1.

Cometa schiva e luminosa del Novecento, Julien Gracq (pseudonimo di Louis Poirier) era in Italia praticamente introvabile e sconosciuto finché nel 2017 L’Orma (editore a cui si deve anche la prima edizione italiana di Annie Ernaux) non ha ripubblicato La riva delle sirti (1951), il capolavoro dell’autore che gli valse il Premio Goncourt. Premio ottenuto, come titolò «L’Aurore», malgré lui, e che Gracq – fedele alla polemica portata avanti dalla corrente a cui sentiva di appartenere, il surrealismo – addirittura rifiutò. D’altronde, già nel 1950 aveva scritto La Littérature à l’estomac (José Corti Editore), un attacco feroce ai letterati del suo tempo e, soprattutto, ai premi letterari: quello che oggi valuta e definisce un’opera letteraria, sostiene Gracq in questo pamphlet apertamente polemico, non è più il suo intrinseco valore artistico ma il rumore che le si agita intorno, il chiacchiericcio e il movimento che riesce a sollevare: le bruit. Meccanismo che inevitabilmente sacrifica la durata della qualità letteraria a favore dell’immediatezza impressionistica, della capacità di un testo di destare attenzione e fare notizia. Una posizione, quindi, di netta contrapposizione nei confronti della critica, accusata di costituire un mediatore troppo invadente fra l’autore e il suo pubblico. Per paradosso, La riva delle Sirti ha finito col godere del chiacchiericcio legato a questa polemica, facendone non solo il capolavoro di Julien Gracq – come indubbiamente è – ma anche il suo libro più noto. Da qui la scelta naturale, da parte de L’Orma, di iniziarne l’edizione proprio da lì.

Il mondo de La riva delle Sirti ruota intorno a Orsenna, città di antiche glorie, una sorta di fantasmagorica reinvenzione di Venezia, sospesa in un’assente ma persistente guerra contro un nemico invisibile al di là della costa, il Farghestan. C’è una trama, che si snoda intorno ai fantasmi purgatoriali di una non-guerra; e c’è un protagonista, Aldo, insieme a molti personaggi e un vasto mondo immaginario, scandito da proprie leggi e costumi. Ma tutto questo è secondario, rispetto al vero evento dell’opera: la lingua. Una lingua-mondo, dove Gracq tocca i suoi vertici stilistici: una lingua proustiana, che attraversa, pesa e misura ogni azione, ogni roccia, ogni prospettiva che appare sulla pagina in un ralenti estenuante e densissimo – prospettive smisurate e ignote, che ricordano le opere di Joseph Conrad e i fotogrammi di The Terror. Giusta la scelta di conservare la traduzione di Bonfantini (con cui l’opera era uscita nella collana «Medusa» di Mondadori nel 1952) che, lungi dal risultare antiquata, restituisce alla lingua dell’autore quella consistenza e quella distanza che, forse, nella migrazione in un altro idioma solo il tempo riesce a conferire. Un tempo che nel libro è tutto rivolto verso il futuro, un’attesa perenne di qualcosa che potrebbe accadere ma non accade mai: la lingua di Gracq, che si nutre continuamente del modello proustiano pur senza dichiararlo mai, non ricerca il tempo perduto, ma vuole raggelare il tempo presente: crea un’impalcatura di suggestioni così palpabile da fornire l’illusione di un tempo sospeso, forse artificiale. Da qui la temperatura sempre purgatoriale del libro. Come Morten Strøksnes che nel Libro del Mare scruta le profondità in attesa dell’antico cetaceo, come Giovanni Drogo che dalla Fortezza Bastiani scruta il deserto dei Tartari, così Aldo vigila in attesa sulle coste del Regno, immerso in una contraddizione primordiale di desiderio e paura. Come scrive Roger Aim in Julien Gracq, l’ultimo dei classici (2014, Portaparole): «L’attesa, pietra angolare che struttura e organizza i suoi romanzi, è uno spazio romanzesco che non guarda né il passato, né il presente, né il futuro».

Amico intimo di André Breton – a cui dedicherà un fulminante saggio critico – Gracq è lontanissimo da quell’écriture automatique che l’amico aveva inaugurato con Le champs Maqnetiques nel 1919: il pensiero cosciente dell’autore, tiene le redini e plasma tutta la sua produzione letteraria, in un’opposta, ferrea volontà di controllo stilistico, di fondazione del dettaglio, in quello che oggi chiameremmo un disperante e scrupoloso world building metafisico. Al di qua di un impegno politico di matrice surrealista – da Gracq più militato che espresso – resta nel romanzo la convinzione radicale che un atto linguistico perfetto sia l’atto politico più importante per uno scrittore.

2.

«Infastidito come sono sempre, ai confini di una città dove pur basterebbe poco a sedurci…» –  inizia così Libertà Grande di Gracq, uscito lo scorso 29 ottobre sempre per L’Orma nella traduzione di Lorenzo Flabbi (Liberté grande, 1946). Di mezzo, nel 2018, c’era stato anche Acque Strette (José Corti 1976), che con Libertà Grande presenta molti punti di comunanza. A partire dal ruolo centrale svolto dagli elementi naturali e dalla forma perentoria del pensiero-frammento, il libro ruota intorno al tema del paesaggio, tema centrale per uno scrittore che, come Gracq, è stato geografo professionista, e che già in Lettrines scriveva: «Non dimentico mai un paesaggio che ho attraversato». Acque strette è, secondo François Bon, «una lezione di poetica senza averne l’aria». Dedicato alle acque del fiume Evré, il libro sembra una passeggiata dalla parte di Swann: l’infanzia dell’autore riemerge continuamente dal paesaggio in forma di ricordi, immagini, lampeggiamenti di fantasmi. Lo stile verticale dello scrittore cita e rievoca gli autori fondamentali della sua cartina letteraria: Poe, Nerval, Valery, Balzac.

Libertà grande si svolge invece come una vera e propria prosa poetica: è infatti la poesia la costante misura degli scritti di questo autore, un lirismo cercato e calibrato nella misura di ogni frase, qui utilizzato in uno spezzato narrativo metafisico e intermittente, in uno stile che conserva la dirompente libertà espressiva del surrealismo all’interno della strutturazione classica e delle convenzioni narrative. Fulminee discese liriche in cui si concretizza un’occasione narrativa, un’avventura istantanea quanto il passaggio di una frase: «Bisogna alzarsi presto per vedere sorgere il giorno all’orizzonte della banchisa, nell’ora in cui il sole delle latitudini australi si diffonde lontano dai sentieri sul mare. Miss Jane aveva con sé un parasole, e io un elegante fucile a due colpi». Potrebbe essere l’inizio di una lunga epopea, ma è solo l’inizio di un’alba che esplode sulle distese ghiacciate. È sempre sull’attimo che lavorano questi testi brevi: un nubifragio, un’ora tarda nella notte, una passeggiata. O su luoghi colti in fuga: basiliche, giardini pensili («le ore scivolano tra le frasche senza sforzo e senza lasciar traccia…»), praterie oceaniche in cui «mi sono sentito sciogliere nell’erba muscolosa e irsuta». Gracq ci trascina da una «Parigi all’alba», dove «c’è in ogni traiettoria un passaggio a vuoto che trattiene il cuore dal battere e divarica il tempo», sino alle Fiandre olandesi, dove «è bello guidare al fresco della sera su queste strade cespugliose e sorde, e presto si giunge a dubitare che conducano a una qualsiasi destinazione». Senza alcuna destinazione: è questa la meta del viaggio, che vediamo snodarsi tra suggestioni tanto realistiche quanto puramente mentali: piccole conquiste, cose comprese solo per un secondo, intuizioni afferrate precariamente, per arrivare forse alla conclusione che «tanta bellezza è mortale».

3.

Se Antonio Prete conia per la produzione leopardiana l’espressione pensiero poetante, per Gracq si potrebbe parlare di lingua poetante: una prosa cioè che cerca la sua potenza nelle temperature della poesia. Senza mai entrare nel flusso poematico né in un accenno di versificazione, la lingua di Gracq rinuncia a ogni compromesso con la narrazione tradizionale, e tuttavia la conserva sempre – come una nostalgia, un archetipo superato di cui si è dimenticata l’affezione. Se il pensiero leopardiano si sviluppa sul guizzo dell’intuizione poetica, in Gracq è il fuoco linguistico che dà il via ad un universo poetico: i paesaggi narrativi costituiscono per lui il teatro dove scatenare l’evento del linguaggio, nel tentativo tenace – e, questo sì, volutamente politico – di evitare ogni compiacenza, ogni convenzione predefinita, ogni compromesso. Un atteggiamento letterario che è stato anche una condotta di vita, eremitica e distante, come ciò che a volte forse desideriamo nella “poesia”: una parola inafferrabile, generatrice di stupore, dolore, meraviglia e sgomento.


Julien Gracq, Libertà grande, trad. L. Flabbi, L’Orma, Roma 2021, 152 pp. 16,00€