Credo di non esagerare scrivendo che Senza trauma, di Daniele Giglioli, è uno dei libri di critica letteraria più importanti degli ultimi anni. Più importanti ovvero più letti, commentati, citati. È anche il libro con cui il suo autore si è definitivamente imposto fra i critici più autorevoli di oggi, a cui si guarda per capire dove sta andando la letteratura, per usare una formula fin troppo abusata. A undici anni dalla sua prima uscita, Quodlibet lo ha da poco ripubblicato in una “nuova edizione accresciuta”. Si tratta di una buona occasione per riprenderlo in mano, anche per riflettere su cosa ne è oggi delle sue idee di fondo.

Dico subito che l’etichetta apposta alla nuova edizione rischia di risultare fuorviante. A fronte delle centoventi pagine dell’edizione 2011, quella che ora teniamo in mano ne conta centododici. Certo, con il passaggio nella collana “Saggi” le dimensioni fisiche del volume sono aumentate, ma il punto è che rispetto alla prima edizione il testo è rimasto pressoché identico. La sola novità riguarda le pagine finali, alle quali Giglioli affida una serie di “Ripensamenti”. 

Ma andiamo con calma. Qual era, e qual è, il succo di Senza trauma? In estrema sintesi, all’altezza del 2011 Giglioli metteva in luce un paradosso: in un momento storico – il nostro – in cui la parola “trauma” è sulla bocca di tutti, di traumi effettivi non facciamo più esperienza. Viviamo in un mondo, o almeno, in una parte di mondo in cui gli shock della modernità sono solo un ricordo. Niente guerre mondiali, armi di distruzione di massa, drastici processi di industrializzazione, e via dicendo. Eppure, non facciamo altro che parlare di traumi, immaginandoceli ovunque. Questo stato di cose avrebbe agito sulla letteratura. O meglio, i testi letterari ne porterebbero i segni. Molti scrittori avrebbero raccontato la crisi dell’esperienza generata dall’assenza di traumi. Nel farlo, come a voler compensare questa crisi, avrebbero teso verso l’«estremo»: raccontando fatti scabrosi, esibendo le proprie ferite – reali o simboliche che siano – e più in generale puntando tutto sull’«osceno», su «ciò che dovrebbe sempre e comunque restare fuori scena».

In Italia, a partire da metà anni Novanta, sarebbero due i ‘modi’ in cui ha preso forma questa tensione. Il primo è rappresentato dalle scritture «di genere» (noir, giallo, fantascienza, romanzo storico), che farebbero perno sull’idea che le nostre esistenze siano in balìa di qualcuno o qualcosa che trama ‘dietro’. Il secondo è rappresentato dall’autofiction e da quelle scritture che mescolano fatti reali e fatti inventati e mettono in scena un ‘io’ – quello dell’autore – debordante ed eccessivo.

Appunto, cosa ne è di queste idee? Ovvero, come suona oggi la diagnosi di Giglioli? E può aiutarci a descrivere ciò che avvenuto dopo, vale a dire la letteratura degli anni Dieci?

La mia impressione, per rispondere alla prima domanda, è che Senza trauma offra ancora un ritratto lucido degli ultimi decenni di narrativa italiana. E non mi riferisco solo alle idee di fondo che ho provato a sintetizzare, ma anche ai ragionamenti che le sorreggono. L’ipotesi che dietro a tanta letteratura agisca un immaginario paranoico; l’impulso risarcitorio al fondo delle scritture storiche più recenti; l’idea, più in generale, di una letteratura rassegnata, per cui le cose non potevano andare che così. E poi l’azione di un «io abnorme», che tutto sa e dice, la ripresa di moduli propri di altri media, il ricorso a soluzioni formali in senso lato antimoderniste. Tutte idee oggi correnti, ma che al tempo non si erano ancora imposte. Rispondere alla seconda domanda è più difficile – posto che non si tratta di valutare se Giglioli ‘ci aveva visto giusto’. Si tratta semmai di riflettere sull’utilità di quelle idee, su come si può utilizzarle per descrivere il presente.

Intanto, va detto che la fortuna dell’idea di trauma non è affatto declinata. Non si contano i libri, i convegni, i dipartimenti che al trauma sono stati intitolati negli ultimi anni. Di contro, viene da pensare che la contingenza in cui sul trauma ci troviamo a riflettere non sia più esattamente la stessa del 2011. «Niente più guerre qui da noi, carestie, epidemie, conflitti religiosi» scriveva Giglioli. E credo che non ci sia bisogno di indicare quali dei fattori elencati non suonino più così lontani. Il che non significa che la storia si è rimessa in movimento, la nostra condizione cambiata eccetera eccetera. Anche perché il filtro attraverso cui queste esperienze ci giungono è sempre quello mediatico. «La televisione è stata il nostro Vietnam, un bombardamento di immagini che non generano esperienza ma la requisiscono», suona una delle tante affermazioni apparentemente apodittiche che costellano il saggio. E figuriamoci come stanno le cose undici anni dopo, quando schermi di ogni sorta si sono moltiplicati e incistati ovunque.

Quanto al letterario, non sono in grado di pronunciarmi sulle scritture di genere, che conosco troppo poco. Mi sembra invece che sull’altro versante le cose siano in parte cambiate. Di autofiction se ne pubblicano ancora, ma l’impressione è che al confine fra fiction e non-fiction siano state battute soprattutto due strade. Da un lato, quella di un saggismo molto libero ed eclettico, in cui l’autore resta al centro pur non puntando a finzionalizzare più di tanto il suo sé privato; dall’altro, quella rappresentata da scritture che raccontano – variamente manipolandole – le vite di personaggi realmente vissuti. Sia chiaro: ciò non significa che l’io di chi scrive ne abbia guadagnato in autenticità. Sfido a leggere un qualsiasi libro del Siti post-trilogia, per dirne uno, senza trovarsi l’autore in mezzo a ogni pagina, con tutto il suo repertorio di pose e ambiguità enunciative. Ma che si investa meno sull’esibizione scoperta del sé e che in qualche modo si provi a decentrarlo mi sembrano due dati su cui riflettere.

Assieme, magari, al fatto che alcune delle opere più rappresentative o solo chiacchierate degli ultimi anni faticano a stare nelle maglie del discorso di Giglioli. Dalla Gemella H di Giorgio Falco alla Straniera di Claudia Durastanti, dall’Amica geniale di Elena Ferrante alle Storie del pavimento di Gherardo Bortolotti, sono molti i testi che pur lambendo i margini delle scritture di genere e autofinzionali finiscono per seguire altre strade.

Ma è un discorso, questo, che in fondo lascia un po’ il tempo che trova. Oggi come ieri, di controesempi se ne potrebbero trovare molti, e non è con quelli che si smonta una teoria. Dico solo, utilizzando una metafora un po’ logora, che la mappa tracciata da Giglioli non sembra più aderire al territorio delle scritture di oggi come avveniva a ridosso della sua prima pubblicazione.

Ma ripeto, non è questo l’essenziale. Semmai, è più utile insistere su un altro aspetto, cioè su quanto Senza trauma ci lascia al di là dei suoi contenuti. Dico del modo di lavorare di Giglioli, di gestire la materia che si è scelto, insomma della sua postura critica. A rileggerlo oggi, non può non colpire la capacità di Giglioli di leggere i testi collocandoli su uno sfondo più ampio. Lacan, Marx, Althusser, ma anche Spivak, Žižek e Appadurai, sono solo alcuni degli autori a cui Giglioli si appoggia per fare luce sul presente letterario. E colpisce tanto più il fatto che il loro pensiero sia disciolto nel corpo di un saggismo insieme agile e concettualmente densissimo.

Parallelamente, però, c’è l’affondo sui testi. Esemplare il paragrafo su Gomorra, in cui l’analisi alla moviola dell’incipit è il punto di partenza per mettere in luce il sostrato ideologico dell’intero libro. Oppure, si pensi al ragionamento sulle ambizioni ‘conoscitive’ dietro a tante scritture di genere. Da una serie di brani tratti da vari testi si parte per mostrare come «il periodare breve, sincopato, a dominante paratattica» e «l’aspirazione della frase alla perentorietà della formula» siano il solo modo per rappresentare una realtà avvertita come impenetrabile. «A realtà irrelata, periodo irrelato. A Reale assoluto, frase assoluta», conclude Giglioli. E immagino che qualcuno possa storcere il naso di fronte a un simile modo di procedere, che passa dal dettaglio minuto alla generalizzazione assoluta nel giro di poche battute. Ma in fondo è proprio in questi azzardi che sta la scommessa di Senza trauma, appunto nello scarto fra i testi o fra loro parti più o meno estese e le questioni di portata epocale.

Che poi – è da credere – si tratta dell’esito perfettamente consapevole di una presa di posizione. In un intervento del 2009 (lo si può leggere qui) sulla crisi di legittimazione della critica, Giglioli individuava due soluzioni, entrambe infelici. O continuare «a sfornare commenti, monografie, saggi e recensioni, interpretazioni e giudizi come se fosse tutto come prima», o improvvisarsi «moralisti, filosofi, sociologi, tuttologi». A queste alternative contrapponeva un modo diverso di intendere la critica, più vicino alla sua essenza, e cioè quella di un discorso «che non ha più l’ambizione di insegnare, di guidare, di istituire canoni, e si affida piuttosto alla sua volontà di esercitare in pubblico una funzione esemplificativa». Ovvero, un discorso che mostra ‘cosa si può fare’ con i testi. È lo stesso ragionamento che due anni dopo verrà ripreso in un altro saggio (stavolta leggibile qui), dove è scritto che critica e teoria devono «imparare a pensarsi, più che come pensiero e comunicazione, come un gesto, una performance, un evento, un processo costituente che si dà le regole nell’atto del suo stesso accadere».

Ecco, a me sembra che in Senza trauma Giglioli abbia messo in pratica questa idea, mostrando come i testi possano essere agìti, impiegati concretamente per ragionare sul presente e fare emergere ciò che preme sotto la sua superficie. Forse, più che le singole analisi e i ragionamenti a esse sottesi, è proprio questo l’aspetto che rende Senza trauma ancora attuale, l’esibizione di una prassi critica, di un modo ben preciso di lavorare non tanto sui testi ma attraverso i testi.

E i ripensamenti? Poca cosa, verrebbe da dire. Le cinque pagine che chiudono la nuova edizione non sembrano aggiungere o togliere alcunché alla sostanza del discorso svolto nella prima. Eppure, a guardar bene, qualcosa di nuovo c’è. Così come nei lavori venuti dopo (Critica della vittima e Stato di minorità), al termine di Senza trauma Giglioli alludeva al fatto che la messa a nudo della condizione descritta nel libro fosse uno sprone ad agire, cioè a reagire «al trauma dell’assenza di trauma». Agency, la possibilità di prendere l’iniziativa, è la parola chiave che attraversa ciò che Giglioli ha scritto negli ultimi anni.

Ma come metterla in pratica? Undici anni dopo – parafraso malamente – le cose sono solo peggiorate. Lo scenario è oggi ancora più fosco di quello di allora, addizionato com’è di tutte le parole d’ordine, dal ritorno della sovranità alla crisi climatica, per citarne solo due, che nel frattempo abbiamo imparato a farci scivolare addosso. Peccavo di ottimismo, sembra dire Giglioli. Con che forza agire, e con quali strumenti, in un contesto del genere? «La sproporzione che paralizza tutti paralizza per definizione anche me», si legge in conclusione. E comunque «Non bisogna chiedere a un libro più di quanto un libro possa dare».

Non so se queste parole annullino del tutto la carica utopica che ha sempre alimentato i ragionamenti di Giglioli. Non so nemmeno se sia lecito leggerci dietro qualcosa di più di ciò che dicono, e cioè che anche la letteratura che ci gira intorno – per non dire della critica – non è all’altezza di darci risposte o di proporre alternative. Ciò che mi sembra, è che dal discorso di Giglioli non traspaia alcuna nostalgia. Al limite, un lucidissimo disincanto. Il presente va guardato in faccia, non voltandosi indietro, rimpiangendo il mondo e la letteratura di una volta. Che per farlo si possa ripartire dai testi, impugnandoli come strumenti invece che come feticci, è ciò che Senza trauma non smette di invitarci a fare.

D. Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio. nuova ed. accresciuta, Quodlibet, Macerata, 2022, 112 pp., 12€.