marcato, e attraverso la lettura si è spinti a comprendere le ragioni, appunto, della follia, dello shock o della rabbia incontenibile e spietata della voce narrante.   

Bisogna, però, rendere conto di quel «rapporto speculativo con la metafisica» che anche l’opera organica finisce per mantenere. Opera metafisica e opera organica, infatti, non si escludono a vicenda: ogni opera metafisica ha pur sempre un tono, ogni opera organica evoca comunque delle immagini. Ne La fornace, infatti, nonostante la decostruzione messa in opera dalla voce di Konrad, sopravvivono comunque alcune immagini fondamentali (la fornace, l’omicidio) che richiedono di essere interpretate. Volendo quindi abbandonarsi, contro Bernhard, alla curiosità di fare della rabdomanzia letteraria, si sarebbe quasi tentati di portare, come possibile accenno a un’interpretazione speculativa e metafisica, la coincidenza sinistra tra l’evento centrale del libro – l’uccisione di una donna a colpi di fucile da parte del marito – e un aneddoto riportato da Vincenzo Quagliotti nella sua prefazione a Amras, secondo cui Bernhard, nella sua casa di Obernathal, avrebbe avuto l’abitudine di dormire con una carabina in camera da letto – per sparare alla trama, ipotizza Quagliotti. Bernhard avrebbe infatti sostenuto, in una sua intervista, di odiare le storie: «Sono un distruttore di storie, io sono il tipico distruttore di storie. Nel mio lavoro, quando qua e là si formano i primi segni di una storia, o quando vedo spuntare da dietro la collina di prosa l’accenno a una storia, le sparo addosso».

È un caso allora che la moglie di Konrad, fucilata dal marito, chieda ripetutamente che le si legga l’Ofterdingen di Novalis, un romanzo dal fitto ordito simbolico in cui, seguendo l’iniziazione mistica e poetica del protagonista, si ha la sensazione che ogni dettaglio si incastri perfettamente in una rete intellegibile di significati? Ed è un caso che, in risposta a queste letture, Konrad insista invece nel leggerle passaggi di Kropotkin, scrittore anarchico, naturalista, teorico dell’evoluzione sociale? Forse Kropotkin, con la sua preparazione scientifica, funge da autore ideale per distruggere la superstizione letteraria del senso delle cose, l’illusione di un’unità narrativa (metafisica) della vita che possa manifestarsi attraverso linguaggi di segni, metafore e coincidenze e da cui, talvolta, lo stesso Bernhard dev’essere stato tentato. La storia dell’evoluzione letteraria di Bernhard è la storia del progressivo abbandono di questa superstizione, e dell’ingresso in quella realtà sparpagliata in prosa sciolta, in frasi inconcluse, in monologhi fatti di sentenze che rifiutano di giustificarsi ma che ugualmente si strutturano, per motivi ignoti, e dunque da scoprire, in costruzioni musicali. Non ci sono esoterismi, animismi, cabale archetipali e simboli in cui indovinare oroscopi che possano fronteggiare il monologare insensato della realtà, nell’opera di Bernhard: «tutto è ridicolo, quando si pensa alla morte», avrebbe affermato l’autore in apertura al suo discorso d’accettazione del Premio Nazionale Austriaco. Tutto è ridicolo, e nonostante ciò bisogna trovare il modo adeguato di parlarne: l’opera letteraria di Bernhard si spinge al limite delle possibilità espressive del linguaggio, presentando storie che si destrutturano, si decompongono e non trovano soluzione, ma in cui la voce che le narra, come un flusso incognito di eventi naturali, è a un tempo la fonte e la chiave del suo stesso mistero.

Nonostante possa essere letta come l’assalto definitivo di Bernhard alle strutture portanti della narrativa convenzionale, La fornace non è tanto una discesa nel nichilismo puro, quanto una dichiarazione che, più importante della tentazione di abbandonarsi al progetto di grandi architetture di senso (letterario e non), è superare «la paura di portare a compimento, di ribaltare la propria testa, con gesto fulmineo e spietato, e rovesciare così il saggio sulla carta» (p. 225). È questa paura, come scopriamo nella pagina finale, a impedire a Konrad di portare a compimento il suo lavoro. Konrad tratta il suo saggio come il pianoforte fatto installare nella fornace subito dopo essersi trasferito, ovvero come un’idea con cui baloccarsi «non per amore dell’arte, ma per calmare con l’arte i suoi nervi logorati» (p. 9): questo Casaubon infernale, che incolpa i suoi interlocutori, la moglie, la società, il mondo, di ostacolarlo continuamente, si rivela un procrastinatore che fugge in tutti modi dalla possibilità di vedere completa la propria opera intellettuale e trovarsi di fronte alla consapevolezza, già profetizzata in Amras, «che tu non sei che frammenti, che i periodi lunghi o brevi e anche quelli lunghissimi non sono che frammenti […] che l’interezza non esiste» (p. 68). Un uomo che ha paura di confrontarsi con l’aspetto che potrebbe infine prendere una realtà non viziata dall’illusione dell’unità, osservata e «rovesciata sulla carta» nella sua oggettiva, monologante insensatezza. E Bernhard? A guardare la sua produzione successiva, fatta di romanzi che sono quasi esclusivamente scritti nella forma di monologhi, anche se con intenti e modalità differenti, si potrebbe invece sperare che lo scrittore sia riuscito a sfuggire a questa paura, e che forse abbia trovato proprio nella pace maledetta della fornace il coraggio di sparare finalmente alla trama in ogni sua possibile incarnazione, e di ribaltare così, da allora in poi, la propria testa, con gesto fulmineo e spietato, nei propri libri.


Thomas Bernhard, La fornace, traduzione di Magda Olivetti, Adelphi, Milano 2022, 225 pp., 19€