Più o meno, Fredric Jameson si è occupato di tutto. Letteratura d’ogni epoca, architettura, fantascienza, pittura, musica, poesia, economia, filosofia, modernismo, studi post-coloniali…a ciò si aggiunga l’arcinoto monstrum sul Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, pubblicato in inglese nel 1991. Data la vastità degli interessi ciclopici del critico americano, l’assenza di Walter Benjamin come oggetto di attenzione specifico risulta effettivamente piuttosto singolare. Jameson, che così tanto ha scritto (e imparato) da Adorno, Francoforte, Brecht e dalle avanguardie storiche! Esagerando un po’, sembrerebbe a posteriori che tutto quello che Jameson ha scritto si avvolga intorno a una figura innominata: Benjamin. A dire il vero, le cose sono più complesse e interessanti: come ricordano bene sia Massimo Palma, curatore di Dossier Benjamine autore di un’utilissima prefazione al volume, sia Mimmo Cangiano nella sua recensione al libro, Jameson qualcosa, anzi, più di qualcosa in merito l’aveva già detta in passato. In Marxism and Form (1971), per esempio, intravedeva in Benjamin i tratti ambigui di quella malinconia di sinistra con cui Benjamin stesso definiva, con livore inusuale, la natura borghese e reazionaria della Neue Sachlichkeit. In Dossier Benjamin Jameson ammette di aver cambiato idea su questo punto.

Oltre alla volontà di dare spazio a qualche ripensamento, però, i motivi che spingono Jameson a occuparsi dell’opera omnia di Benjamin potrebbero essere piuttosto semplici da azzardare. Un’aria di famiglia, se non proprio una serie di affinità elettive, li accomuna: il rifiuto della settorialità; l’interesse per i nuovi media; l’attenzione per architettura e paesaggi urbani come sintomi di uno Zeitgeist; l’urgenza di nominare, o quantomeno di ragionare, sul rapporto che sussiste tra espressioni estetiche di una data cultura in un dato momento (“Always historicize!”, ammoniva l’inizio celebre di The Political Unconscious) e le condizioni socio-economico-culturali di quel contesto. Il Benjamin che esce dalle mani di Jameson come il proverbiale coniglio dal cappello del prestigiatore è un Benjamin molto storicizzante, oltre che molto storicizzato.  

Ci sono infatti tanti Benjamin, e Jameson ce li presenta più o meno tutti; ma solo per superarli, per modellare un Benjamin nuovo, come forse nessuno aveva prodotto così distintamente in precedenza. C’è il Benjamin “linguista” (anche se faticava ad apprendere le lingue, come ricorda Jameson) e traduttore (cf. Capitolo 1 e 2). C’è il Benjamin del mito e della fantasmagoria, dello studio di Baudelaire e dei Passages (Capitolo 3). C’è l’accademico mancato, costretto nelle forme da concorso universitario dell’Origine del dramma barocco tedesco (Capitolo 4): meglio avrebbe fatto, secondo Jameson, a occuparsi di altro (per esempio di fiaba, tema che Benjamin tocca ma non tanto quanto Jameson avrebbe sperato). Le formulazioni altisonanti in conclusione del Dramma barocco suggeriscono al critico americano che “tutta questa splendida eloquenza può essere vista come un modo di giustificare a sé stesso (e a tutta la commissione esaminatrice) di aver sprecato così tanto tempo in ricerche su un argomento che non lo meritava”. C’è l’allegorista-fisiognomista-flâneur (Capitoli 5 e 6); il teorico dell’aura, delle avanguardie e dei nuovi media (Capitolo 7), in cui il negativo prevale, a detta di Jameson, sul Benjamin ottimista nei confronti delle nuove tecnologie. Ciò non coincide, però, con una rinuncia malinconica (ecco le correzioni sul Benjamin discusso nel ‘71): “È l’ottimismo rivoluzionario a essere regressivo, mentre il satanismo furioso e ribelle del «Goethe in collera» (Baudelaire!) apre alla creazione di un futuro soggetto rivoluzionario in grado di sfidare i rigori dell’era glaciale reazionaria”, scrive Jameson. Se Benjamin fosse un malinconico, lo sarebbe quindi nell’accezione positiva identificata da Enzo Traverso in un suo magnifico saggio.

Esiste poi, naturalmente, il quantomai problematico Benjamin come storico materialista e messianico allo stesso tempo (Capitolo 8). Jameson ha tanti dubbi in proposito, ma salva qualcosa della metafisica benjaminiana quando riconosce nella figura dell’angelus novus i segni di un ‘principio speranza’ (Ernst Bloch non compare tanto quanto dovrebbe nel Dossier di Jameson) che andrebbe salvaguardato anche in chiave terrena. E marxista: in queste ultime pagine del libro, Jameson tradisce la promessa iniziale di non ribadire una rappresentazione ormai desueta (almeno dalla pubblicazione delle Opere complete) di un Benjamin-marxista: “in sintesi, meno marxismo possibile e una certa distanza anche dalla teologia e da tutte quelle che negli anni Sessanta saranno considerate le tradizioni politiche di Benjamin”, ci aveva rassicurato all’inizio; e fino alla fine ci avevamo (quasi) creduto.

Tutti questi “Benjamin” convivono non senza ambiguità, ma non si eludono l’un l’altro (Jameson è ancora un dialettico vecchio stampo). C’è però un Benjamin inusitato, troppe volte trascurato forse perché fin troppo evidente. È il Benjamin che potremmo definire ‘civile’ quello che sta più a cuore a Jameson. È il Benjamin che si occupa dell’impossibilità della tragedia dopo i traumi della Prima Guerra Mondiale, nella fase conclusiva di Weimar che si apre all’Hitlerzeit. È il Benjamin anti-moderato che nel suo Per la critica della violenzafa il controcanto alle Riflessioni sulla violenza di Georges Sorel. È il Benjamin che nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica riflette, non senza produrre antinomie, sulla democratizzazione dell’accesso all’opera d’arte. È il Benjamin che intravede nella democrazia rappresentativa una “convenzione retorica […] sul punto di reinventare un fascismo di cui ha dimenticato il nome”. È il Benjamin che non può evitare di inserire un principio speranza, per quanto flebile e per quanto sempre da rimandarsi, all’interno del suo angelus novus. Un Benjamin civile, quindi, non in quanto moderato, o ammansito dalla sociologia; un Benjamin, però, che apre con le sue riflessioni ai problemi (mastodontici) della società moderna e del tardo capitalismo. Questioni che, Jameson ricorda, Benjamin affronta sempre da angolature inusuali, dai margini della speculazione filosofica intesa in senso tradizionale. “Senza soggiacere alla sua allure”, come scrive giustamente Palma nella prefazione, Jameson riesce forse nell’impresa di consegnare ai lettori un Benjamin se non nuovo, quantomeno ‘nostro contemporaneo’, in barba alle (oramai convenzionali) formule relative a un Benjamin come innovatore messianicamente senza tempo (non-contemporaneo del suo contemporaneo, per citare, ancora una volta, Bloch), o come pensatore antistorico oltre che antistoricistico.   

Jameson arriva al Benjamin ‘civile’ perché compie un’operazione fondamentalmente sovversiva in merito ai giudizi che esprime sulla forma delle opere benjaminiane. Qui sta la vera ambizione, mi sembra, del Dossier Benjamin di Jameson: una proposta (o una sequela di files, per l’appunto) per una rivalutazione del canone benjaminiano. Parlare di un canone prestabilito per uno scrittore come Benjamin è certamente forzato: non sarebbe facile dimostrare che Dramma barocco conta più o meno dei Passages, o che i saggi sulla fotografia contino tanto quanto L’opera d’arte. Eppure, proprio la compresenza di quei ‘tanti Benjamin’ a cui Jameson dedica buona parte del suo libro fa sì che, a livello critico, ciascuno si occupi di questo, piuttosto che di quell’altro titolo. Provocatoriamente, Jameson offre una prospettiva nuova da cui forse è possibile, se non ripensare, quantomeno guardare con occhi nuovi al canone benjaminiano. Per Jameson, i Passages appartengono al genere del taccuino di viaggio. L’opera d’arte è una serie di ragionamenti sparsi su temi differenti (nemmeno un saggio nel senso proprio in cui lo intendevano Lukács o Adorno, quindi) e andrebbe letto “come il seguito di Breve storia della fotografia”’. Dramma barocco è un susseguirsi incessante e suggestivo di citazioni, o frammenti, travestiti (per ragioni di politica accademica innanzitutto) da argomento compiuto, da costrutto coerente. Non sono questi, di per sé, dei giudizi di valore negativi: la disorganicità della scrittura di Benjamin, come è noto, ben si confà al suo genio incoerente e magmatico. Jameson va oltre, però, annettendo all’arcipelago dei classici benjaminiani le sue recensioni e le lettere private:

Se accettiamo l’idea che la recensione di un libro (determinata com’è quasi sempre dall’arbitraria contingenza delle commissioni esterne) sia un genere o una forma imparentata con il diario (si pensi per esempio a quello di André Gide, canonico del Novecento e oggetto di grande ammirazione da parte di Benjamin), e se ci spingiamo al punto di inserire in questo novero anche una forma oggi quasi estinta, la corrispondenza privata – le lettere in cui Benjamin dava sfogo ai suoi tanti e vari interessi intellettuali e alle sue personali idiosincrasie –, cominciamo ad avere un’immagine molto diversa di questa figura, quella di uno scrittore di cui è possibile dire, avendo lui stesso asserito di non aver mai scritto un libro, che non ha mai scritto nemmeno un saggio vero e proprio.

Benjamin non ha neanche scritto saggi, quindi. Non ha mai scritto libri: o meglio, ne ha scritto uno, Strada a senso unico. Apparentemente il meno organico dei libri di Benjamin, parente della scrittura migliore di Karl Kraus, Strada istituzionalizza quella “estetica o dialettica dell’interruzione” che nelle altre opere è presente solo in quanto parte integrante della loro forma. Jameson mette in guardia, quindi, dall’abuso del ricorso al concetto di frammento e dall’insistenza sulla discendenza schlegeliana di un certo Benjamin: “non dobbiamo farci sedurre dal linguaggio del frammento di Friedrich Schlegel, per quanto Benjamin stesso possa essere stato tentato di usarlo […] Al contrario, testi che nell’opera di Benjamin possono a prima vista sembrare frammenti sono invece stanze complete o paragrafi in versi”. Non mi spetta certo l’onere di provare la validità filologica degli assunti di Jameson. Eppure è da apprezzarsi, mi pare, quanto tali e simili spregiudicate asserzioni possano iniettare nuova linfa in un oggetto di studio: quello dell’opera benjaminiana, paradossalmente anestetizzato, nella sua carica sovversiva, da qualche decennio di “successi”, tic e dogmi accademici.

L’idea per cui l’istituzionalizzazione di figure, idee o fantasmagorie progressiste coincida con una paralisi dell’azione è in fondo il nucleo centrale del discorso, anch’esso di origine benjaminiana, sulla politicizzazione dell’estetica. Lo riassume bene Palma nella sua prefazione: “Oggi che estetizzazione e politicizzazione sono due facce di un’identica moneta con cui si scambia, si paga tutto, Jameson rilegge Benjamin, che aveva spiegato una sincronia significativa: la crisi dell’azione politica disciolta nell’estetizzazione avviene nello stesso momento in cui da più parti si evoca, si teme, si spera l’atto rivoluzionario”. Ciò ricorda da vicino la tesi di Daniele Giglioli in Stato di minorità: “potenza del fantasma, impotenza della realtà”. Attraverso un’altra mirabile intuizione di Giglioli, presente nella sua postfazione a Postmodernismo di Jameson, è infine possibile cogliere le tracce di un’ulteriore e più nascosta affinità sotterranea tra Benjamin e Jameson. L’ha già intravista Terry Eagleton nella sua recensione all’originale inglese di Dossier Benjamin (The Benjamin Files) e vi ha alluso con bonaria vis polemica: Jameson, dice Eagleton, è in fondo un poeta mancato. L’elemento che attrae Jameson inevitabilmente verso la scrittura benjaminiana è la sua innegabile ‘letterarietà’ — termine su cui entrambi avrebbero, credo, più di qualche dubbio (sospetto, data la ricercatezza dei loro stili).

A un livello meno personale e più profondo, Giglioli ci suggeriva, in quella postfazione a Postmodernismo,che attraverso termini come “cartografia cognitiva” e “dominante culturale” Jameson traduceva, seppur scarsamente velate da nuove vesti retoriche, formule classicamente marxiane come “coscienza di classe” ed “egemonia culturale”, rispettivamente. A ben pensarci, quest’operazione di traghettamento e translitterazione culturale di concetti desueti la faceva anche Benjamin, quando traduceva in chiave materialista le categorie teologiche e teologico-politiche di un certo ebraismo. Non era proprio in virtù di questa traduzione sotto copertura che era in grado di muovere le pedine, il famoso nano nascosto sotto la scacchiera? Dossier Benjamin si apre (e non sarà un caso) con un capitolo, “Vento nelle vele”, in cui Jameson ragiona a lungo sul senso di una citazione benjaminiana (in epigrafe all’incipit): “Per il dialettico ciò che conta è essere sospinto dal vento della storia universale. Pensare per lui significa: alzare le vele. Quel che conta è come si alzano. Le parole per lui sono solo le vele. Come vengono alzate fa di loro un concetto”. Per Jameson, che è un dialettico tout court:

Non si tratta di relativismo filosofico ma anzi di pragmatismo, un pragmatismo che […] di fatto prescrive […] la necessità di adattarsi al momento, alla crisi, al bisogno. D’altra parte, richiede l’uso dell’astuzia, della tattica, un consapevole pragmatismo nel fare uso di tutti i codici e i sistemi che abbiamo a disposizione per catturare il vento dominante.

Un Benjamin opportunista è quello che Jameson materializza subito davanti ai nostri occhi. Un autoritratto obliquo, una mise en abyme di una forma di impegno politico come speculazione accademica? Certo è che qualche trucco del mestiere Jameson potrebbe averlo appreso anche da Benjamin. Per fortuna.


Fredric Jameson, Dossier Benjamin, a cura di M. Palma, trad. F. Gasparetti, Roma, Treccani, 2022, 352 pp. 26,00€