L’ultimo libro di Maria Borio, Dal deserto rosso, esce nel 2021 per la collana di poesia dell’editore Stampa 2009, con due illustrazioni di Linda Carrara e prefazione di Maurizio Cucchi (anche curatore di collana).
Il sintagma preposizionale del titolo identifica sin da subito uno spazio, ecologico e simbolico, in cui si compie l’esperienza di un soggetto isolato eppure posturalmente proteso, come intento a uno stato di interlocuzione costante con chi è altro e altrove rispetto a sé. La plaquette si compone, infatti, di quindici frammenti lirico-epistolari («Ti scrivo da una zona rossa»), ciascuno di quindici versi, e si congeda su un poemetto di sedici movimenti strofici, Millennio di primavera. Quest’ultimo titolo allaccia i vv. 9-10 del testo incipitario («nella prima primavera | del millennio») in un vincolo chiastico, derivando al libello una sua compiutezza macrotestuale e siglandolo con il rigore di un sistema fondato sull’archetipo geometrico del quadrato (15×15; 16×16).

Questa figura elementare si dispone anche graficamente sulla pagina, in una sorta di “inquadramento” testuale di segno rosselliano che perimetra il campo fisico e immaginativo del soggetto e lo moltiplica in dispositivi regolari, così ritmici come spaziali, a configurare una sorta di iper-struttura in cui il simbolo geometrico esprime la doppia funzione che gli è propria: gesto di riarticolazione della trama disgregata e contingente del reale in un nuovo ordine necessitato e, al tempo stesso, struttura d’interdizione e sorveglianza che costringe il soggetto a misurarsi con un limite imposto. Dal piano della forma testuale, l’inquadramento dello spazio si rifrange in una testura di immagini disseminate nei frammenti, che intercettano una passione di geometria mai disgiunta da un’istanza antropologica di controllo: «ed è questa la verità: | i confini sono tracciati, il rosso ha riempito lo spazio, | vuoto, neutro, senza uscita»; «Come capire la mappa? Le regioni sembrano quadri | di una scacchiera con pedine invisibili. […] Anche meridiani | e paralleli non si vedono, chiudono, controllano».

L’inchiesta sulla natura dello spazio e il suo congiungersi al discorso sul valore attraversano intero il libro, affidandosi a un immaginario postumano («Vediamo, desideriamo – forse non è | una stagione, ma l’ultima antropologia –») declinato soprattutto come paradigma di relazioni intersoggettive all’interno del quale la lingua della poesia sembra assolvere un compito essenziale: mediare quella reciprocità di rapporti senza la quale non si è, di fatto, in nessun luogo. La scrittura di Borio prova così a immaginare una nuova nozione di spazio, rifondata a partire dallo scrutinio attento delle presenze materiali – organiche e inorganiche, la creatura e l’artefatto – in cui esso perpetuamente si scompone e ricompone. Questa riflessione, tuttavia, non può prescindere dal riscatto di una funzione del tempo, che nel libro si esprime anzitutto come riabilitazione di un’istanza latamente narrativa. Essa si fonda sulla scansione cronologica della stagione primaverile lungo tutto l’arco del libro, oltre che su una serie di connessioni intertestuali che descrivono il graduale movimento del soggetto lirico dagli spazi interni, domestici e non (la stanza, il supermercato, il bagno), a quelli esterni (il giardino, uno scenario agreste, rurale): la mediazione tra i due spazi occorre esattamente a metà del libro, nel settimo testo, in cui dimensione interna ed esterna si compenetrano: «La stanza è un eden selvatico». In generale, il dato cronologico subisce un trattamento non dissimile da quello che investe la spazialità: e cioè un’intersezione di scale e latitudini temporali diverse, in cui vissuto autobiografico, memoria antropologica e cronometria geologica reciprocamente s’interpellano all’interno di un Umwelt complesso.
Si legga il testo incipitario:

Sono un punto solo nel deserto rosso:
oggi è questa la mia dimensione, un punto
che non ha lunghezza, larghezza, profondità,
caduto dalla parte più alta del cielo su una terra
piena di silenzio e pura improvvisamente.
Ti scrivo da una zona rossa, ed è questa la verità:
i confini sono tracciati, il rosso ha riempito lo spazio,
vuoto, neutro, senza uscita, e tutti sono come me,
punti soli, senza illusione, nella prima primavera
del millennio che al tempo sta cambiando la faccia.
Ti scrivo e da questa stanza sussurro che se un punto
non ha dimensioni è perché forse le ha unite tutte in sé?
Pensarsi è unirsi – mentre la notte e il giorno
hanno un unico colore e impariamo a pensarci –
e un bene, come mai, nuovo?

Il testo posiziona la voce dell’io e definisce l’evento primordiale da cui si dispiega la sua parabola esperienziale e immaginativa. Il punto è una figura tanto dello spazio quanto del tempo. Come entità geometrica primitiva, esso è adimensionale («un punto | che non ha lunghezza, larghezza, profondità») e individua semplicemente una coordinata nello spazio che non è in grado di stabilire rapporti con ciò che lo circonda. Pure, lo spazio attorno al punto muta ed è come se quest’ultimo, dal suo fondo oscuro di isolamento, riuscisse a intercettare una pluralità di luoghi fisici e immaginari, un ambiente transitivo in cui si sovrappongono in una sorta di climax discendente latitudini spaziotemporali diverse: lo spazio postumano del deserto rosso («Sono un punto solo nel deserto rosso»), che a quest’altezza ha ancora la fisionomia perturbante di una superficie ferrosa e brulla, «piena di silenzio e pura improvvisamente», come quella delle immagini che giungono alla Terra dai rover che esplorano in solitudine il suolo del pianeta Marte; quello antropologico e biopolitico della zona rossa («Ti scrivo da una zona rossa»), il piano della specie umana che interviene nello spazio secondo diritto, nomos che seziona, divide, riordina («i confini sono tracciati»); quello autobiografico della stanza, che il gesto ostensivo della deissi particolarizza e avvicina («Ti scrivo e da questa stanza sussurro […]»). Non si dà reale differenza tra queste dimensioni: il punto attraversa ciascuna di esse o, piuttosto, ciascuna è al tempo stesso l’una e le altre nella singolarità che la ha in sé condensate.

Per quanto riguarda il tempo, esso è insieme postumo e originario. L’atto del precipitare dal cielo, per quanto conservi traccia di un’oscura Stimmung apocalittica, è rubricabile come evento dell’origine piuttosto che della fine: richiama l’ammartaggio del lander dopo mesi di viaggio interplanetario, il seme che si deposita nel solco, il lapsus del primo uomo, che già Paolo nella Lettera ai Romani (5, 14) definisce tipologicamente typos tou méllontos, “figura del futuro”[1]. La «prima primavera | del millennio che al tempo sta cambiando la faccia» sembra dunque assomigliare a questo: all’esperienza immaginativa di un cominciamento, di un tempo critico e primitivo che sosta nell’indistinzione, improprio così al giorno come alla notte, che innesca l’indagine etica sul valore, segnalata nel testo dal passaggio alla forma impersonale («Pensarsi è unirsi»), volta a svincolarla dalla sola pertinenza dell’io.

A questa stessa esigenza di riscattare la ricerca poetica dal vincolo del soggettivismo autobiografico sono ascrivibili anche altre procedure stilistiche, come l’utilizzo fluido delle persone grammaticali («Oggi vedo cos’è la primavera – | i segreti si sentono, leggeri e puliti: | li guardi nel cielo su zattere di pino, […] Vediamo, desideriamo – »), il regime ibrido delle attribuzioni («Nessuno vede chi eri, né i suoi desideri») e la carica rogante che attraversa intero il libro, con il proliferare di enunciati interrogativi (se ne contano trentuno), spesso anch’essi declinati impersonalmente («Proteggersi fa spazio?»; «Come capire la mappa?»; «ma come chiamare | davvero una sensazione?»; «Come si dimentica? Cosa si desidera?»). Questi ultimi, oltre a riaffermare una nozione di poesia come infectum, documento provvisorio di un’indagine ancora in esercizio, mirano a bilanciare i momenti in cui il dettato si fa più assertivo («ed è questa la verità: | […] il rosso ha riempito lo spazio, | vuoto, neutro, senza uscita, e tutti sono come me»; «è tutto quello che respiri, ci avvicina»; «quando tutto il dolore del mondo si cancella non c’è più mistero»). Anche quando la voce lirica pronuncia con convinzione un verdetto sul bene, è solo per rettificarlo attraverso l’istituto della correctio, sottrarlo alla puntualità del lessema e dislocarlo nella perifrasi, e cioè in un dispositivo in cui il senso si precisa nel tempo mentre si spazializza lungo il periodo sintattico: «Non esiste felicità, | ma qualcosa che potreste capire quando le persone | condividono uno spazio – ».

Quanto la reinvenzione dei significati e l’interrogazione del valore siano ancorati al discorso sullo spazio si rende evidente già nel titolo. Oltre al riferimento alla nuda geografia marziana e al più recente vissuto individuale e collettivo legato alla pandemia, il titolo della plaquette – ci avverte Maurizio Cucchi dalla breve Prefazione – ne contiene un altro, che rimanda al film del 1964 di Michelangelo Antonioni, intitolato appunto Deserto rosso, la prima pellicola a colori del regista. La vicenda narrata nel film ruota attorno al tormento esistenziale di una figura femminile, Giuliana (Monica Vitti), e a un tentativo di reciprocità sentimentale con un uomo, Corrado (Richard Harris). La storia è interamente ambientata nel paesaggio invernale del ferrarese, avvolto dai fumi artificiali delle ciminiere e dai banchi di nebbia provenienti dai canali, sovrastato dai rumori assordanti delle macchine a lavoro negli impianti industriali e attraversato da enormi bastimenti carichi di merci: la retina del regista ne subisce il fascino e lo restituisce allo spettatore attraverso una ricerca cromatica che si affida al pastello freddo e conferisce dignità estetica all’architettura imponente delle fabbriche, allo scarto tossico e al liquame, a una natura spoglia, impura. Il colore rosso segnalato dal titolo appare in modo discontinuo: è il colore delle antenne gigantesche che svettano nella pianura e che «servono a far sentire il rumore delle stelle», del grembiule della moglie di un operaio, degli interni di un casolare in legno, delle tubature di una nave che circondano Giuliana mentre confessa a Corrado il proprio tentativo di suicidio.

Il deserto rosso di Borio preleva ben poco dallo scrupolo cromatico di Antonioni: quello dell’autrice è un paesaggio caldo e primaverile, in cui coabitano oggetti, artefatti, merci, presenze creaturali, oggetti cosmici. E tuttavia, l’autrice fa riferimento a una scena in particolare che sembra contenere il nucleo teoretico della propria ricerca espressiva. A un’ora esatta dall’inizio del film, lo spettatore ritrova Giuliana intenta a guardare da una finestra che affaccia su un porto industriale, come ipnotizzata dal movimento perpetuo del mare. Corrado le si avvicina, la donna gli confessa che l’osservazione protratta della distesa marina le fa perdere interesse per le cose terrestri, le cose che le stanno intorno. Poco dopo, Giuliana chiede: «Ma cosa vogliono che faccia coi miei occhi? Cosa devo guardare?»; Corrado le risponde: «Tu dici: cosa devo guardare. Io dico: come devo vivere? È la stessa cosa». La ricerca del libro e la sua proposta di scrittura sembrano confidare in questa corrispondenza: nel momento in cui la perlustrazione visiva del paesaggio incontra la riflessione sull’esistenza e sul desiderio e il cosa e il come – due elementi logico-grammaticali diversi – sorprendentemente conguagliano. L’inchiesta sul cosa, sull’oggetto dello sguardo, è già un’inchiesta sul come: un modo di interrogare il senso umano di abitare lo spazio, se l’esercizio scopico è già esso stesso una forma di educazione, una maniera di accorgersi: un atto formale.

Nell’epistemologia del postumano la recensione attenta dello spazio terrestre non può mai disgiungersi dall’istanza critica di riflessione; questa giunzione risulta centrale in una raccolta i cui testi sono spesso montati come affabulazioni fantastico-analogiche, in cui si innestano momenti riflessivi senza reale separazione tra i due piani di discorso. Si legga un testo come In punta di piedi colgo le ciliegie:

In punta di piedi colgo le ciliegie.
L’albero sopra di me è una giovane galassia.
La merla salta su asteroidi di muschio,
mangia la polpa, ingoia il nocciolo, una rotazione
si scioglie nel suo petto, il becco giallo del compagno
arriva come una cometa. L’albero che nostro padre
ha piantato vivrà fino a quando le radici perforano
il muro – ma ogni pochi secondi esplodono
le radici delle galassie. Sporchi di succo profumato
crediamo di allevare, di proteggere? Gli uccelli
dividono i pezzi di un frutto, l’aria diventa nera
e li assorbe. Ti scrivo: un albero è un codice.
Stringo il nocciolo fra i denti, sto per deglutire –
le ciliegie sui rami più alti essiccano e i semi cadendo
trovano trifoglio o vento stellare.

Nel testo appare un soggetto letteralmente proteso nel gesto di cogliere i frutti da un albero e che si dà quale presenza creaturale tra le altre all’interno di un sistema di rapporti eidetici regolato non tanto dall’io e dalle sue proiezioni, quanto dal corpo aggregante dell’albero, che con la sua struttura simmetrica, al tempo stesso ascensionale (i rami) e tellurica (le radici), è in grado di allineare ordini e latitudini del reale lontanissimi nello spazio e nel tempo: dimensione astronomica e terrestre, macroscopica e microscopica, naturale e culturale scivolano l’una nell’altra, sono allo stesso tempo l’una e le altre. Le strategie retorico-figurali messe in campo sono molteplici: al v. 2 l’albero che sovrasta la scena è parificato a un oggetto cosmico attraverso l’immediatezza osmotica della copula; al v. 3 il genitivo di materia identifica ancora l’elemento siderale, gli asteroidi, con quello terrestre, il muschio; ai vv. 4-5 il dispositivo della similitudine accosta il becco del merlo all’evento astrale; al v. 9 il genitivo media un cortocircuito analogico che associa il sistema galattico alla struttura ipogea delle radici; al v. 12 ancora la copula identifica l’elemento vegetale con quello antropico – e forse metaletterario – del linguaggio («l’albero è un codice»); ai vv. 14-15 la congiunzione disgiuntiva sta a significare la compresenza e quasi indifferenza, ai piedi dell’albero, dell’elemento vegetale, il trifoglio, e del fenomeno celeste, il vento stellare. Ed è ancora l’albero a introdurre nel testo la funzione del tempo («L’albero che nostro padre | ha piantato vivrà fino a quando le radici perforano | il muro»), facendosi veicolo di una memoria autobiografica e di un tracciato genealogico che riesce a proiettarsi nel futuro a patto di inserirsi quasi con violenza nel tessuto materico del reale (altrove nel libro è persino lo spazio psicologico ed emotivo a divenire coestensivo rispetto a quello biologico-materico: «la tenerezza è un tessuto rigenerato» in Il pelo del coniglio così sottile contro la gabbia). A metà del testo, la voce lirica, senza astrarsi dalla scena in corso, si dispone come presenza critica immanente per domandare: «Sporchi di succo profumato | crediamo di allevare, di proteggere?».

Occorre alla mente l’interpretazione relazionale della meccanica quantistica così come Carlo Rovelli è andato enunciandola e sviluppandola a partire da un articolo del 1996, intitolato Relational Quantum Mechanics[2]. La dottrina di Rovelli nasce come superamento di una forma di realismo che esige dalla scienza la scoperta di una verità esistente indipendentemente dall’osservatore. Secondo Rovelli, Heisenberg è stato il primo a interrogare il mistero del comportamento empirico dell’elettrone: esso esiste, meglio, si manifesta, su base probabilistica, in un punto dello spazio soltanto se interpellato da qualcos’altro. L’interazione (il salto quantico) è il suo solo modo di essere chiamato alla realtà; diversamente, esso perde mondo, «non è in nessun luogo preciso. Non è in un luogo»[3]. L’interpretazione relazionale della meccanica quantistica, insomma, ridefinisce quest’ultima come una teoria che descrive gli oggetti e i sistemi fisici solo in relazione ad altri oggetti e sistemi:

Pensiamo il mondo in termini di oggetti, cose, entità (nel gergo scientifico li chiamiamo «sistemi fisici»): un fotone, un gatto, un sasso, un orologio, un albero, un ragazzo, un paese, un arcobaleno, un pianeta, un ammasso di galassie… Questi oggetti non stanno ciascuno in sdegnosa solitudine. Al contrario, non fanno che agire l’uno sull’altro. È a queste interazioni che dobbiamo guardare per comprendere la natura, non agli oggetti isolati. Un gatto ascolta  il ticchettio dell’orologio; un ragazzo lancia un sasso; il sasso sposta l’aria dove vola, colpisce un altro sasso e lo muove, preme sul terreno dove si posa; un albero assorbe energia dai raggi del sole, produce l’ossigeno che respirano gli abitanti del paese mentre osservano le stelle e le stelle corrono nella galassia trascinate dalla gravità di altre stelle… Il mondo che osserviamo è un continuo interagire. È una fitta rete di interazioni[4].

Non si tratta, insomma, per Borio, di panismo o di ingenua riattivazione dell’idillio; piuttosto, di una forma d’intellezione figurale che scandisce il reale in una topografia complessa, un ritmo di relazioni intersoggettive che conferisce agency alla materia in ogni sua articolazione – l’io, l’albero, gli uccelli, i frutti, persino l’aria, che «diventa nera» e assorbe le cose –, secondo una prospettiva non ancora anarchica o deflagrata, ma del tutto policentrica. In altri testi essa investe anche gli artefatti, le merci con cui riempiamo il carrello nei momenti del consumo («Nel carrello il cibo rimbalza, la plastica scricchiola»), le macchine che hanno riplasmato l’Umwelt terrestre e celeste: «Lei andava in una notte bianca, le porte | automatiche dei negozi si aprivano, | le cellule fotosensibili la riconoscevano, | dall’alto i led rossi espandevano la faccia».

Un’operazione, del resto, non priva di risvolti anche perturbanti. Nel testo A guardia della porta chiusa l’ulivo secolare, ad esempio, gli stessi meccanismi figurali dispiegano in forma onirico-fantastica un evento calamitoso, in cui l’albero diventa la sentinella che occlude l’accesso all’«ultimo rifugio del pianeta», il sole si trasforma in un’entità minacciosa che pericolosamente si avvicina, i frutti che cadono dall’albero sono per il piccolo geco come meteoriti da schivare («I frutti cadevano, il geco faceva una corsa | a ostacoli»), mentre la prospettiva apocalittica del periodo interrogativo ipotetico dell’explicit («se il clima cambia anche noi potremo finire») viene dirottata, attraverso l’inarcatura, su un’immagine straniante di quiescenza e finitudine. L’immagine di una prospettiva umile, in senso etimologico, disantropica ed eccentrica: uno stare accanto alle cose terrestri e da lì osservare la «catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante, dell’operabile»[5]: l’elemento arboreo, per un momento antropomorfizzato, diventa nell’ultimo verso un areostato che, mentre l’astro solare si avvicina, non riesce a prendere quota: «vicino alle olive, spiare in alto la testa dell’albero, | mongolfiera che il sole riscalda ma non solleva». In un altro testo, È mezzogiorno e vedo una notte di mezza estate, «il pavone dei due vecchi nella casa grigia» incarna una memoria biogeologica e disantropica, trasformandosi in una sorta di creatura che, gridando «per un mondo esistito | molto prima del nostro», eccede la durata e i valori dell’esperienza individuale, collettiva, della specie, mettendo ancora una volta in discussione la percezione dello spazio e del tempo su cui si fondano le umane assiologie.

All’interno del concetto di intellezione figurale rientra anche il discorso, centrale nel libro di Borio, del sogno. Il sogno di Borio è un «sogno lucido». Si tratta di un sintagma apparentemente ossimorico; in realtà, esso indica il mettersi a disposizione da parte del soggetto di un’immagine o fuga ritmica di immagini che entra in tensione noetica con la realtà. C’è in particolare un testo, In un sonno lunghissimo, mentre un silenzio intorno, in cui il discorso onirico non si dà come interstizio di evasione dal mondo, ma come esercizio cognitivo radicato in una profonda coscienza storica. Esso accoglie tracce lucide di reale («Ho sognato tanti corpi, i codici, i caratteri, la logica del profitto ancora impressi | nelle rughe»), riordinate all’interno di un nuovo universo fantastico-finzionale e di una vicenda individuale e cosmica di unione, reintegrazione, mutamento, la cui lettera chiede di essere conservata. C’è un referenzialità, una letteralità del sogno che va salvaguardata dai dispositivi della decodifica (metonimia, metafora, allegoresi); non c’è ermeneutica del sogno in senso classico, il sogno stesso essendo già atto ermeneutico, una forma di intellezione figurale della realtà, di reinvenzione (anche in senso etimologico) del valore attraverso l’immagine. Solo se conserva la curvatura visionaria, la tensione differenziale rispetto al contingente, esso può esercitare la sua valenza trasformativa e, perché no, utopica.

Come accennato all’inizio, il libello conclude su un poemetto dal titolo Millennio di primavera. L’operazione chiastica conferma il complesso di motivi di cui il tema portante della primavera si è arricchito nel corso dei testi precedenti, sicché nell’ultima stazione l’aprile è molto più che una mera determinazione del tempo: un dispositivo figurale che ha ormai aggregato molteplici piani di significato («Vediamo, desideriamo – forse non è | una stagione, ma l’ultima antropologia –»). Il passaggio alla forma poematica innesca un mutamento del regime discorsivo: senza rinunciare alla valenza conoscitiva dell’immagine e alla visionarietà dello stile, si nota l’incremento della dorsale ragionativa, che a tratti sconfina nella vera e propria riflessione antropologica e nell’ibridazione tra poesia e saggio («La nostra specie crede alle macchine | e al destino, fermi vuoti, per la prima volta, | come il Santo Sepolcro dalla peste del Trecento»). Ne fa fede, tra le altre cose, l’alto tasso di tecnicismi lessicali: antropologia, circonferenze, cerchi magnetici, zone, habitat, specie; un elemento linguistico del resto non nuovo in una scrittura abituata sin dagli esordi a stemperare l’ipoteca sentimentale attraverso il ricorso alla tessera specialistica. Restano attivi i procedimenti di spazializzazione («È stato appoggiare un piede sull’acqua: | il freddo all’inizio, poi l’abitudine, | la caviglia sul bordo e il nuovo habitat, | la piscina in circonferenze più grandi, | anelli, cerchi magnetici. Onde»; «I ricordi | un habitat?»), che rendono coestensivi tempo e spazio, topografia interiore ed esteriore, ma la riflessione sembra infine insistere su alcuni motivi come il desiderio, il possesso e la perdita, la memoria e la dimenticanza («Come si dimentica? Cosa si desidera?»), attorno ai quali si organizza un nuovo ethos della cura, di cui è forse la creatura animale a proporsi come primo autentico emissario: l’atto d’amore delle tortore che costruiscono il nido cucendo tra loro gli aghi di pino, che «covano | e dimenticano».

Per comprendere in che modo la dimenticanza e la perdita possano per Borio inserirsi in un codice di valori alle soglie dell’«ultima antropologia», occorre forse riandare a un’ulteriore scena topica del film di Antonioni, con cui quest’ultimo testo in particolare sembra dialogare sottotraccia. Corrado è in procinto di partire per il Sud America, porterà con sé soltanto poche cose, il necessario. Giuliana non comprende: «Se dovessi partire, io mi porterei via tutto. Tutto quello che vedo, tutto quello che ho sottomano ogni giorno». Giuliana non riesce a staccarsi dalle cose, da tutte le cose; ciò che la rende una presenza alienata nel mondo è una forma d’affezione che non sa individuare davvero l’oggetto del proprio desiderio, che ha paura a disgiungere l’amore dall’atto di consumo («Allora un animale per mangiarlo, deve amarlo?» le chiede Corrado in una scena precedente; «Sì, forse è così»), che preferisce divorare, trattenere, piuttosto che ammettere la necessità che qualcosa vada perso: «Le cose che lasci, la gente, le ritroverai al tuo ritorno? E, se le ritrovi, saranno uguali?», domanda lei. «Può darsi – le risponde Corrado con lucidità – che non ritorni più».


[1] Cfr. G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, p. 73.

[2] Il paper è consultabile in rete al seguente indirizzo https://arxiv.org/pdf/quant-ph/9609002.pdf. Per una storia dell’interpretazione relazionale della meccanica quantistica, dalle sue origini fino ai più recenti sviluppi, si veda l’articolo divulgativo di John Horgan, Is There a Thing, or a Relationship between Things, at the Bottom of Things?, pubblicato il 20 settembre 2021 su «Scientific American»: https://www.scientificamerican.com/article/is-there-a-thing-or-a-relationship-betweenthings-at-the-bottom-of-things/.

[3] C. Rovelli, Sette brevi lezioni fisica, Milano, Adelphi, 2014, p. 27.

[4] C. Rovelli, Helgoland, Milano, Adelphi, 2020, p. 84

[5] Così Ernesto De Martino definisce la «disposizione elettiva» dell’attuale congiuntura culturale occidentale, che concepisce il problema della fine come posto al di fuori di qualsiasi orizzonte escatologico, cioè di qualsiasi piano teologico, evolutivo, dialettico della storia; E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino, Einaudi, 2019, p. 355.

@Foto: Curiosity Rover on Mount Sharp, Seen from Mars Orbit. NASA/JPL-Caltech/Univ. of Arizona.