Da qualche anno le edizioni Nottetempo portano avanti una collana decisamente ambiziosa, battezzata animalia; saggi divulgativi ad ampio raggio su singole specie animali. Dopo fenicottero, delfino, gatto, asino, falco e cane, è la volta di un grande predatore. Infatti, l’ultimo titolo pubblicato è il lupo (2021), scritto dall’inglese Garry Marvin, con traduzione di Anna Rusconi. L’autore, uno dei massimi esponenti in Human-Animal Studies d’Europa e docente all’università londinese di Roehampton, era finora sconosciuto in Italia.

Sulla cover gialla si staglia un’immagine nera del carnivoro. Il libro ha un ricco apparato iconografico, quasi cento illustrazioni, di cui una sessantina a colori. Nella prima parte sono bellissime foto aeree di scene di caccia o vita familiare di un branco, scattate specialmente nel Parco Nazionale di Yellowstone (USA). Poi man mano si alternano illustrazioni, incisioni, xilografie, litografie, pubblicità, fotogrammi, mosaici, maschere, disegni. Questo per dire che il materiale documentale in cui affonda le basi la prosa di Marvin è molto vasto: varia dal cinema, alla letteratura, alla cultura pop, ma ci sono anche teatro, Bibbia, mitologia.

Personalmente ritengo Il lupo tra i migliori saggi messi insieme negli ultimi anni sul tema. È ad esempio più compatto, fluido e brillante rispetto a Il lupo di Michel Pastoureau (Ponte alle Grazie, 2018), anche se meno ampio storicamente in confronto a Il tempo dei lupi di Riccardo Rao (UTET, 2018). Ad ogni modo, il ‘testo sacro’ in questo campo continua ad essere il saggio di Barry Lopez, Lupi e uomini (Piemme, 2015), inarrivabile per scrittura, profondità e analisi.

Il saggio di Garry Marvin si apre con una precisa e aggiornata sezione dedicata alla biologia e all’ecologia della specie, per poi scandagliare la questione secondo una lettura tripartita del fenomeno: lupofobia, lupicidio, lupofilia. Lo studio attraversa così, cronologicamente, il mutamento della percezione umana occidentale nei confronti dell’animale, a partire dalla preistoria fino ai nostri giorni. Per fare questo si serve di un taglio trasversale apprezzabilissimo, leggero, mai appesantito da erudizione. L’analisi è sempre in movimento, segue con attenzione l’andamento del rapporto uomini-lupi a partire dagli albori dell’umanità. Mostra dall’alto, con una prospettiva a volo d’uccello, la lenta metamorfosi subita dall’idea di lupo nel corso delle epoche. Nel farlo, unisce la sensibilità del sociologo culturale al rigore dello scienziato biologo.

A partire dalla sua comparsa nell’emisfero boreale, questo canide ha sempre intrecciato le proprie vicende a quelle umane. Marvin ne stila un ritratto preciso: la taglia, la morfologia, l’andatura e l’alimentazione. Passa poi alle strutture sociali: branco, gestazione, dispersione, accudimento, tana. I sistemi di caccia, le prede preferite. I concetti di areale, di rendez-vous, ululato, vengono presentati al lettore con grande chiarezza, in modo tale che anche un non addetto ai lavori si possa fare un’idea della complessa e affascinante struttura-mondo del lupo.

Da lettore onnivoro di libri lupeschi, penso che le prime quaranta pagine di Garry Marvin siano una vera perla divulgativa. È come se si leggesse un documentario, col privilegio di potersi fermare, ammirare le fotografie aeree sulle attività quotidiane del branco, rappresentarsi il prima e il dopo di quel fermo immagine e prepararsi all’excursus che l’autore fa nelle pagine seguenti. Vero gioiello di comunicazione scientifica, passa poi a una carrellata storica inerente questo animale che, nel corso dei secoli e fino a qualche decennio fa, ha rappresentato il male per eccellenza. È, in sostanza, la parabola discendente/ascendente del destino della specie, da un odio secolare fino all’odierna wilderness. Ed è nel contempo una riflessione sulla natura umana nella sua relazione con il versante animale di sé.

Già Basilio di Cesarea diceva, nel IV secolo: «Certamente lupo è il diavolo, bestia immane, rapace, insidiosa, comune nemico di tutti». L’antagonista per eccellenza dei pastori è il predatore, che compete con essi. La rivalità nei confronti dei lupi nasce dalla domesticazione, spiega Marvin, mentre, fino a quando l’uomo è stato nomade e cacciatore, non aveva nulla da difendere, nessun capo da recintare, e correva parallelamente a quegli animali nei campi e nei boschi a caccia di prede, senza percepirli come malvagi invasori esterni. Ma ogni mutazione antropologica ha conseguenze sull’immaginario collettivo, e di questo l’autore è testimone attento.

L’ambizione di Marvin credo sia quella di rivolgere il discorso ad un uditorio ampio, attingendo per questo anche alla cultura pop, alle leggende, e spesso ai pregiudizi tramandatisi da sempre, così da sfatarli. E far avvicinare il lettore medio-forte a una tematica apparentemente limitata, indicandone le linee trasversali che riguardano tutti, soprattutto la psicologia e l’estetica. Riesce a mostrare la maniera in cui paure e timori si spostano tra i secoli cristallizzandosi in storie, incubi, antiparabole. Come, ad esempio, la vicenda punitiva di Istar che trasforma il pastore in lupo o di Giove che muta Licaone in bestia assassina di greggi. Già a partire dall’epopea di Gilgamesh compaiono quindi le prime metamorfosi lupesche intese come punizioni. Il testo di Marvin si configura con lo scorrere delle pagine come un saggio critico di storia socioculturale di quest’animale, sfociando a volte in un testo di antropologia.

Attraversando la letteratura, a partire da Esopo, la figura del lupo come ricettacolo del male si è consolidata nel tempo, per arrivare fino a Perrault o ai Fratelli Grimm. L’origine della favolistica noir si situa in un contesto pastorale, perché il predatore si ciba degli armenti. Pian piano le caratteristiche peggiori dell’essere umano (inganni, falsità, stoltezza) si traslano nell’immagine del lupo e lo fanno diventare un buco nero in cui confluiscono tutte le nefandezze. Assorbe su di sé i peccati e ne diventa il contenitore. Era accaduto lo stesso in Virgilio prima e in Petronio, poi.

Nella Bibbia solo in Isaia la bestia non fa danni: «Il lupo dimorerà insieme con l’agnello». Per un momento la visione profetica di un futuro utopico in cui preda e predatore dormono accanto non sembra lontana. Ma poi, subito, in Ezechiele 22, 27, Sofonia 3,1-3, Matteo 7,15 e 10,16, Luca 10,3, Giovanni 10,11-12 e infine in Atti 20,29, il lupo è solo rapace, rapisce, dilania, rosicchia, disperde.

La responsabilità di qualsiasi atto immorale è ‘vomitata’ su quella bestia sconosciuta, e raggiunge forse il suo apice coi licantropi e i lupi mannari nel cinema horror dei primi anni ’20. A una violazione delle norme segue sempre un abbrutimento: peli, bava, versi rochi e sete di sangue umano; si approda in tal modo a delle figure ibride. Hanno una connotazione antisociale e doppiogiochista. In esse convivono due nature, sono fiere mostruose dall’essenza fluida, uomini che nascondono al proprio interno una natura terribile. 

Nell’Ottocento compaiono nella narrativa i licantropi, gli stessi che gradualmente passeranno sul grande schermo in film come Il lupo mannaro di Londra (1935) e L’uomo lupo (1941), dando un gran daffare ai truccatori di Hollywood. Su questo aspetto della relazione uomini-lupi è senza dubbio, a mio parere, decisivo il saggio di Robert Eisler, Uomo diventa lupo, (Adelphi 2019).

È sorprendente la capacità di Marvin di seguire i passaggi di valore, la lenta metamorfosi degli elementi, e il consolidarsi di timori atavici in esseri spaventosi concreti, molto simili a noi. Per mezzo della letteratura prima medievale, poi sei-settecentesca, la paura del lupo si è perciò ingigantita, portando infine a campagne di abbattimento programmatiche. 

Divenuto ormai il polo negativo di tutte le pulsioni più scabrose, serbatoio delle emozioni marce dell’uomo e scudo per giustificare le condotte peggiori dello stesso, il lupo inizia a subire presto soppressioni da parte delle istituzioni pubbliche. Accade dappertutto nel mondo, nel diciannovesimo secolo, con movimenti di sterminio, avvelenamenti, taglie, linciaggi, come se – spiega Marvin – la funzione di capro espiatorio oramai ad esso sovrapposta non avesse più confini.

Esistono selfie ante litteram con lupi appesi su piante, scatti macabri su bestie inermi e moribonde prese nelle trappole o coi corpi corrotti dai veleni. L’autore non manca di mostrare al lettore queste fotografie, gli servono da prova. Intere nazioni con fucili a tracolla e barattoli di veleno, una natura selvaggia percepita come minaccia, in parallelo una corsa al progresso senza freni. Più cercavano di allontanare il supposto demonio e più vi si avvicinavano macchiandosi di un crudele gesto.

L’analisi di questo massacro è fredda, ha l’obiettività del saggio storico e non esprime giudizi. Ma la sua precisione è tale da mostrare la brutalità degli atti. La rassegna impietosa mette così il lettore odierno di fronte all’assurdità dell’operato collettivo, il peccato mortale sorto dal desiderio di dominio assoluto sul pianeta. La chiarezza di esposizione di Marvin è un tesoro per farsi un’idea precisa delle dinamiche che hanno portato ad uno dei più grossi pogrom animali della storia. Si sente sottotesto che l’autore ha qui molto a cuore il destino della specie. La sua precisa disamina del macello serve da monito perché non si ripeta una seconda volta, penso. Il saggio di Marvin assume quindi una precisa funzione politica atta a portare il grande pubblico ad una sensibilità diversa, finalizzata ad una tutela e a una convivenza possibili oggidì.

In Italia, dopo che negli anni ’70 la specie ha toccato sulla penisola il minimo storico di esemplari, con alcuni branchi sopravvissuti sugli Appennini, si è arrivati a una sempre più decisa difesa della sua presenza sul territorio. È stato riconosciuto come in pericolo di estinzione e quindi ampliata la sua salvaguardia. Così è accaduto in tutto il mondo: sono sorte istituzioni volte alla sua tutela e al suo monitoraggio, musei, aree in cui è possibile ammirarne esemplari in cattività. Si sono moltiplicati gli studi scientifici. La sensibilità collettiva è davvero cambiata. Ma come è stato possibile un tale mutamento di prospettiva, e quando è successo?

Mai come ora, mi è stata chiara davanti agli occhi la percezione che le idee sono frutto di processi collettivi di sedimentazione, e mutano lentamente, di decennio in decennio, fino a quando ha luogo uno stacco netto e il paradigma vecchio si capovolge del tutto. La lettura del libro di Garry Marvin mostra i passi progressivi di questo ribaltamento percettivo. Va a ritrovare alla radice i ‘semi buoni’ del rapporto uomo-lupo e ne indica gli epigoni.

Negli Stati Uniti, fino a prima dell’arrivo dei coloni, lupi e nativi americani avevano vissuto in armonia, rivestendo i primi per i secondi una sorta di funzione simbolica di Dio. Proprio i loro miti fondativi citano spesso lupi con ruoli spartiacque, li si ritrova nelle cerimonie di iniziazione e nei rituali di gruppo. Il lupo è simbolo di coraggio e resistenza, maestro della transizione.

L’autore spiega inoltre il legame intimo tra lupi e popoli dell’Alaska, ma anche con gli Ainu giapponesi. Si risale fino a quello stato di grazia in cui la percezione dell’ambiente non prevedeva una suddivisione tra selvaggio/non selvaggio. Tutto faceva parte del fluire del creato, e anche gli animali ovviamente erano membri di quel proscenio dove, non esistendo confini o territori da difendere, non c’erano conflitti. Ed è da qui, da questo primevo legame d’affezione, che trae origine il culto per il lupo amico.

È un rapporto rimasto confinato per secoli in pochi rituali sopravvissuti in qualche riserva, ma è proprio in esso che risiede la possibilità di un rilancio dell’immagine del lupo. Questa originaria relazione è risalita a galla insieme all’intervento della moderne scienze biologiche ed etologiche, nella seconda metà del ventesimo secolo. È commovente il gesto sommesso con cui Marvin rintraccia nella storia della cultura i primi sintomi della riabilitazione. La rimozione della patina nera dalla sagoma di quest’animale ha reso possibile, per tutti, una percezione del “fenomeno lupo” feconda, ricca, e di conseguenza ha generato un rapporto reale di vicinanza, fino a quel momento impensabile.

La riscoperta simbolico-scientifica del lupo ha avuto luogo grazie ad alcune figure pionieristiche, sino ad arrivare ai giorni nostri a David Mech, autore del principale e più completo testo sulla specie Wolves. Behavior, Ecology, and Conservation (The University of Chicago Press, 2003). In Italia, ad esempio, è stato decisivo il lavoro svolto da Luigi Boitani. Marvin spiega come in questo caso siano stati proprio i libri a mutare l’opinione pubblica e non il contrario; con l’avvento del nuovo approccio biologico finalmente è possibile una percezione dell’animale ‘ripulita’. 

L’autore individua l’attimo iniziale di questa sterzata percettiva in alcune righe scritte da Aldo Leopold negli anni ’40, parole che conservano ancora la forza di un segreto svelato. Nel suo Almanacco di un mondo semplice Leopold, che prima di diventare naturalista fu cacciatore, narra il momento di svolta personale e universale:

«A quei tempi non avevamo mai sentito che qualcuno si lasciasse sfuggire l’occasione di uccidere un lupo. In un attimo stavamo scaricando piombo sul branco con più eccitazione che precisione […] Quando finimmo i colpi, la lupa era a terra e un piccolo trascinava una zampa verso rocce invalicabili. Raggiungemmo la vecchia lupa appena in tempo per osservare un feroce fuoco verde spegnersi nei suoi occhi. Mi resi conto allora, e non l’ho mai più dimenticato, che in quegli occhi c’era per me qualcosa di nuovo, qualcosa che solo il lupo e la montagna conoscevano».
(A. Leopold, Pensare come una montagna. A Sand County Almanac, Piano B, 2019)

Marvin spiega bene come quel momento sia stato simile a una conversione, un mutamento radicale dello sguardo. Da quell’occhio morente prende il via tutta un’epoca di coscienza ecologica, dall’idea che anche gli animali abbiano un’anima silente. È il risveglio di un’emozione di comunanza con la natura selvaggia. Gli indigeni lo sapevano già da secoli. Fare un passo indietro, per farne poi un altro molto più avanti. Aldo Leopold, dice Marvin, mostra a tutti che tutto il creato partecipa dello stesso respiro ed è necessario un cambio di prospettiva. È solo il primo passo del lento moto di conversione ecologica ancora in atto.

Adolph Murie fu il primo a fare ricerche sul campo in Alaska, e pubblicare nel 1944 The Wolves of Mount McKinley, frutto dell’osservazione diretta della vita di un branco. Egli poté studiare nel suo habitat un branco di lupi. Compì il secondo step, perché per la prima volta si avvicinò a quell’animale con una pura intenzione ‘naturalistica’.

Ruolo centrale ebbe infine Farley Mowat, autore di Mai gridare al lupo: un giovane ricercatore mandato negli anni Sessanta dal governo canadese a studiare l’interazione tra il grande predatore e i caribù. Da solo col branco nel cuore della tundra, il suo approccio, tutto basato sull’empatia, fece sì che si aprisse ancora di più la strada alla coscienza ambientale degli albori. Il “nuovo lupo” era lì nitido, vicino, non faceva più paura e anzi, risvegliava radici.

Il pregio del saggio di Garry Marvin è mostrare come singole opere letterarie, tramite la loro diffusione nel pubblico di massa, abbiano cambiato sul serio e nel concreto le idee della gente comune. È una cosa, mi chiedo, che noi crediamo ancora possibile, che cioè un libro possa davvero mutare, in meglio o in peggio che sia, le idee prevalenti? Basta ancora solo un romanzo, un saggio per smuovere il giudizio di migliaia di persone, aiutare il loro discernimento?

«Un profondo lamento riecheggia da roccia a roccia, rotola giù per la montagna e sfuma nella lontana oscurità della notte. È un’esplosione selvaggia di sfida, dolore e disprezzo verso tutte le avversità del mondo. Ogni creatura vivente (e forse anche molte di quelle morte) prestano ascolto al richiamo. Per il cervo è un promemoria della caducità della carne, per il pino è un annuncio delle zuffe di mezzanotte e del sangue sulla neve, per il coyote è la speranza di racimolare qualcosa […] Eppure, dietro queste ovvie e immediate speranze e paure si cela un significato più profondo, noto solo alla montagna. Solo lei, infatti, ha vissuto abbastanza da poter ascoltare – imparziale – l’ululato di un lupo. Coloro che non possono decifrarne il significato nascosto sanno tuttavia che esiste, perché si percepisce in ogni territorio di lupi, e lo si distingue da tutti gli altri. È il brivido che corre lungo la spina dorsale di chi sente i lupi di notte, o di chi ne segue le tracce di giorno»
(A. Leopold, Pensare come una montagna

Il libro si chiude con una breve rassegna dei primi movimenti legati al rewilding e alla wilderness. È la questione della ricolonizzazione o ripopolamento di boschi, parchi, foreste, da parte di bestie selvatiche. Può aver senso per la massa solo se inteso come mossa di decrescita volta a una ricostituzione del legame integrale con la Terra. Ovunque essa avvenga.

È vero, può essere coniugato come gesto di protesta e rinuncia alle comodità, e fuga dalla città verso la montagna. Può diventare una contromigrazione verso l’alto, in cerca di silenzio. Un tocco autentico fatto portando le mani alle erbe di un prato pingue, alle foglie di una foresta di conifere.

Dall’altopiano, affacciati sulla testata della valle, le orecchie tutte protese giù, verso il cuore dell’areale del branco, le prime luci del mattino; un suono nostalgico simile a un saluto. Lo ascoltiamo e lo leggiamo, e in qualche modo siamo già diversi anche noi, ingenuamente.


Garry Marvin, il lupo, traduzione di Anna Rusconi, Roma, Nottetempo, 2021, €18.