Tutte racchiuse nel formato minuto delle edizioni Sellerio, le micro-biografie di Eugenio Baroncelli costituiscono da quasi vent’anni un esempio di grande coerenza e fedeltà al proprio credo letterario. Questo scrittore dalla perizia bizantina, asserragliato nel lungo e dorato crepuscolo di Ravenna, continua ad affidare ai suoi piccoli libri una sorta di opera enciclopedica sub specie vitae, potenzialmente infinita. Libro di candele. 267 vite in due o tre pose (2008), Mosche d’inverno. 271 morti in due o tre prose (2010), Falene. 237 vite quasi perfette (2012), Risvolti svelti. Breviario amoroso di vite altrui capitolate (2017), fino al recente Libro di furti. 301 vite rubate alla mia (2021): quello che informa l’opera di Baroncelli è un furore classificatorio eterogeneo, che segue le traiettorie imprevedibili di un sacerdote della Biblioteca, dove ciò che conta è l’istante fotografico, la posa o l’attimo fatale, di una vita scelta per caso ma mai casualmente consegnata alla pagina.

Inserendosi con il piglio famelico del giocatore novello appena sedutosi al tavolo da poker, Baroncelli scruta insolente tutta la lunga e prestigiosa tradizione di biografi, poligrafi, scrittori-collezionisti che han fatto dell’erudizione compiaciuta una passione letteraria, una questione affettiva e stilistica. Sono convocati al tavolo da gioco Diogene Laerzio, John Aubrey, Marcel Schwob, Stefan Zweig, Lytton Strachey , Pierre Michon, fino a chi come Giuseppe Pontiggia, Ermanno Cavazzoni ed Edgardo Franzosini han fatto del libro di biografie uno scambio lampante, ora ironico ora pietoso, tra vita e letteratura. Lo si potrebbe assimilare ai recenti sviluppi della biofiction o alle disinvolte acrobazie letterarie, dal gusto giocoso e pseudo-erudito, apparse negli ultimi anni nella collana Compagnia Extra di Quodlibet. Tuttavia la poetica di Baroncelli nasconde qualcosa di diverso rispetto a queste tendenze: una tale assiduità nel collezionare istantanee, vite e morti dalla Bibbia a un’anonima ragazza di Rimini, rifugge da ogni fiducia nella fiction e tradisce presto il profilo stesso, dolorosamente reale, del collezionista. Egli non solo entra nella sua galleria in incognito, attraverso le storie di romiti calligrafi o catalogatori insonni, ma ci viene incontro come quei volti che emergono solo dal mosaico di altri pezzi. “Questo libro […] dimostra vera una legge malinconica: che non c’è scrittore più autobiografico del biografo”, ammette il «critico abruzzese» Luigi Leone Carbone, anagramma e maschera dell’autore stesso, nell’Incipit al Libro di Candele. Il biografo compulsivo non è che all’inseguimento di se stesso e Baroncelli, che ha esordito dopo i sessant’anni, classifica i feticci della memoria altrui per dare posto ai propri, qua e là ravvisabili nella brevitas delle sue prose. Per provare a entrare infine nella propria collezione e finire così l’opera cui ha lungamente atteso, in un lavoro perfetto in quanto punto finale tra vita e letteratura. 


Partirei dal suo esordio tardivo. Bufalino diceva che avrebbe preferito iniziare a pubblicare da postumo, lasciare aperti a varianti i manoscritti e sottrarre così l’opera a quella morte in vita che è la pubblicazione. Lei però sembra aver scongiurato questo rischio, consegnando alla pagina sempre pose parziali delle vite che coglie e coltivando la variazione come regola permanente dei suoi testi. La condensa dei suoi libri è un catalogo da cui si entra ed esce senza vedere fine o inizio, e la percezione è che il pubblicato sia solo la pausa momentanea di una scrittura continua e imprevedibile.  

Non è stata però una vocazione tardiva. Ho solo posticipato qualcosa che ho sempre pensato di fare, anche se non in modo così attivo. Forse per pigrizia o per lentezza, solo a un certo punto ho deciso di scrivere per pubblicare. Prima ho scritto di cinema in varie riviste, ma ho sempre coltivato anche una forma di scrittura che definirei da lettore o da pre-scrittore. In montagne di taccuini per decenni non ho mai scritto nulla di definitivo: copiavo, trascrivevo a memoria, cambiavo e variavo frasi, brani, a volte singole parole, tratti da libri, riviste, giornali, biglietti o cartelli pubblicitari. Sono taccuini di citazioni, di prose brevi sul tema di una frase proposta dal caso, che so, sulla «Gazzetta dello sport». Il taccuino ha delle sue leggi di brevità, sono telegrammi della memoria. Lo faccio ancora, scrivo ogni giorno, quando non sono impegnato a casa o in giro. Ma per anni non mi sono consegnato alla letteratura, ne diffidavo. La parola o la frase è l’unità minima di partenza ma non si sa da dove venga e dove vada. Andare verso la letteratura è stato per me un errore, è stato come dare un costume stretto a una prassi di lettura e scrittura che non può avere forma e quindi fine. È anche un problema tecnico, di stile.

Qual è la spinta che l’ha portata a dedicarsi con tanta assiduità alle vite degli altri in biografie minime? Lo spirito curioso ed erudito del collezionista credo giochi un ruolo importante, basti vedere i suoi fantasiosi e cavillosi indici, ma c’è un metodo per cui qualcosa lo attira e altro lo respinge nelle storie altrui?

La mia vita, come la tua, come quella di tutti, tende sempre a un’altra, più vera, che si trova altrove. Cercare questo altrove è stata la molla. La mia vita è poco interessante, perché non è mai dove dovrebbe essere, è sempre da un’altra parte. Il mondo vive, è là fuori, e staccata dalla propria vita c’è la vita viva. Ci sono poi vite di tutti i tipi e io conoscendo la mia ho pensato, e ho le prove, che la mia non fosse interessante. Forse non avrei pensato niente di tutto ciò se fossi nato un secolo prima, perché in questo tempo il senso di posterità e di sfasamento dalla vita è più forte. C’è certo anche un gusto collezionista ed erudito, ed è la cosa che mi diverte di più in questo strazio. Tra tutti i miei strazi, quello di scrivere è il migliore. Mi sono reso conto che il miglior giudizio che posso dare su di me, di comodo, segreto, interessante, è quello sulla tassonomia, la classificazione. Le vite sono tutte diverse ma uguali, e come le metti assieme allora? L’abilità e il talento di uno scrittore si misura nel suo desiderio tassonomico. C’è sempre un metodo, il mio metodo è che non ce l’ho. Sono più le cose che butti via, la vita stessa è un’antologia, quella vera intera non la becchi mai. Prendi qualcosa che ti interessa, lo metti da qualche parte, i taccuini li metti da qualche parte. Mi segno delle frasi da una biografia, oppure mi sento attratto da un episodio o da un fatto secondario, dai dettagli. Tendo a liberarmi però dall’eccesso di memoria e di pensiero, è male avere l’idea di qualcosa, prima viene lo stile, pensare troppo guasta. Beckett diceva prima di scrivere, balla. Non progetto mai troppo, cosa che un biografo vero invece deve fare per forza.

E questo spirito tassonomico come entra in relazione con lo stile, l’intuizione estetica e letteraria dell’autore che deve tendere all’opera?

La questione delle vite viene proprio dall’intuito estetico di cui parli, perché ho molte riserve sul romanzo e la narrativa in genere oggi. Credo che scrivere un romanzo, con la sua fortuna e la sua grande tradizione, significhi dare una struttura, una forma, che oggi come oggi esiste solo per un certo tipo di lettore e per ordinare gli scaffali delle biblioteche. Il romanzo ottocentesco non ha più ragione di essere, si fanno degli ibridi, delle salse, documentari di finzione. Siamo al punto che Carrère, ad esempio, si domanda giustamente perché e come l’Io può entrare in un romanzo realista. Il ‘900 è stato un secolo corto ma feroce, malleabile, molte cose sono finite e le nuove sono venute su con meno chiarezza che in passato. Tra prosa e poesia, come tra finzione e realtà, ad esempio, mi sono reso conto presto che la distinzione non aveva più senso. Ci sono quasi troppe possibilità, come con le vite. E scrivere allora diventa una malattia dalle infinite diagnosi. Ma il sintomo è sempre quello: ti illude di essere ciò che non sei, di confrontarti col mondo e di assumerlo, ma è appunto un’illusione.

Ha scelto allora la via della brevità. Nel suo caso però non mi sembra dettata da ragioni ludiche o virtuosistiche ma da una sorta di duello a pezzi con la vita. Ragioni esistenziali insomma. Certo c’è il diaframma spesso tagliente dell’ironia. Questo però si staglia su un fondo di cognizione dolente, quasi tragica, della vita.     

La brevità nasconde le peggiori lungaggini. La brevità è una sfida, lo era anche per gli antichi che hanno messo a punto la retorica, cosa che oggi non vogliamo più fare, eppure loro li leggiamo ancora. Credo sia decente e decoroso passare il pomeriggio a trovare una parola anziché un’altra. Ci sono scrittori che dicono che la frase breve ti dà l’immortalità. Un difetto però è la clausola, che alcuni hanno elogiato. Cercare la frase finale ad effetto è sbagliato. Il problema dell’essere breve per me coincide con il problema dello stile, che è l’unico che mi occupa. Come sarò breve? Dipende dall’immaginazione e dall’impaginazione, che non è affare del tipografo. Sento il paratesto essenziale, fondamentale, più importante del testo stesso. Se mi chiedi di scrivere un libro di 400 pagine non ce la faccio, mi basta scindere ancora la già breve brevità. Di ironia invece non ne va troppa, non la devi segnalare, la migliore è quella che non si vede. Serve certo per mitigare un po’ il risucchio tragico che ogni vita porta con sé. Ma l’autore non dimentica mai ciò che sta facendo, cioè un prodotto a uso e consumo suo e di chi legge.  

C’è la tradizione classica del genere biografico, poi i racconti moderni di vite. Schwob inventava vite di cui si sapeva poco e Borges inventava vite ben conosciute. Per altri rivoli si arriva alla biofiction contemporanea, dove anche l’Io di chi scrive entra in maniera problematica nel testo. Cosa c’è di autobiografico nella sua opera e c’è un “diritto alla biografia”, come l’ha chiamato Lotman?

Il mio approccio resta classico, anche nella lingua che a volte piego all’ironia ma resta un italiano non di oggi, non d’informazione. Resto classico anche nella sostanza, nel senso del velo finzionale che spesso i biografi antichi assumevano come ovvio. Io cerco la fedeltà alla vita ma per forza il velo del sogno, che è la scrittura, nasconderà qualcosa e rivelerà qualcos’altro. La biofiction di oggi è tipica di una società che non ha riferimenti, postuma, eppure molto assomiglia a come lavoravano Tacito o Senofonte. Se poi parliamo di diritto alla biografia, sono certo di sì, senza distinzioni o riserve che non siano quelle per compilare i miei libri. Poi io ci entro come spettatore e spettacolo. Il filtro autobiografico è già presente quando leggo e la mia memoria privata, se non diventa un inutile trucco o un talismano, entra naturalmente nel flusso della vita di tutti. Con in fondo il sospetto che cercandola altrove, in mezzo alle altre vite, la ritrovi più vera.


E. Baroncelli, Libro di furti. 301 vite rubate alla mia, Palermo, Sellerio, 2021, 304 pp., € 14.