Con la sua ultima raccolta poetica, Transiti (Luca Sossella editore), Giacomo Trinci aggiunge un nuovo spartito al «canzoniere»1 iniziato nel ‘94 con Cella, prima e ammirabile raccolta d’esordio.

La forma-libro si rivela significativa sin dalla copertina che ha dell’inquietante: è un Lucignolo collodiano, già trasformato in asino, che fa capolino da una cella di detenzione2. Il motivo per cui lo sventuratissimo3 Lucignolo merita la copertina credo sia da ricercare nella Lettera all’ignota gioventù che precede la raccolta, in cui l’autore invita i giovani lettori a sfuggire a una bestiale regressione. Per questo la copertina, che inizialmente ha infastidito anche chi conosce bene la poesia di Trinci4, è volutamente angosciante: rappresenta ciò a cui dobbiamo sottrarci, la regressione evitabile.

La raccolta, infatti, si mostra indirizzata a un pubblico preciso, la gioventù, a cui tocca la grande sfida del secolo: scaldare «il gelo del nostro globale sonno della ragione», fare «renitenze alla leva di massa», «civilizzare il deserto che è diventata la vita intorno a noi»5. Trinci chiede ai giovani di non scambiare l’abbecedario per lo spettacolo dei burattini e coltivare il linguaggio: «Riusciremo, insieme, poeti e artisti, a civilizzare il deserto che è diventata la vita intorno a noi? La piatta amorfità del paesaggio global-capitalistico è veramente l’ultima non-parola del tempo?»6.

È in realtà scopo sempre più esplicito della migliore lirica degli ultimi anni (certo erede della tradizione del secondo Novecento) voler recuperare la lingua che nella società global-capitalistica ha subito una serie di reificazioni fino a diventare indistinto suono; Trinci tenta l’impresa adoperando immagini, simboli, suoni ed echi lontani: «posso solo fermare delle immagini che mi permettano di trasmettere a te, mio simile lontano, mio complice, un’idea di lingua»7.

La poesia di Trinci si è in realtà da sempre caratterizzata per una forte presenza di immagini simboliche, ma in Transiti queste diventano quasi assolute, icastiche, semi-isolate dalle ormai caratteristiche pause, cioè le sospensioni prodotte dai punti grafici che disseminano i suoi versi, facendo della poesia un canto continuamente infranto:

la notte vera sopra noi. si abbatte.

è il nostro egitto. lasciamogli il mare.

duole la lingua dove il mondo batte.

noi non sappiamo, lingua, che narrare.

che andare dove non è mai il suo dove.

viene con me, l’amata. mi cammina.

come se fossi andata, di mattina.

mi batte i piedi miti. il cielo piove.

lasciamo questo egitto. coi bambini.

portiamo il canto. abbandoniamo il conto.

che non torna. è ritorta. è cupo affronto.

duole il mondo, dove la lingua batte.

lasciamo questa insonnia ai suoi mattini.

cantiamo il canto. piantiamo giardini.

Prendendo questa poesia come esempio si possono osservare alcune delle strategie tipiche dello stile di Trinci per svegliare il lettore da un assopimento del linguaggio: l’utilizzo di verbi intransitivi utilizzati transitivamente (mi cammina), il ribaltamento semantico (sono i piedi ad essere battuti e non il contrario), le ripetizioni in chiasmi (duole la lingua dove il mondo batte […] duole il mondo, dove la lingua batte) e, vera cifra caratteristica dell’autore, la paronomasia (canto […] conto e, più sopra, in rima inclusiva: abbatte/batte). Un linguaggio che vuole essere straniante, costringere il lettore a una rilettura e, quindi, a un recupero di significato: soffermarsi sulla parola, sul simbolo e sull’interpretazione è, per Trinci, un atto di lotta civile.

Una rilettura quasi obbligata, si diceva, sintomatica, ab origine, proprio dalla prima sezione che, intitolandosi EPILOGO: l’ininterrotto, non può che invitare a rileggere al contrario il percorso poetico del libro, dalla fine all’inizio. Effettivamente è proprio l’ultima poesia a gettare una luce su tutta la raccolta svelando il dedicatario. Prima di rivelarlo, occorre sapere che Trinci è da sempre lettore colto e come poeta si lascia volentieri influenzare. Alla genealogia autoriale già nota e notata nelle precedenti raccolte (Caproni, Pasolini, Mandel’stam, Adonis e molti altri) si aggiunge in Transiti una nuova radice: Hölderlin. Solo al congedo, si diceva, si scopre infatti il dedicatario della raccolta:

congedo. dedica.

(…)

per poco per poco. nel niente, gioco.

un soffio, poi, nulla… infinito in erba.

……………. il fuoco è più fioco.

ormai sono vani − ogni furia acerba.

lontane le stagioni, il tempo invoco

come un vuoto disegno cruciverba.

protezione degli umili, svanisce…

umida terra nei gigli che gioisce.

a Scardanelli

A Scardanelli, dunque, cioè l’identità nella quale Hölderlin si era “rifugiato” nell’ultimo periodo della sua vita, quello in cui la malattia psichica era divenuta acutissima. È infatti Hölderlin uno degli autori latenti delle poesie: il panismo misurato (che ha poi caratterizzato senza misura il romanticismo), le immagini pindariche, il tentativo di far rientrare nei limiti di un monoteismo la polisemia del reale; questi, che sono solo alcuni dei tratti della poesia di Hölderlin, sono i significati che si leggono dietro alcune immagini poetiche di Transiti.

Giunto alla fine della raccolta al lettore si presenterà una nuova prospettiva, dovrà allora ripercorrerla e riscoprirla. Il motivo, però, per cui nascondere Hölderlin dietro il nome di Scardanelli (nome con cui ha firmato le sue ultime poesie) non è dovuto solo al rispetto della volontà ultima del poeta tedesco8, ma anche al fatto che Trinci si sta riferendo a una particolare fase della poesia di Hölderlin, quella in cui la critica (letteraria e psiconalitica) ha voluto vedere non solo l’assenza dell’io, ma una vera e propria fuga identitaria. È proprio l’identità una delle tematiche caratteristiche di Transiti. Ce ne si accorge a conclusione della prima sezione dove il termine dio viene smembrato in una comunità di singole identità, d’io, appunto:

il mio cuore messo a crudo

(…)

avviso ai marcisisti:

tutto è comune: anche d’io.

frenetici narcisi del dominio

rivendicano il proprio opinionale:

ma è vuoto del giornale o del canale –

il proprio è l’altro, l’io condominiale.

il cancro, la metastasi in cammino.

Tra le molte entità della raccolta, dio è decisamente una delle più ricorrenti. La poesia sopra riportata è infatti l’ultima della prima sezione, in cui si assiste a un continuo ribaltamento della simbologia teologica: il «verbo» non è incarnato, ma «incarna»; «il sacro detto», lungi da verità assolute, vuole invece «essere scarto, fuori chiesa»; il cielo è il suolo e viceversa («il prato, ch’è cielo»). Insomma, l’autore ci sta dicendo che non si tratta della ricerca di un dio religiosamente costituito, ma di una ricerca teologica perché pre-identitaria: rinunciare alla propria identità significa connettersi con il tutto e quindi, in tal senso, con dio9.

(…)

e tutti abbiamo il nostro giuda oscuro

che fa fuori, nel crimine, ogni crimine –

cospira in noi, ci spinge contro il muro

– temi così di diventare dio –

mi dicevi, tentando senza averne

bisogno, senza che tu

– anima mia di pasta, fatta in carne –

senza che tu ne avessi alcun bisogno –

basta un niente per diventare dio

ti basta di fuggire nel non io,

soffocare il pidocchio ed esser solo –

davvero, senza più alcun polo

che ti spinga, solletichi lontano;

anima che, bambina, mi ti inventi,

tenera trota nel fiume del tempo –

ti basta una viltà per farti dio,

una vera catena e schiavitù

– dicevi in me, tremando di virtù –.

Fuggire nel non io è un modo per ricongiungersi alla totalità: uscire dalla cella del proprio corpo e misurare direttamente, perché non più mediato dal pensiero10, il reale. È questa l’antevita cui l’autore fa spesso riferimento11: una condizione di assoluto distacco da sé12 raggiunta grazie a una sorta di regressione prenatale. Avendo rinunciato allo schermo della propria identità, l’io può allora compiere la trasfigurazione diventando esso stesso, senza filtri, simbolo del pànico reale (neve, acqua, vento, aria); non a caso, infatti, trasumana, attinge, cioè, la natura divina:

trasumanar…

(…)

mi sciolsi neve in acqua e presi il vento.

di vena in vena corsi ruscelletti,

fossi, fossette, e quello che divento

cresceva in me sorbendone i diletti.

niente mi valse, niente accanimento

alla vita com’è, niente perfetti

drammi o commediole, studi dal vero.

l’aria, la nebbia, l’unico pensiero.

Attingere alla luce diretta del divino è la possibilità che tenta il poeta tramite una rinuncia identitaria13, ma accedere alla vera luce – Dante insegna14 – ha il prezzo dell’ineffabilità. Il poeta si trova così costretto a consegnare in versi brevi e simboliche immagini sempre dibattute tra luce e ombra, tra canto e pausa. Ambiguità dettata dal fatto che persino il linguaggio si rivela purtroppo e inevitabilmente un filtro: nominare implica mostrare solo l’ombra e non la luce diretta del reale. In quest’ottica persino la poesia diviene parte della dominazione sul reale che l’uomo perpetua da secoli.

(…)

non è un fatto di luce,

il nominare

è l’ombra che proietta la tua carne

intorno… è il tutto,

il giorno che si allunga

sulle spalle dei giorni

è il dominare, cauto, del dominio

nei secoli dei secoli. è il lumino

dei visceri. la gola dispiegata

scomposta…

nella forma del grido che gorgoglia.

nella tua muta luna

stacco il distacco

e più non chiedo, e passo.

Si è tornarti al punto iniziale: un’impossibilità della voce che si rivela in un canto continuamente franto. L’ineffabilità non è però totale, è infatti chiaro che quell’ombra generata dal nominare sul reale è indagabile e quella, almeno quella, è “il tutto” perseguibile. In questa consapevolezza di impossibilità Trinci dimostra una sensibilità poetica diversa rispetto alle sperimentazioni tentate recentemente, non tanto negli accorgimenti linguistici che formano la sostanziale pars destruens di un linguaggio ormai reificato, né per la ricerca metricistica15 (che per altro in Transiti agisce più profondamente e sottotraccia rispetto alle precedenti raccolte dell’autore), quanto nell’essenziale simbolismo: le brevi immagini, pur magari faticando a trovare un’espressione sorprendente, sono la nitida e intermittente rappresentazione dell’(in)indagabile reale. La deontologia poetica della ricerca (regressiva) del linguaggio e del vero, in Trinci diventa una consapevole impossibilità. Chi si addentra nella lettura di Transiti non troverà versi che tentano di esplorare una verità soggettiva, ma tracce autonome di immagini elementari: un’imminente e non ricercata, ma svelata, realtà. La poesia non è allora raziocinio linguistico, esplorazione interiore, ricostruzione significativa, ma diretta manifestazione di una vita immanente.

Certo una manifestazione riportata solo a tratti perché di una realtà sfuggente e sostanzialmente ineffabile. In questo il percorso poetico tenta di chiedere forse troppo al lettore, che si trova talvolta sperduto nel mosaico di squarci sul reale di cui non è sempre facile ricostruire l’immagine complessiva; ma si tratta, ancora una volta, di un costo inevitabile se si tenta di indagare una realtà preidentitaria in cui non si può fare affidamento sul proprio pensiero razionale. Con questo suo ultimo libro Trinci chiede di abbandonare la propria identità e tornare a una condizione precedente alla vita perché è in questa condizione che è possibile riconoscersi in dio ritrovando il contatto diretto con il reale. Anche giungendo a diventare elemento stesso di un eterno panismo, il poeta deve però accettare la limitatezza del nominare. Sono solo brevi ed elementari gli squarci che si possono aprire nell’immanenza: «strappi, note sparute appartenenti a un intero»16. Ma il canto, per quanto spezzato e complesso, permette di vivere brevissimi momenti, dei transiti, nell’onnipresenza del tutto.


1 È l’autore stesso a presente la raccolta come uno «sparito che raccoglie strappi, note sparute» tratte da un «musicare persistente» e a porla in un continuum che, a partire da Cella, costituisce il proprio «Canzoniere dell’ante-vita». G. Trinci, Transiti, Luca Sossella Editore, pp. 9-12

2 La foto è stata scattata in occasione di Pinocchio. Lo spettacolo della Ragione, regia di A. Punzo, spettacolo a cui Trinci ha collaborato e in cui il ruolo di Lucignolo è interpretato da Aniello Arena che, oltre a essere un grande attore, è un detenuto.

3 Lungi da fantasie Disney, nel romanzo di Collodi Lucignolo morirà tragicamente di stenti e fatica.

4 https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/trinci-e-il-poemadell-amiciziadi-pinocchio-per-lucignolo

5 G. Trinci, Transiti, op. cit., pp. 9-10.

6 Ivi, p. 10.

7 Ivi, p. 11.

8 Pare che il poeta rifiutasse rabbiosamente il suo nome e rispondesse di essere sempre stato “solo Scardanelli”.

9 Ed è facile che sottotraccia agiscano le letture di Hölderlin, basti a titolo esemplare: «E crede nel divino / solo chi è nel divino». F. Hölderlin, Consenso umano, da Le liriche, Milano Adelphi, 2014, p. 237.

10 «la mente mente e la menzogna avanza…». G. Trinci, Transiti, op. cit., p. 32

11 Oltre al già citato «canzoniere dell’ante-vita» (ivi, p. 12) si noti anche che «in antevita» (ivi, p.81) è il luogo in cui soffia il vento della propria poesia, e che la «vita di non-vita» è il «teatro» in cui recita il «non nato» (ivi, p. 61).

12 “separato dal mondo, e tutto in esso” (p. 53).

13 «ma questo, di lasciarsi, è luce –| separarsi da noi, dalla bufera| dei pronomi possesso, personali, dalla fiera indomata di ragioni …». Ivi, p. 110.

14 Moltissimi, infatti, i richiami stilistici e lessicali al poeta pellegrino.

15 Trattasi infatti di caratteristiche che non costituiscono grosse novità nel panorama poetico e che, anzi, non dimostrano scarti eccessivi da molte soluzioni già in atto negli anni Novanta.

16 Ivi, p. 9.


Giacomo Trinci, Transiti, luca sossella editore, Roma 2021.